Per sostenere la lotta dei braccianti non bastano comunicati
Fra richiami all’unità nazionale e la ribalta di personaggi grotteschi, questa pandemia ha fatto uscire allo scoperto numerose contraddizioni che per l’opinione pubblica erano fino a poco tempo fa nascoste sotto il tappeto. Oltre che di sanità, lavoro ed Europa, si torna a parlare timidamente del sistema di sfruttamento presente nella filiera alimentare. Del resto, il settore agroalimentare è in queste settimane in crisi, così come gran parte dell’economia. Confagricoltura e Coldiretti, insieme alle associazioni dei padroni di tutta Europa, chiedono manodopera a basso costo e la Commissione europea è in procinto di attivare “corridoi verdi” per la libera circolazione di forza lavoro. Nel frattempo, nelle campagne italiane si continua a lavorare senza misure di sicurezza e con salari da fame, e i braccianti si affidano alla beneficenza per poter sopravvivere.
È proprio nelle campagne, infatti, che nasce la raccolta fondi su GoFundMe intitolata “Portiamo il cibo a tavola ma abbiamo fame”. Si tratta di un’iniziativa firmata da “Paola, Abdul, Michele, Mamy, Patrizia e tanti altri braccianti invisibili”. I lavoratori scrivono: “Oggi abbiamo bisogno di voi e della vostra generosità. Siamo degli esseri umani, con uno stomaco quasi sempre vuoto, e non solo braccia da sfruttare”. La raccolta è stata fatta propria dall’USB, e sono già stati donati 85.000 euro a fronte dei 100.000 previsti. Si tratta di un’iniziativa lodevole (chi scrive ha già donato) che però lascia spazio a qualche riflessione. Anzitutto bisogna contestualizzare, seppur in maniera sintetica e schematica.
In questo periodo di Coronavirus, la situazione per chi lavora nelle campagne è drammatica. I lavoratori si trovano a faticare con salari da fame, senza misure di sicurezza e senza norme igieniche minime. D’altra parte, il settore agroalimentare si basa su un sistema di sfruttamento di cui il caporalato è soltanto la punta dell’iceberg.
Se indaghiamo sulle situazioni “regolari”, in cui i lavoratori hanno quindi un contratto, troviamo una bassa sindacalizzazione e contratti a tempo determinato brevissimi, solitamente stagionali. Le paghe sono esigue, in particolare nel Mezzogiorno, dove i piccoli produttori sono inseriti in un meccanismo di concorrenza verticale con la grande distribuzione, che si aggiudica le materie prime a prezzi irrisori. Una buona parte dei lavoratori stagionali regolari è composta da rumeni ed est-europei, che sono circa 150.000. Dopo l’adesione della Romania all’Unione Europea nel 2008, e con la libera circolazione della forza lavoro nell’Area Schengen, molte aziende agricole italiane basano la propria produzione su manodopera a basso costo proveniente dai paesi ex-socialisti. Ci sono poi marocchini, indiani, senegalesi: molti di loro arrivano in Italia per lavorare qualche mese e poi tornano a casa. La maggior parte è composta in ogni caso da lavoratori italiani. Nella tabella sono presenti dei dati frutto di un’indagine della Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti (Coldiretti). Queste informazioni ci serviranno dopo.
Addentrarsi, invece, nelle situazioni di illegalità è complicato, perché i dati a disposizione sono diversi e non spesso coerenti fra di loro. Si stima che siano 430.000 i lavoratori assunti irregolarmente: si tratta della metà della forza lavoro totale del settore. Gran parte di loro è composta da immigrati irregolari provenienti dai paesi dell’Africa Subsahariana.
In questo caso, gli stipendi sono troppo bassi per coprire anche i bisogni più elementari. Spesso i braccianti vivono in baraccopoli in cui sono assenti i servizi sanitari e l’acqua potabile, e non sono rari i casi di vessazioni fisiche e psicologiche da parte dei caporali, che fanno da intermediari fra il padrone e i lavoratori.
