Resistere all’attacco e contrattaccare: parola ai lavoratori della logistica
L’emergenza coronavirus che ha investito interi settori produttivi, ha rimesso nuovamente al centro della discussione il settore che più di tutti negli ultimi anni ha avuto uno slancio, in termini di enormi profitti, ma anche in termini di forti rivendicazioni operaie, quello della logistica e trasporto merci.
E così ci siamo resi contro, noi che ce ne occupiamo, di essere parte di uno dei settori strategici, indispensabili, con una funzione sociale imprescindibile ci dicono, tanto da non poter essere fermato nemmeno per un giorno, nemmeno di fronte al rischio ed alla possibilità che il settore stesso diventi, o sia già diventato, un impressionante veicolo di contagio, in quanto strumento atto a conservare quell’esigenza di consumo che è l’ossigeno del sistema capitalista.
Nonostante le iniziali mobilitazioni, organizzate o spontanee, dei lavoratori che chiedevano tutele, nonostante i decreti, le circolari, le integrazioni, le minacce di sciopero generale, gli scioperi effettuati ed il grido di allarme lanciato dalle migliaia di lavoratori del settore, dopo un mese dall’inizio dell’emergenza corrieri, magazzinieri, autotrasportatori sono ancora costantemente al lavoro, sulle strade e nei magazzini, oggi con mascherine ed igienizzanti , ieri completamente esposti, a stoccare e consegnare beni, poco importa se di prima, seconda o terza necessità, costretti quotidianamente a venire in contatto con centinaia di persone, costretti a vivere nella paura di trasportare quel virus nelle case altrui o nella propria.
E a poco servono i proclami delle multinazionali come Amazon che annunciano, dopo le proteste dei propri dipendenti e le figuracce rimediate sull’applicazione dei protocolli di sicurezza, che lavoreranno soltanto merce indispensabile, se poi questo si riduce ad una questione di marchio ed i volumi hanno superato quelli del periodo natalizio e tra le merci indispensabili, ordinabili online e impacchettate nei propri magazzini ci sono ancora oggi cappottini per i cani, oggettistica di piacere e di certo non indispensabili scarpe alla moda.
Mentre i giganti del settore, tra cui quelli dell’alimentare, triplicano i propri fatturati, con tanto di lezioni online di qualche padrone che ci spiega come fare i soldoni con questa emergenza, i lavoratori cominciano a maturare una nuova paura, quasi ad esorcizzare quella del contagio, una paura che si chiama retribuzione.
Già perché nonostante il settore vada all’apparenza a gonfie vele, tutti i soggetti coinvolti non si sono fatti sfuggire l’occasione di approfittare degli ammortizzatori sociali ed hanno già provveduto a sospendere dall’attività lavorativa parte del proprio personale, inizialmente rinfrancato dalla possibilità di ripararsi dentro casa, come richiesto a gran voce da tutti, ma costringendo chi restava al lavoro a turni massacranti per smaltire tutta la quantità di merce da lavorare.
Ma nel teatrino delle responsabilità i lavoratori in cassa integrazione oggi non sanno ancora come, quando e da chi verranno pagati. I padroni si svincolano lasciando la palla allo stato, il quale a sua volta rassicura di aver sollecitato l’Inps, e visti gli ultimi eventi la cosa non tranquillizza affatto, fino a far ricadere l’incombenza sulle banche, ben liete di anticipare somme a famiglie strozzate e in difficoltà.
Le stesse misure di contenimento delle spese, come il blocco dei mutui, allo stato attuale sono macchinose e rivolte soltanto a pochi.
In tutto questo caos l’attività di tutela dei lavoratori, la loro organizzazione, il conflitto, rimangono sospesi, tra l’impossibilità o quasi di organizzare proteste, cassate e sanzionate dalla commissione di garanzia sugli scioperi e questa sorta di limbo che impedisce qualsiasi forma di organizzazione.
Da parte confederale, la Cgil, dopo un primo momento di continuità col recente passato, probabilmente ancorata a terra da quella zavorra chiamata unità sindacale, è stata costretta dalla propria base ad alzare la voce e arrivare, seppur solo minacciandolo, a parlare di sciopero generale.
Sul versante autonomo al momento appare difficile anche utilizzare il grimaldello dello sciopero, con padroni che al momento lo accetterebbero anche volentieri pur di risparmiare sulle retribuzioni dei lavoratori, così dopo le prime importanti proteste di marzo, tra scioperi locali del SiCobas e generali dell’Usb, la situazione si è bloccata in attesa di capire come organizzare il dopo.
Perché ora siamo in piena emergenza e sono saltati tutti i cardini, ma a breve bisognerà pensare al dopo, quando ci troveremo a fare i conti con retribuzioni ancora da percepire, con padroni spregiudicati che accuseranno cali di fatturato anche dove non ci sono effettivamente stati per dimezzare il personale, per soffocare sotto la minaccia della perdita del lavoro ogni tentativo di rivendicazione.
Servirà intelligenza, coesione, unione delle lotte e capacità di lettura e, per resistere all’attacco violento che le masse lavoratrici si troveranno a fronteggiare, sarà necessario un supporto politico e militante adeguato nelle vertenze che inevitabilmente incendieranno l’autunno, in un momento storico in cui è scomparso il valore della solidarietà tra lavoratori, costretti da troppi anni culturalmente ad essere attori di una spregiudicata guerra tra poveri.
Serviranno organizzazioni comuniste di supporto ai lavoratori che facciano sentire il fiato sul collo a padroni e governanti, che sappiano valorizzare anche le più piccole rivendicazioni nei contesti in cui i lavoratori sono più ricattabili in una fase in cui il sistema tenderà a reprimere il conflitto con la paura.
Servirà tornare a fare i comunisti, non soltanto ad esserlo, soltanto in questo modo le lotte avranno la possibilità di creare quella scintilla che potrebbe finalmente incendiare la voglia di riscatto e ribaltamento del sistema che questo Paese necessita.
di Massimo Pedretti