Il Covid-19, l’inadeguatezza del capitalismo e la necessità della pianificazione
Una crisi potenzialmente più profonda di quella del 1929
Quella davanti a cui ci troviamo è una sorta di “tempesta perfetta”, che dimostra l’inadeguatezza storica del modo di produzione dominante, quello capitalistico. Infatti, la Pandemia del Covid-19 interviene in un momento delicato per l’economia mondiale, in cui la ripresa ciclica perdeva vigore anche a causa di eventi come la Brexit, i dazi protezionistici e il rallentamento dell’economia tedesca. In gran parte del mondo più avanzato e industrializzato le attività sono bruscamente rallentate e in certi settori fondamentali sono del tutto o quasi del tutto ferme. Metropoli come New York, Madrid e Milano sono in quarantena.
Solo in Italia si calcola che il 60% delle attività produttive sia bloccato. Ciò significa che ogni settimana si perdono 10-15 miliardi di Pil. I primi decreti del governo hanno bloccato a casa quasi otto milioni di lavoratori pari al 44% dei dipendenti attivi, ma tale percentuale è destinata a crescere per i nuovi blocchi previsti dal governo. L’entità della perdita di Pil e soprattutto di aziende e posti di lavoro dipenderà dalla durata della serrata che, a sua volta, dipenderà dalla durata della pandemia. Gli esperti dicono che anche dopo il superamento del picco bisognerà mantenere in atto misure di contenimento, che continueranno a gravare sull’attività produttiva anche perché prima di avere la disponibilità di un vaccino passerà un anno e c’è la possibilità che a dicembre prossimo si verifichi una recrudescenza della pandemia influenzale. Secondo le parole di Draghi le conseguenze economiche e lavorative della pandemia saranno “bibliche”.
La crisi del covid-19 sarà molto più grave della crisi del 2009 e di quella dei mutui del 2011, prospettandosi il pericolo di una vera e propria depressione come nel ‘29. Nel 2009 il Pil mondiale registrò il primo decremento dalla fine della Seconda guerra mondiale con il -1,28%[1].
Questa volta si prevede una decrescita dell’economia globale per il 2020 del -2,3%, secondo la banca internazionale svizzera Julius Baer’s, e del -2,6% secondo la statunitense Wells Fargo. Solo negli Usa Morgan Stanley prevede nel secondo trimestre di quest’anno un calo del Pil del -30%. Per l’Italia il Centro studi Confindustria prevede un calo di almeno il -6% del Pil, persino superiore al decremento del ’29 (-4,6%), e soltanto a patto che la crisi pandemica si arresti a fine maggio con la riapertura del 90% delle attività.
Mentre nel 2009 al crollo delle economie dei Paesi avanzati (-2,53% negli Usa e -5,62% in Germania) fece da compensazione la forte crescita cinese (+9,65%), oggi, la Cina non può garantire quegli stessi tassi di crescita, essendo stata la prima nazione a patire il blocco economico per il Covid-19. Si prevede che il gigante asiatico chiuderà l’anno, se gli effetti del Covid-19 dovessero protrarsi fino a secondo trimestre, al +4,9%, cioè al livello più basso degli ultimi venti anni, non potendo così assumere il ruolo di traino dell’economia mondiale come fu nell’ultima crisi.
Che la situazione sia particolarmente grave è dimostrato dall’entità degli stimoli monetari che le banche centrali hanno messo in campo, e che sono pari al 10% del Pil mondiale a fronte del 6,5% nel 2008-2009 e dagli interventi statali, che ad oggi raggiungono il 2,5% del Pil mondiale contro l’1,6% del 2008-2009. L’intervento, come al solito, è stato massiccio negli Usa, dove Trump ha messo in campo un maxi piano da 2000 miliardi, comprendente uno speciale fondo di salvataggio di 500 miliardi per le grandi imprese in affanno.
Il fallimento dell’Europa davanti alla crisi
In Europa la situazione è diversa, perché qui la struttura dell’euro e dell’unione, basata sull’austerity e sul contenimento del debito e del deficit pubblico, ostacola in alcuni Paesi, proprio quelli più colpiti dal Covid-19, l’impiego di quelle risorse massicce che sarebbero necessarie per far fronte alla pandemia e soprattutto alla crisi che ne scaturirà.
