Acciai Speciali Terni: tutelare la salute, ripartire dal protagonismo dei lavoratori
Intervista a Emanuele Salvati, RSU USB in Acciai Speciali Terni
Acciai Speciali Terni S.p.A. (AST), è una società italiana operante nel settore della metallurgia/siderurgia. Dal 1994 è controllata dalla tedesca ThyssenKrupp, colosso mondiale da oltre 30 miliardi di Euro di fatturato nel 2018, in Italia tristemente famoso per l’incidente nello stabilimento di Torino del dicembre 2007 in cui persero la vita 7 operai.
Lo stabilimento di Terni è una fabbrica a ciclo integrato, specializzata nella produzione e distribuzione di acciai per svariati settori industriali. Nel 2018 ha fatturato di 1,8 miliardi, con un utile netto di quasi 100 milioni. Nello stabilimento umbro sono occupati poco meno di 2400 lavoratori. Alla fine degli anni ’80 l’acciaieria ternana era fra i primi 5 produttori mondiali di acciaio inossidabile. Oggi la produzione principale di Acciai Speciali Terni è costituita da prodotti laminati piani inossidabili. Ma AST produce, con le divisioni Tubificio e Fucine, anche tubi saldati e fucinati di grandi dimensioni ed è presente nella distribuzione capillare dei nastri inossidabili attraverso la società controllata Terninox.
Lo scorso 12 e 13 marzo la fabbrica si è fermata per 48 ore. Abbiamo raggiunto Emanuele Salvati, RSU dell’Unione Sindacale di Base, organizzazione che insieme ad altre ha indetto lo sciopero.
Emanuele, com’è la situazione in AST oggi, a un mese dallo sciopero?
In AST attualmente si sta lavorando ma con una turnazione differente rispetto a quella abituale: solitamente girano 4 squadre a rotazione, per un totale di 21 turni al mese che coprono 42 ore a settimana. Adesso si gira prevalentemente a 15 turni, quindi 5 giorni di lavoro, dal lunedì al venerdì e sabato e domenica fermi. Sempre 8 ore per turno.
Questo perché la situazione non permetteva alla direzione aziendale di ricominciare a lavorare con la turnazione usuale: innanzitutto ci sono ancora molti lavoratori che stanno a casa, chi perché ha usufruito dei 12 giorni per la L.104, chi per via del congedo parentale, chi s’è messo a casa per timore del virus. Insomma, non c’è stato tutto il personale per garantire le produzioni solite. L’azienda è ripartita, ma principalmente per far fronte alla crisi di fatturato e di bilancio che ha non da ora, ma da qualche anno.
Spiegaci meglio questo aspetto.
Vale la pena ricordare che il gruppo ThyssenKrupp ha una situazione molto pesante e ha dovuto vendere il comparto “Elevator” (ascensori, scale mobili e simili) per poter far fronte ai 14 miliardi di debito che aveva. Sono rimasti all’incirca 3 miliardi di debito, ma si sono venduti tutti i gioielli di famiglia. Il reparto Elevator era uno tra quelli con il più alto valore aggiunto. Tanto è vero che l’AD del gruppo ThyssenKrupp ha detto che comunque, al netto della vendita che c’è stata, ci saranno sì investimenti, ma anche tagli.
L’AST da due anni è in netta crisi. Perché in realtà è in crisi tutto il mercato dell’acciaio a livello mondiale, anche se un minimo di ripresa l’anno scorso c’è stata. C’è proprio una crisi di sovrapproduzione, tipica del sistema di produzione capitalistico.
Esiste una guerra sottobanco legata anche ai dazi per l’acciaio messi dalla UE, poi rimodulati. La sovrapproduzione in Cina ha sversato in Europa ingentissime quantità di semilavorati, il che ha causato anche buona parte della sovrapproduzione all’interno del nostro continente.
Quindi, ovviamente, da questo punto di vista avevamo già un’azienda in crisi: ad esempio nelle due linee di colaggio dei forni, una marciava in quarta squadra, l’altra stava già a 15 turni. Possiamo dire che la crisi sanitaria in atto sta accelerando di fatto una crisi che si sarebbe comunque prodotta da qui a breve. Se questa analisi che facciamo noi vale per tutto il continente europeo e anche a livello mondiale, cioè che la crisi sanitaria è un catalizzatore della inevitabile crisi sistemica economica e sociale, noi in AST siamo i primi che stanno subendo quello che succederà dappertutto da qui a qualche mese.
In questo senso il cambio dell’organizzazione del lavoro a 15 turni non è stato concepito solo per permettere il minor assembramento possibile, non solo per poter dare le mascherine a tutti (come abbiamo preteso noi della RSU), non risponde solo o principalmente alla gestione della crisi sanitaria, ma risponde a un problema ben più grosso, che è appunto la crisi di bilancio e del mercato.
Come si è arrivati alla proclamazione dello sciopero?
Noi siamo stati una delle prime fabbriche in Italia che hanno scioperato: abbiamo fatto 48 ore di sciopero, 2-3 giorni dopo lo sciopero spontaneo in FCA a Pomigliano. C’è stata una crisi evidente che ha portato ad un conflitto anche abbastanza aspro con l’azienda, che non voleva assolutamente fermare, ma anzi aveva in mente una gestione dell’emergenza molto, molto blanda.
