L’unità della sinistra negli anni ’90 e i problemi strategici dei comunisti oggi 1/2
Uno dei traumi originari e dei fattori di crisi del movimento comunista italiano degli ultimi decenni è senza dubbio la partecipazione ai governi del centrosinistra. La travagliata esperienza e i risultati deludenti di quella fase hanno rappresentato un elemento decisivo nella progressiva erosione della base di consenso dei comunisti, e uno dei punti – se non il punto – di radicali divergenze strategiche e conseguenti scissioni.
Tracciare un bilancio di quegli anni e del decennio successivo è un’operazione complessa, che non può essere esaurita da un singolo intervento e richiede al contrario un lavoro di comprensione collettiva, necessario affinché coloro che sono impegnati nella riedificazione del movimento comunista in Italia siano partecipi di una ricostruzione condivisa della storia e delle alternative in campo – le quali, si vedrà, rappresentano ancora oggi opzioni tattiche e strategiche che esercitano una seduzione sull’area comunista. Per determinare una via diversa, di non facile individuazione e di impervia percorribilità, occorre necessariamente passare attraverso una conoscenza esatta delle vie dalle quali ci si vuole distanziare.
Si deve soprattutto evitare che nuove generazioni di comunisti familiarizzino con la teoria e la prassi comunista attraverso schemi ossificati – di destra, di sinistra, di centro – che hanno già clamorosamente fallito e sono corresponsabili della condizione di massimo arretramento storico in cui versa il movimento comunista italiano.
Il discorso vale a maggior ragione quando agli schemi di analisi e di azione ereditati si aggiunge l’elemento dell’appartenenza e della fedeltà, che spesso impedisce di affrontare in modo proficuo le contraddizioni irrisolte risalenti, come minimo, agli anni ’90 e le conseguenti divisioni. E non sarà certo il ricorso alla categoria liquidatoria e superficiale del “tradimento” a consentire ai comunisti di cogliere la complessità delle dinamiche e di sviluppare un valido antidoto alla ripetizione di pratiche inconcludenti o dannose.
Occorre invece immergersi nei documenti, nel contesto dell’epoca, nella dialettica concreta delle posizioni e nella complessità della loro articolazione, per ricostruire il quadro, individuare errori, trarre insegnamenti per il presente e per il futuro.
Non si tratta di un compito esauribile in un breve articolo, ma di un percorso di studio e di discussione che deve avere tempi distesi e non essere privo di uno spirito anche genuinamente storiografico, non separato da una tensione politica volta a elaborare valide strategie per la fase che attualmente ci riguarda. Il superamento della frammentazione tanto a livello politico quanto a livello sindacale non può che passare per la responsabile assunzione di questo compito di rielaborazione collettiva plurale, ma non piattamente pluralistica: lontana, cioè, da quel pluralismo “parlamentare” in cui i molti convivono giustapposti e si limitano a rappresentare sé stessi senza mai pervenire a integrazione; una dinamica del tutto sintonica con quella, opposta, di integrazione “monistica” coatta, verticistica e burocratica. Due atteggiamenti psichici e due modalità organizzative di cui è conclamato il carattere perdente.
Questo lavoro di rielaborazione dovrebbe, auspicabilmente, riguardare l’intera storia del movimento operaio, attraverso una tribuna di discussione permanente. Con questo contributo ci limitiamo invece ad avviarlo in riferimento alla storia recente del comunismo italiano, senza pretese – anche su questo terreno più circoscritto – di esaustività e completezza, e tuttavia con la speranza di fornire punti di discussione utili al rilancio della questione comunista.
- Una vicenda paradigmatica: il Movimento dei Comunisti Unitari
Quando si pensa alle molteplici scissioni che hanno attraversato il Prc nel corso della sua storia, si risale quasi sempre alla scissione “governista” di Cossutta, che nel 1998 scelse la via della continuità dell’esperienza del centrosinistra, dando appoggio alla nascita del governo D’Alema. Qualche anno prima, però, vi fu una scissione meno frequentemente ricordata, prodotta nel giugno del 1995 da parlamentari e dirigenti di varia provenienza, tra cui esponenti di primo livello dell’ala “ingraiana”, animatrice del manifesto e poi del PdUP (Luciana Castellina, Lucio Magri e altri).
L’occasione, i punti e le ragioni di quella scissione sono rilevanti, tanto per la storia del movimento comunista italiano quanto per le questioni strategiche odierne, perché esibiscono in forma paradigmatica quel rapporto dilemmatico con la partecipazione ai governi borghesi che ha caratterizzato fin dall’inizio i comunisti “sopravvissuti” alla svolta della Bolognina e ha continuato anche nei decenni successivi a condizionarne la teoria e la prassi.