A poco è servito che i vincoli del fiscal compact, in particolare il limite del 3% al deficit, siano stati temporaneamente sospesi. Infatti, per poter spendere, gli stati devono emettere titoli di stato e indebitarsi sul mercato, facendo crescere il deficit e soprattutto il debito pubblico. Il problema è che alcuni stati, come la Germania e l’Olanda, hanno un indebitamento molto basso, intorno al 50-60% sul Pil, mentre l’Italia ha un indebitamento del 135% e Francia e Spagna intorno al 100%. Mentre la Germania e l’Olanda pagano sul loro debito tassi d’interesse molto bassi, l’Italia paga interessi molto più alti e quindi emettendo debito aggiuntivo – si ipotizza nel 2020 di raggiungere il 5% di deficit e il 150% di debito pubblico -, si troverebbe a dover pagare interessi in modo proporzionalmente più alto e potenzialmente insostenibile. Quando la Lagarde, presidente della Bce, all’inizio dell’emergenza Covid-19 ha improvvidamente dichiarato che non era compito della banca centrale contenere lo spread – cioè la differenza tra il tasso d’interesse dei titoli della Germania e quelli degli altri stati, il differenziale tra Germania e Italia è schizzato ai massimi. Successivamente la Lagarde è tornata sui suoi passi varando un nuovo programma di acquisti di 750 miliardi fino a fine anno rivolto ai titoli di stato europei (Peep), togliendo anche il limite del 33% dei titoli acquistabili.
Ciononostante il problema rimane, perché l’acquisto di titoli, come del resto in tutti gli acquisti dell’epoca Draghi, è rivolto a tutti i Paesi, Germania compresa, e perché c’è comunque un limite finanziario determinato all’acquisto del debito sovrano. Una soluzione sarebbe la vecchia proposta di Prodi di emettere degli euro-bonds, definiti per l’occasione corona-bonds, cioè dei titoli europei garantiti da tutta l’Europa e da acquisti illimitati della Bce. Ma, nei fatti, gli Stati europei stanno affrontando la crisi ognuno per suo conto. Infatti, la riunione dell’eurogruppo, l’insieme dei ministri delle finanze, non è riuscita a prendere alcuna decisione condivisa, definendo soltanto un bilancio comunitario che arriva appena all’1% del Pil della Ue. Una inezia. Ugualmente senza decisioni è stata la successiva riunione del Consiglio della Ue, la riunione dei capi di governo, dove ci si è spaccati in due fonti, uno composto, tra gli altri, da Italia, Spagna e Francia e l’altro capitanato da Olanda e Germania. Mentre i primi hanno caldeggiato l’idea dei corona-bonds, i secondi l’hanno rifiutata, sostenendo che i Paesi in difficoltà debbano rivolgersi al Mes, il meccanismo di stabilizzazione europeo, per avere i prestiti necessari. Il fatto è che il Mes, oltre a non avere le risorse sufficienti (450 miliardi in tutto), imporrebbe delle condizioni capestro, come già successo alla Grecia, al Paese che ne richiedesse i fondi, condizionandone le politiche economiche e sociali in senso restrittivo per molti anni.
Insomma davanti alla maggiore crisi dal ‘29, persino superiore a quella del 2008-2009, l’Ue e l’area euro continuano a essere una gabbia che impedisce il ricorso a politiche anticicliche, almeno in alcuni Paesi. Mentre la Germania si è potuta permettere uno stanziamento iniziale di 500 miliardi, l’Italia si è dovuta limitare alla del tutto inadeguata cifra di 25 miliardi. Si sta dimostrando ancora una volta l’intima rigidità del sistema europeo agli shock esterni, già vista nella crisi precedente, che sfociò nella crisi dei debiti sovrani nel 2011, durante la quale, anziché ricorrere a politiche espansive, si effettuarono dei tagli sulla spesa pubblica, i cui risultati stiamo vedendo oggi in termini di difficoltà del sistema sanitario nazionale, persino nelle aree più ricche del Paese, a fare fronte all’emergenza Covid-19.
Le contraddizioni del sistema capitalistico alla base della crisi
Ma il vero punto cardine di tutta la faccenda non sta nel Covid-19, bensì sta nella intrinseca fragilità del sistema capitalistico. Il modo di produzione capitalistico presenta da parecchi anni una sovraccumulazione di capitale nei suoi centri principali, in particolare in Usa, Europa e Giappone.
Ciò significa che si è accumulato troppo capitale perché questo possa realizzare il saggio di profitto adeguato: si realizza quella che Marx chiamava la caduta tendenziale del saggio di profitto[2]. In questo modo rischia di incepparsi il meccanismo di accumulazione stesso, basato sul continuo accrescimento del capitale, che è sintetizzato dalla formula D-M-D’, che significa investire capitale-denaro (D) per produrre merci (M), contenenti un plusvalore, che, una volta realizzato mediante la venduta delle merci stesse, determina un incremento del capitale-denaro investito (D’).
