Continuare a produrre o perdere gli appalti: il caso della ST raccontato da un lavoratore
ST Microelectronics è un grande monopolio industriale specializzato nella produzione di componenti elettrici a semiconduttore. Quotata nelle borse di Parigi, New York e Milano, ha come azionisti principali la ST Holding (27,5%), a sua volta suddivisa al 50% tra Ministero Economia e Finanza e FT1CI, società francese. Al 2018 ha un fatturato che si attesta di poco sotto i 10 miliardi di euro. Conta poco meno di 45mila dipendenti, suddivisi principalmente tra Asia (17mila), Francia (10mila) e Italia (9700). Al 31 dicembre 2016 comprende 64 sussidiarie consolidate e 2 collegate in 29 paesi diversi. In Italia ST ha stabilimenti ad Agrate Brianza, Aosta, Bologna, Marcianise, Catania, Lecce, Castelletto, Arzano, Palermo, Pavia e Torino. Dopo il primo caso di contagio nello stabilimento di Catania, il 28 marzo scorso c’è stato il primo decesso di un lavoratore dello stabilimento di Agrate Brianza, a 30 km da Bergamo, risultato positivo al Covid-19. L’azienda tutt’ora continua a lavorare. Per L’Ordine Nuovo abbiamo raccolto la testimonianza diretta e le riflessioni di un lavoratore interno all’azienda.
In quale settore opera la ST Microelectronics, e come sono dislocate le attività produttive in Italia?
L’azienda è ripartita in divisioni che riguardano i prodotti: automotive, telefonia, elettronica di consumo. La divisione automotive rappresenta il 40% del totale, è evidentemente una delle più grandi. Poi c’è la divisione telefonia, che vuol dire forniture per colossi come Apple, Samsung, Huawei, con produzione di microchip di vario genere.
In zona abbiamo due stabilimenti, uno a Castelletto che è un designer center puro: si fa progettazione ed è svincolato dalla produzione. E poi c’è la parte di quella che si chiama “messa in produzione”: ad Agrate si fa la produzione iniziale, si verifica il prodotto e poi si manda negli stabilimenti asiatici a Singapore dove si fa la produzione di massa.
Lo stabilimento di Castelletto adesso è chiuso, ma ad Agrate i gruppi di ricerca e sviluppo vanno avanti in mezzo alle attività produttive. Il decreto di Conte intende tenere aperte le attività col principio di non interrompere la catena di reddito oggi. Però in azienda si va avanti secondo il principio che se non fai ricerca e sviluppo oggi, la catena la interrompi domani, perdendo i clienti.
Dai settori che hai appena elencato non sembrerebbe che un’azienda del genere possa rientrare tra le categorie di lavoro essenziali previste dal Governo. Eppure la produzione, a quando ci dici, non si è fermata. Come è stato possibile?
L’ST ha anche una divisione di elettronica che opera nel settore biomedicale e io concordo che anche in questa situazione quella divisione debba continuare ad operare. Però, oltre a questo, si stanno mandando avanti anche altre divisioni, tra cui la divisione auto. Anche se è vero che in queste attività rientra la produzione di chip che vanno nei veicoli dei carabinieri o nelle autoambulanze, non si vede l’esigenza di produrre oggi, dato che i car makers sono fermi e oggi dispongono di ampie scorte di magazzino.
Anche in questa situazione, l’azienda preme per farti lavorare malgrado l’emergenza, per sviluppare il dispositivo, altrimenti perde un business di svariate decine di milioni di euro. Malgrado siano state adottate le misure che consentono a molti di svolgere l’Home Working, molte attività possono essere svolte solamente negli ambienti produttivi. Ed altri provvedimenti messi in atto dall’azienda, come la distribuzione di mascherine chirurgiche, la misurazione della febbre e il distanziamento in mensa o nei luoghi di ritrovo, servono a ridurre la probabilità di diffusione di contagio, ma comunque non portano a zero questa probabilità.
Da quanto sappiamo ci sono stati casi di malati di Covid-19 tra i lavoratori e addirittura un lavoratore è morto a causa del virus. Lo conoscevi?
Io lavoro proprio ad Agrate, uno stabilimento che conta 4500 dipendenti tra operai, impiegati e ingegneri, dove lavorava il collega che è morto di Covid-19. Faceva lo sviluppatore di prodotto, lavorava sia in ufficio che in impianto di produzione. Lui non lavorava dal 29 febbraio, ma non posso escludere che qualcuno del suo reparto sia stato contagiato.