La crisi del ‘95 rappresenta il primo caso in cui la questione del governo e del centrosinistra da un lato, e la questione del contrasto alle destre dall’altro, determinano una divisione strategica e una separazione organizzativa nel campo comunista degli anni ’90. Dopo il II Congresso del 1993, infatti, il Partito della Rifondazione Comunista si era posizionato senza rilevanti lacerazioni sulla linea di “unità e alternativa”: unità del fronte dei Progressisti e delle sinistre, finalizzato all’alternativa di governo. La sconfitta elettorale del ’94, la caduta del primo governo Berlusconi e l’avvento del governo Dini cambiarono le cose. L’appoggio del Pds al governo, cui Rifondazione invece si oppose chiedendo elezioni immediate, incrinava la linea strategica di unità d’azione dei comunisti con il Pds. Quando nel marzo del 1995 il governo pose la questione di fiducia sulla manovra finanziaria correttiva, un gruppo di senatori dissidenti del Prc votò a favore, risultando decisivo per l’approvazione della manovra. Nacque, tra mediazioni fallite e calunnie incrociate (“Vermi solitari” fu il titolo di Liberazione all’indomani del voto di fiducia), il Movimento dei Comunisti Unitari. Anche Rifondazione, tuttavia, avrebbe presto riparato su un prudente “patto di desistenza” con l’Ulivo e sulla tattica di un conseguente appoggio esterno al primo governo Prodi. Dini no, Prodi si: così la mozione Bertinotti-Cossutta per il III Congresso riconfermava, nel mutato quadro della vittoria elettorale del centrosinistra, le conclusioni del congresso precedente: “influenzare l’esperienza del governo Prodi affinché il paese possa vivere un nuovo corso riformatore”.
- Quattro obiezioni degli “unitari” all’autonomia dei comunisti
È opportuno, per avviare questa discussione storico-strategica sulle posizioni “unitarie” e per impostarne una critica, partire da alcuni passaggi delle riflessioni condotte in quel periodo da Lucio Magri: uno degli animatori ideologici principali della scissione, che esemplifica per così dire la forma aulica dell’errore strategico – che non di rado ha assunto invece tinte ben più prosaiche – compiuto sia nella problematizzazione che nella promozione dell’organicità dei comunisti al centrosinistra.
Il sostegno al governo Dini, e in generale la necessità della partecipazione dei comunisti al “governo” venivano giustificati anzitutto con la tesi secondo cui sussistono “rapporti di forza in Italia e nel mondo, che non solo rendono impensabili rotture immediate e radicali, ma impediscono al movimento di massa nuove conquiste e anche solo un’efficace resistenza ove non si riesca a produrre una svolta politica e ad usare anche gli strumenti di governo”. Così Magri in una nota di commento a caldo sui dissensi interni a Rifondazione nel 1995.
In quest’ottica, “usare gli strumenti di governo”, lungi dall’essere una formula neutra, significava farsi trainare al governo da un più ampio e potente partito socialdemocratico, nel quadro di un’alleanza con forze cristiano-popolari e liberali,
pena l’isolamento, la segregazione, l’impossibilità di incidere. All’obiezione classica del “settarismo”, formulata esplicitamente nella lettera del 14 giugno 1995 con cui i dirigenti e i parlamentari dissidenti sancivano la loro uscita dal partito, si aggiungeva dunque l’obiezione, altrettanto classica, dei “rapporti di forza sfavorevoli”.
La terza obiezione, anch’essa assai familiare, puntava invece sulla consueta minacciosità delle destre, che rendeva inevitabili le alleanze con le forze borghesi. Così Magri, in una relazione pronunciata durante un’assemblea dell’area unitaria al Frentani, sempre nel 1995:“La nuova destra costituisce una novità radicale e minacciosa nella linea delle classi dominanti, […] perciò impone, e insieme consente, la costruzione di alleanze e convergenze”. Convergenze da ricercare, inoltre, non nella forma del mero cartello elettorale, praticato anche da Rifondazione comunista, bensì in quella dell’alleanza organica.