Nei primi anni 2000 si era pensato di risolvere il problema con l’economia a debito. I consumatori ottenevano facilmente prestiti dalle banche per acquistare le sempre più ingenti merci prodotte ai prezzi ritenuti adeguati dagli investitori, permettendo così il completamento del ciclo d’accumulazione capitalistico. Il meccanismo si spezzò, però, quando nel 2007 scoppiò la bolla finanziaria che sosteneva tutto il sistema dell’economia a debito. Le banche erogatrici dei prestiti, piene di crediti inesigibili, si ritrovarono prossime al fallimento e lo Stato dovette intervenire, trasformando il debito privato delle banche in debito pubblico, che a sua volta portò alla crisi dei debiti sovrani, che culminò con la crisi greca. La situazione venne momentaneamente e parzialmente risolta soltanto con la determinazione di Draghi, allora presidente della Bce, di fare tutto il necessario per sostenere i debiti sovrani e di conseguenza la stessa esistenza dell’euro con programmi di acquisto dei titoli di Stato da parte della Bce. Quindi, già allora si vide come il modo di produzione capitalistico non può sopravvivere senza stimoli artificiali e soprattutto senza l’intervento dello Stato, che salvò le banche e le imprese in difficoltà.
Oggi la situazione è molto diversa e più difficile, perché il problema non si riduce alla carenza di domanda. il meccanismo di accumulazione è di fatto interrotto sia nella prima fase, D-M, perché molti settori hanno interrotto la produzione, sia nella seconda fase M-D’, perché l’acquisto delle merci e quindi la realizzazione del plusvalore non avviene.
Non basta sostenere la domanda, come predicano le teorie neokeynesiane. Siamo, infatti, sull’orlo di un vero e proprio crollo del sistema. Le imprese non riescono né a produrre né a vendere e, rimanendo in questa condizione per un tempo lungo, potrebbero mancare, anche qualora il mercato ripartisse, della necessaria liquidità che permetta di saldare i debiti e rinnovare il ciclo d’accumulazione, l’anima della produzione capitalistica.
Alla fine della quarantena forzata le imprese rischiano di ritrovarsi nella impossibilità di riprendere le attività e di riassorbire la forza lavoro lasciata a casa, creando così milioni di disoccupati permanenti. Pensiamo che nel solo settore turistico, che è del tutto bloccato e che richiederà molto tempo per tornare a girare a pieno ritmo, lavorano in Italia circa un milione di addetti contribuendo al 13% del Pil. Molte imprese dovranno chiudere o nel migliore dei casi essere assorbite da altre imprese più forti o da fondi di investimenti ricchi di liquidità, accentuando così il fenomeno della centralizzazione del potere economico in poche mani.
Sostituire la produzione capitalistica con la produzione pianificata e sociale
Se la crisi del 2008-2009 ha spazzato via il 25% della capacità produttiva della manifattura italiana, possiamo immaginare gli effetti della crisi che è appena iniziata.
Questo dimostra alcune cose. La prima è che il modo di produzione capitalistico, basato sul profitto e sul mercato, non è in grado di resistere a shock come quello del Covid-19. La seconda è che le contraddizioni del sistema capitalistico e dell’area euro, già manifestatesi nella crisi di dieci anni fa, si ripresentano approfondite nella crisi attuale. La terza è che c’è bisogno di un cambio di paradigma all’interno del capitalismo stesso.
Un mutamento che vada oltre anche le ricette Keynesiane, cioè oltre il sostegno alla domanda. Il capitalismo non è qualcosa di immutabile, ma tende ad adattarsi per sopravvivere e la crisi attuale è di portata così ampia che il vecchio paradigma neoliberista, basato sulla concezione che il mercato, lasciato libero di agire, avrebbe riaggiustato prima o poi le cose, non può più funzionare. In sostanza ad essere saltata è proprio la concezione su cui si basano le politiche europee e l’area euro.
Le parole di Draghi sul Financial Times sono significative: siamo in una situazione paragonabile a quella di guerra. In guerra le enormi spese necessarie all’emergenza e ai costi della chiamata alle armi di una ampia parte della popolazione in età lavorativa si risolvono soltanto con il debito pubblico, cioè emettendo denaro da parte della banche sostenute dallo Stato e dalla banca centrale. In poche parole Draghi compie una svolta ad U rispetto alla posizione tradizionalmente sostenuta per anni: bisogna permettere al debito pubblico di crescere senza starsi a preoccupare di contenerlo. Se non si agirà così, dice Draghi, usciremo dalla crisi distrutti. Non è un caso se, dopo l’articolo sul Financial Times dell’autorevole banchiere, Conte abbia deciso di non firmare il documento uscito dall’eurogruppo, rifiutando i pannicelli caldi e la trappola del Mes, e la Lagarde, tornando indietro rispetto alle posizioni assunte poco prima sullo spread, abbia dato avvio al Pepp.