In questi contesti è anche molto presente la criminalità organizzata: emblematico l’omicidio di Sacko Soumayla, sindacalista USB di origini maliane, ucciso con una fucilata alla testa a San Calogero, in Calabria. Parliamo quindi di contesti di sfruttamento fortissimi, che sono stati aggravati dal Decreto Sicurezza di Salvini, che ha aumentato di centinaia di migliaia gli “irregolari”, restringendo i criteri per richiedere l’asilo.
La situazione del settore si è aggravata in periodo di pandemia: un sistema che si basa per più di un terzo sulla manodopera a basso costo non può che risentire della chiusura delle frontiere. Non tardano ad arrivare le dichiarazioni (ai limiti del tragicomico) del Presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti, che in un paese con due milioni e mezzo di disoccupati si chiede dove reperire i braccianti. In un’intervista al Corriere della Sera leggiamo: “Senza di loro (i lavoratori stranieri n.d.r.) si torna a un’agricoltura con sole braccia italiane, che a memoria non ricordo: gli ultimi campi senza immigrati saranno degli anni ‘70”.
Le richieste di Confagricoltura per ovviare alla crisi sono sostanzialmente quattro: proroga dei permessi stagionali per i lavoratori regolari stranieri; apertura di corridoi per fare circolare forza lavoro fra i paesi comunitari ed extracomunitari; “pausa” per il reddito di cittadinanza, invitando ad andare nei campi chi riceve il sussidio in cambio di un prolungamento dello stesso; assunzione di cassintegrati e studenti universitari in cambio di voucher (è più forte di loro).
La prima richiesta è già stata esaudita: il Ministero dell’Interno, infatti, ha prorogato fino al 15 giugno i permessi che sarebbero scaduti il 15 aprile.
La seconda è in dirittura d’arrivo, considerato che la Commissione europea si è già attivata con i “corridoi verdi” e che è in programma per questo mese un decreto flussi. A tal riguardo si sta prodigando Teresa Bellanova, Ministro dell’Agricoltura, che si sta impegnando a incontrare rappresentanti di altri paesi, con l’obiettivo di tessere una rete di alleanze per fare circolare liberamente la manodopera. D’altra parte non c’è da stupirsi, considerato che il sistema agroalimentare si basa ormai strutturalmente, in tutta Europa, sulla manodopera a basso costo.
La terza e la quarta richiesta sono più improbabili, ma saranno necessarie delle considerazioni. Anzitutto…
Quali prospettive per i comunisti?
L’obiettivo di organizzare i lavoratori bracciantili appare come uno sforzo titanico, considerata la scarsa sindacalizzazione di questa categoria e la presenza di forti condizioni di ricatto nelle campagne. Le poche mobilitazioni spontanee, come quella dei braccianti Sikh nell’Agro Pontino, si verificano in seguito a casi estremi di vessazione.Va considerato inoltre il fenomeno del lavoro stagionale, per cui molte persone vengono a lavorare solo per qualche mese.
L’azione nelle campagne deve essere un punto imprescindibile per qualsiasi prospettiva di azione unitaria, considerato che, nell’arretratezza generale in cui ci troviamo, non siamo fra le altre cose ancora presenti nei territori più rurali.
D’altra parte, se parliamo di sindacati, la dirigenza nazionale della CGIL conferma la propria totale inadeguatezza, limitandosi a lanciare appelli di regolarizzazione degli irregolari (si perdoni il bisticcio) al Presidente della Repubblica, in un momento in cui chi tesse le reti della filiera alimentare sta lanciando proposte folli.
Ricordandosi che la maggior parte dei lavoratori del settore è di nazionalità italiana, in un’ottica di lavoro futuro è necessario anche interfacciarsi con strutture di altri paesi, considerata la massiccia presenza di lavoratori stagionali provenienti dall’est-Europa. In ogni caso, è possibile fare qualcosa da adesso.