Dinanzi a una socialdemocrazia che già inseguiva ostinatamente il centro e a una formazione comunista che sceglieva (invero con una volontà non particolarmente salda) l’isolamento di principio, Magri vedeva contrarsi irrimediabilmente lo spazio di una sinistra capace di governare lo sviluppo capitalistico in una maniera più razionale di quella proposta dalla destra. Più razionale, si badi, tanto dal punto di vista dei lavoratori, quanto e soprattutto dal punto di vista del capitale: l’utopia di un capitalismo gestito e domato da sinistra, da un lato in modo più efficiente e produttivo, dall’altro con maggiore equità e con minori costi sociali. La percorribilità di questa strada si scontrava a nostro giudizio, e continua a scontrarsi nelle attuali versioni riformiste della sinistra radicale, con almeno due ostacoli: come armonizzare, da posizioni di governo, interessi di classe contrapposti, senza predisporsi a co-gestire il sacrificio della propria classe di riferimento sull’altare del governo – e del profitto capitalistico? Come conciliare il ruolo di governo con il ruolo di direzione nel conflitto di classe, senza rinunciare a una delle due funzioni – cioè alla seconda?
Contraddizioni non risolvibili, se “governo” rimane sinonimo di coalizione con le forze borghesi, anche soltanto con una socialdemocrazia gravemente compromessa con gli obiettivi di riproduzione del capitalismo.
Le riflessioni di Magri, condotte in quella fase da una posizione opportunistica e “governista” di destra, colgono invece nel segno nell’individuare, proprio in riferimento al tema del governo, alcune delle tendenze opportunistiche “di sinistra” presenti nella linea maggioritaria della Rifondazione dell’epoca e alcuni dei limiti strutturali teorici e pratici che ne hanno pregiudicato il decorso:
“La responsabilità di questo stato di cose, in Italia e in Occidente, deve essere anzitutto attribuita alla crisi di identità, alla omologazione culturale, alle genericità programmatiche della sinistra moderata e sempre più moderata. […] Ma siamo altrettanto convinti – ecco il punto – che il problema non si risolve, anzi si contribuisce ad aggravarlo, se agli errori della sinistra moderata si oppone una linea che riproduce, impoveriti, indirizzi presenti nella nuova sinistra degli anni ’70”.
Se nella prospettiva dei comunisti unitari “governo” diviene colpevolmente sinonimo di “governo borghese”, nella prospettiva dei comunisti “autonomi” l’opposizione al governo borghese finisce per degradare in rifiuto del governo in generale, o meglio nell’abbandono – divenuto via via più esplicito, a dire il vero, già nelle elaborazioni del P.C.I. del dopoguerra – della stessa prospettiva storica della conquista e dell’esercizio del potere, collocando i comunisti su una infantile posizione soltanto rivendicativa e imperniata sulla redistribuzione.
Le scelte di posizionamento parlamentare operate da Magri non erano il frutto di considerazioni meramente “politiciste”, ma pretendevano di fondarsi su un’analisi della crisi capitalistica e della composizione di classe. In questo quadro, prendeva corpo una quarta obiezione all’autonomia dei comunisti, che chiameremo “sociologica”. L’idea di una “autorganizzazione dell’antagonismo”, di una capacità immediatamente conflittuale e anticapitalistica del “nuovo proletariato” costituiva secondo Magri “l’errore totale” di Rifondazione. “Una moderna critica alla società capitalistica – scriveva Magri – può avere come soggetto reale solo l’unificazione tra questo universo sociale ed altre figure in cui il lavoro si è scisso, quelle dell’intelligenza collettiva e dell’intrapresa individuale. Ed ha dunque come mai nel passato bisogno di mediazione politica, di educazione di massa, di obiettivi intermedi e di governo”.
Oltre al rischio dell’isolamento, oltre ai rapporti di forza sfavorevoli, oltre al pericolo dell’avanzata delle destre, per i “comunisti unitari” sono anche il mutamento e la frammentazione della classe a rendere inevitabile l’adesione ai governi di coalizione con i partiti socialdemocratici e liberali e a escludere l’autonomia dei comunisti. Come le “obiezioni” precedenti, tuttavia, anche questa si basa su un’equazione indebita. La mutata composizione del soggetto sociale, la sua frammentazione in una pluralità di figure e frazioni, richiede, è vero, un poderoso sforzo di mediazione. Magri non ha certo torto nel criticare l’inefficacia delle tendenze spontaneistiche e nel designarle come strategie politiche inadeguate di fronte alla crescente complessità sociale;
[Segue]ha però torto nel far coincidere la mediazione sociale, culturale, ideologica e organizzativa, di cui devono sempre farsi carico i comunisti al fine di convogliare le energie sociali verso obiettivi di lotta e di esercizio del potere politico, con la mediazione politica esercitata dal governo borghese nei confronti del pluralismo delle istanze sociali – mediazione che, al netto delle concessioni strappate dal movimento operaio, si compie sempre nel segno del dominio degli interessi di classe della borghesia.