Se, però, è vero che il capitalismo stesso – per bocca di suoi autorevoli esponenti come il Financial Times e Draghi, che, non dimentichiamolo, viene dal mondo della grande finanza capitalistica – si rende conto che c’è bisogno di cambiamenti di paradigma importanti, questo non implica che le contraddizioni al suo interno vengano meno. Al contrario vengono approfondite proprio dalla gravità della fase e dalle resistenze al cambiamento che viene impresso dalla crisi. Infatti, in primo luogo non c’è accordo tra i vari capitali che compongono l’unità di quel molteplice che è il modo di produzione capitalistico. Al contrario, proprio lo scontro in atto all’interno della Ue e dell’area euro fa emergere in modo ancora più chiaro la brutale concorrenza tra capitali, attraverso la spaccatura tra i vari settori del capitalismo europeo e tra gli Stati imperialisti che li rappresentano, che abbiamo visto plasticamente rappresentata nell’ultimo Consiglio europeo.
La spaccatura tra Stati capitalistici e imperialisti più deboli e in difficoltà e Stati più forti è così profonda e grave da mettere su fonti opposti Francia e Germania, sebbene soltanto un anno fa avessero firmato il trattato di Aquisgrana, che avrebbe dovuto sancire l’Ue a trazione franco-tedesca. In secondo luogo, la nuova “grande trasformazione”[3] che, così come accadde negli anni ’30 del secolo scorso, sembra si stia profilando all’orizzonte, è diretta a sostenere l’accumulazione capitalistica e le imprese. A essere sostenute saranno soprattutto le imprese grandi e internazionalizzate, magari aiutandole a centralizzare la produzione, realizzando “campioni” nazionali o europei, anche attraverso temporanee nazionalizzazioni, che servano a salvare le imprese più in difficoltà. Ai lavoratori andranno le briciole. Anzi, la crisi sarà utilizzata per colpire le posizioni negoziali di questi ultimi, indeboliti dalla nuova disoccupazione di massa che si sta già profilando a pandemia in corso.
Il vero tema è, come dice Draghi, non se ma come avverrà che lo Stato utilizzerà il suo bilancio. Il nuovo paradigma, anche se riuscirà a vincere, almeno temporaneamente, l’opposizione alla spesa pubblica finanziata da deficit di bilancio e far accettare gli aiuti di stato per salvare imprese ritenute strategiche nazionalmente, come sta accadendo con Alitalia, non riuscirà a far accettare l’idea di nuovi investimenti che vengano gestiti direttamente dallo Stato. I finanziamenti pubblici devono, all’interno del capitalismo, sostenere l’impresa privata: l’uomo d’affari rimarrà l’intermediario attraverso cui viene condotto l’intervento.
Al contrario questa crisi dimostra la necessità che lo Stato, il pubblico, non si limiti a offrire liquidità alle imprese, o a finanziare opere infrastrutturali, ma che entri direttamente nella produzione di beni e servizi, anche nei settori dove è presente il privato.
In definitiva, la crisi del Covid-19, soprattutto, ripropone la questione di cui non si parla da molto tempo e che per qualche decennio dopo la seconda guerra mondiale fu al centro della discussione degli economisti e non solo, quella della pianificazione economica. La pandemia, infatti, dimostra in modo esemplare l’intima fragilità dell’accumulazione capitalistica e la necessità di una produzione sociale al posto di quella privata capitalistica. Solo una produzione sociale, svincolata dalle regole del profitto e del mercato, può soddisfare i bisogni dell’umanità e affrontare i problemi posti alla società dall’economia e dallo sfruttamento intensivo della natura.
Intanto saranno i rapporti di forza e la capacità di lotta che eventualmente si svilupperanno con la crisi, una volta che la quarantena sarà superata, a definire la distribuzione delle risorse tra profitti e salari. Più sulla media e lunga distanza questa pandemia, pur nel dolore e nelle sofferenze che ha causato, potrebbe essere l’occasione, come in ogni vera profonda crisi, per rimettere in discussione non solo il paradigma neoliberista, già in via di modificazione da una parte del capitale stesso, ma soprattutto il paradigma capitalista in sé stesso.
Una forza politica che fosse davvero “storica”, cioè che aspirasse a candidarsi all’egemonia, dovrebbe sfruttare la condizione materiale presente e tentare di inserirsi nelle contraddizioni ormai evidenti del capitale, tentando di allargarle e costruire organizzazione e antagonismo.
Un compito che non può prescindere dal porsi la questione della rottura della Ue e dell’euro, che hanno ormai dimostrato con tutta evidenza la loro reale funzione.
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[1] Unctad, data center
[2] La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è spiegata da Marx nel III libro del Capitale, nei capitoli XIII-XIV.
[3] La Grande trasformazione di Karl Polanyi è il libro in cui si parla del fallimento del mercato autoregolato dopo la crisi degli anni ’30 e del mutamento di paradigma che allora il capitalismo assunse.