L’azienda ha detto che avrebbe fatto i tamponi ai colleghi, ma parliamo di qualcosa come 200 persone minimo in quel reparto. È chiaro che si tratta di misure molto deboli a fronte del fatto che ogni singola persona di quelle 200 avrà avuto nel frattempo contatti con altre persone, a lavoro e a casa. Perché ci sarà pure qualcuno con la moglie infermiera o che lavora in casa di riposo per anziani, quelli con la sorella che lavora nel supermercato o il padre che fa medico. Inoltre sappiamo dai TG che i tamponi non vengono effettuati neanche per chi ha sintomi come febbre e tosse. Malgrado un morto e tre positivi dichiarati, l’azienda è rimasta comunque aperta, come moltissime altre in zona.
La mia domanda è semplice: quanti morti ci vogliono per decidere di fermarsi? La mia opinione è che in Lombardia si sta avendo una dimensione maggiore e continua del problema proprio perché continuano ad operare molte fabbriche, che sono diventate i nuovi focolai.
Quali sono le contromisure prese dall’azienda per arginare la diffusione del virus e quando sono state prese? Erano già state adottate prima o si è dovuto aspettare che un lavoratore morisse?
Sono state prese delle contromisure: provvedimenti di scaglionamento delle mense, degli ingressi, controllo temperatura all’ingresso, distanziamenti, con la preoccupazione rispetto ai dati discordanti che arrivano dalla stessa comunità scientifica. La mascherina FFP2, però l’ho dovuta comprare autonomamente. L’azienda ha distribuito quelle chirurgiche semplici, senza neanche dare un minimo di indicazioni sull’utilizzo pratico: col risultato che molti la usano in condizioni di non sicurezza.
La gente in reparto lavora, ma hanno fatto quattro squadre che coprono 6 ore invece di averne 3 da otto, con meno persone per squadra così le stesse persone che hanno le fanno ruotare di più. Però qual è il problema? Pensiamo a chi fa un turno giornaliero (8-17 ndr): se questo va a farsi le sue 8 ore, invece di una squadra ne incontra 2, cioè ci sono delle misure intese per migliorare la situazione ma che poi in realtà hanno degli effetti collaterali di non poco conto.
C’è una grande discussione in questo momento sulle misure prese dal Governo. Le aziende fanno pressione per ottenere deroghe e chiedono la riapertura. Come vedono i lavoratori questa situazione?
Non penso che i decreti del governo abbiano messo a fuoco le vere priorità. Tutti che si sono fissati con quelli che vanno a correre, che magari vogliono solo sfogare lo stress di questo periodo. Abbiamo invece le fabbriche che sono diventate dei focolai e i mezzi pubblici che girano strapieni di chi si reca a lavoro. Le case dei lavoratori che sono dei lazzaretti. Su tutto questo è stato fatto molto poco.
Il sistema industriale moderno è un sistema complesso ed interconnesso, non si può fermare un ingranaggio e pensare che tutto continui come prima. Però nel mio caso parliamo di un’azienda che fa elettronica. La voce “strategica” presente nel DPCM di Conte è ambigua perché lascia al datore di lavoro una ampia scelta se chiudere o restare aperti, probabilmente inserita proprio sotto pressione di Confindustria. I sindacati hanno scritto al Prefetto di Monza, per avere chiarimenti riguardo ai motivi che permettono a ST di operare, ma non hanno ancora avuto risposta.
Il settore automotive, che sta continuando ad operare, è uno di quelli più redditizi. Si vendono pezzi, girano molti soldi e anche per i quadri intermedi ci sono aumenti, stabilità economica e quant’altro. Oggi lo scenario è cambiato perché io mi aspetto che vuoi o non vuoi domani quando tutto ripartirà, a prescindere dai nostri clienti, il primo consumo che calerà sarà l’auto perché incide in modo considerevole sul reddito familiare.
È evidente che in gioco ci sono vari interessi. In alcuni casi non si può chiudere e basta, molti impianti non si possono spegnere o necessitano di operai di manutenzione e richiedono comunque tempo per uno shut-down controllato. Ma un conto è preservare gli stabilimenti, un contro è tentare di approfittarsi di questa congiuntura, continuando la produzione perché si vuole spingere di più, con misure di sicurezza per i lavoratori che restano più dichiarate che realmente applicate in modo efficace. È evidente che così non si può continuare.