1. La beneficenza, che serve e servirà fino a quando ci saranno condizioni di povertà nel nostro paese, non è uno strumento che da solo assolve a quelli che sono i nostri compiti. D’altra parte, non è opportuno criticare un’iniziativa che è sorta da chi è presente nei territori e che ha l’evidente scopo di dare un po’ di voce a chi non ne ha. Quello che possiamo fare è denunciare con gli esigui mezzi che abbiamo a nostra disposizione la macchina dei buoni sentimenti che puntualmente si muove in queste occasioni, che pone in risalto l’aspetto morale tralasciando quello sostanziale, cioè di una filiera che si basa strutturalmente su un sistema criminale. Aspettiamoci considerazioni da parte di membri dei partiti borghesi o del governo.
2. Denunciare le richieste di Confagricoltura, che pur di non fare assumere lavoratori regolarmente retribuiti propone di fare lavorare dei precari dietro prolungamento di un sussidio o studenti universitari pagandoli con voucher. Si tratta di prospettive improbabili, perché fra Cura Italia e Reddito di emergenza il governo non sa evidentemente dove mettere le mani; né convince la prospettiva di fare andare a zappare gli universitari. Occorre comunque smascherare quelle parti del settore agroalimentare che, trincerandosi dietro una lotta per la legalità, propongono misure di sfruttamento feroci.
3. Fare presente che con le regolarizzazioni non finisce lo sfruttamento nei campi, seppure, in un’ottica di rivendicazioni economiche si tratti di un obiettivo intermedio chiaramente necessario – di certo non perseguibile con degli appelli.
4. Denunciare la connivenza delle istituzioni europee con il sistema di sfruttamento della filiera alimentare. Seppure non sia intrinsecamente negativa la prospettiva di scambio di forza lavoro fra i paesi, in regime capitalistico la mobilità di lavoratori non specializzati si traduce nella mobilità di manodopera a basso costo. Con il sistema dei corridoi verdi, la Commissione europea non garantisce retribuzioni dignitose per questi lavoratori, né si pronuncia sul funzionamento del sistema agroalimentare.
Per quanto riguarda ciò che non bisogna fare:
1. Non bisogna fomentare divisioni fra i lavoratori abbandonandosi a strampalate interpretazioni della teoria sull’esercito industriale di riserva di Marx, che si riferisce alla massa dei disoccupati nella sua interezza, e non agli immigrati.
2. Non bisogna appiattirsi sulla dicotomia Grande Distribuzione Organizzata – piccoli imprenditori, perchè questa dicotomia da sola non rende la complessità di un fenomeno. In determinati settori esiste una concorrenza verticale feroce che fa abbassare i prezzi; d’altro canto, questo non ci mette nelle condizioni di assumere l’ottica dei piccoli o medi produttori. Un conto sono i produttori individuali, contadini proprietari che coltivano direttamente i propri campi, altro aziende che rientrano nel concetto di piccola o media produzione che però dispongono di forza salariata prevalente. Nei 10 cluster dediti all’agroindustria e alla produzione alimentare, la maggior parte delle attività produttive è costituita da piccole e medie imprese. Il capitalismo italiano è storicamente fatto di piccole e medie attività che lavorano in scenari di elevata concorrenza, seppur con frequenti partnership. Da comunisti, dire che i piccoli e medi imprenditori non hanno nulla a che fare con gli episodi di sfruttamento è una bugia, detta per ingoranza o malafede. Il fenomeno del caporalato è alimentato anche da quei settori della filiera che non sono propriamente definibili “grossi”, ma che fanno utilizzo di manodopera salariata spesso in condizioni di elevato sfruttamento.
In questo momento di quarantena, piena solidarietà ai braccianti, con ferma convinzione che i comunisti non si devono limitare a dare solidarietà. Occorre entrare nella mentalità che il lavoro non si fa a suon di comunicati, ma entrando nelle contraddizioni e, laddove possibile, intercettando gli elementi più avanzati per fare progredire le nostre posizioni.
Di Ignazio Terrana