Come sta succedendo con i padroni in tutta Italia, peraltro, non volevano tirar fuori un soldo per la gestione dell’emergenza. Da qui è nata la contestazione, la battaglia di ordine sindacale con 48 ore di sciopero.
L’azienda poi è ripartita a 15 turni per 2, 3 giorni e dopo si è fermata. Con la motivazione che ci si è dovuti fermare perché c’erano troppi lavoratori in malattia e lo scontro con i sindacati era divenuto troppo cruento. Ci hanno dato anche degli “irresponsabili”, ma evidentemente rientrava in una tattica padronale per poi riaccelerare subito con le pretese, tanto è vero che ancora oggi ci sono dei problemi. Una settimana dopo lo sciopero, avevamo firmato anche con le altre organizzazioni sindacali un accordo per la cassa integrazione che un minimo garantiva gli stessi lavoratori in merito alla fruizione delle ferie, cosa un po’ in controtendenza rispetto a quello che sta accadendo in tutta Italia, dove i padroni ti fanno consumare il carico dell’anno. Noi da questo punto di vista abbiamo salvaguardato il monte ore 2020 e anche una minima parte di quello pregresso.
Se comunque c’è stato un buon accordo, permane comunque l’idea da parte aziendale di far tirare la cinghia ai lavoratori. Intendo dire che stiamo vedendo che da questo punto di vista si stanno facendo dei passi in avanti sulla riorganizzazione della fabbrica che evidentemente avevano già in mente di fare e che noi pensavamo che questo sarebbe avvenuto solo tra qualche mese. Quello che pensiamo come USB è uscito con un comunicato pochi giorni fa: rispetto alla gestione dell’emergenza già si notano delle contraddizioni che lasciano presupporre l’accelerazione rispetto ad una ristrutturazione che potenzialmente sarebbe arrivata successivamente e che è stata accelerata dalla crisi sanitaria. Per problemi di vendita e problemi di mercato.
Questo rimanda alla questione politica, cioè all’attacco che abbiamo subito, non solamente noi in AST, da parte di Confindustria. L’AST è stata la punta avanzata di Confindustria per quanto riguarda la battaglia per la riapertura delle aziende.
Innanzitutto lasciami dire che, se produci un protocollo firmato da Confindustria e dai confederali in cui dai ai padroni mano libera, e se fai due DPCM in cui rimetti la chiusura delle produzioni non essenziali ai prefetti, significa insomma che sei un governo a la “Ponzio Pilato”, te ne lavi completamente le mani e non vuoi fare la scelta politica.
Da questo punto di vista hanno dato l’assist a Confindustria che ha poi diffuso nel nord Italia quel documento in cui dice che se non riparte l’industria è un disastro. È uscita poi la Confindustria Toscana che ha listato le bandiere a lutto, non per le decine di migliaia di morti che ci sono stati, ma per i mancati profitti. Stiamo subendo un attacco senza precedenti, per le condizioni in cui avviene, a cui non sta rispondendo nessuno.
In tutto questo che tipo di rapporti esistono con le altre sigle sindacali?
USB sta subendo la repressione per questa battaglia a livello nazionale pagandone le conseguenze. Ricordiamo che la Commissione di Garanzia per il Diritto allo Sciopero sanzionerà, e severamente, lo sciopero del 25 di marzo. Con quello sciopero abbiamo anche aperto delle contraddizioni all’interno dei confederali: non dimentichiamo che in quello sciopero hanno aderito anche FIM FIOM e UILM della Lombardia; sia tra CGIL da un lato e CISL e UIL dall’altro, sia tra la direzione nazionale della CGIL e i suoi livelli locali sui quali viene scaricata irresponsabilmente l’incombenza di dover difendere i lavoratori con rapporti di forza sfavorevoli, mentre a livello nazionale si firmano protocolli molto accomodanti.
Chiaramente noi stiamo facendo molto più di quello che potremmo per le nostre forze. Siamo nati due anni fa in fabbrica, abbiamo qualche decina di iscritti. È normale che non puoi sperare di fare un’azione tale che possa essere vincente e mettere in crisi l’azienda: tant’è vero che la battaglia delle 48 ore di sciopero è stata una battaglia unitaria.
Qual era la situazione quando è scoppiata l’emergenza?
Nel periodo precedente allo sciopero il rapporto con l’azienda si era incancrenito, perché i loro rappresentanti arrivavano alle riunioni in videoconferenza dicendo che le mascherine non erano dei mezzi di prevenzione. I lavoratori cominciavano ad avere paura. Cresceva la volontà dei lavoratori di fermare la fabbrica. Ci siamo messi di punta, come si dice a Terni, noi e la FIOM e abbiamo fatto la battaglia in maniera unitaria. Lasciami dire che ci sarebbero state organizzazioni che non avrebbero voluto neanche scioperare, per capirci. Da questo punto di vista hanno dovuto abbassare la cresta.
È una battaglia che comunque ha portato i suoi frutti. Però adesso la fase andrebbe gestita in maniera politica. Da questo punto di vista noi siamo lasciati soli. Nel senso che la presidente della regione è sparita. Il sindaco di Terni è arrivato l’altro giorno a fare un sopralluogo in fabbrica e ha detto “tutt’a posto, bravi”. La questione è politica perché le altre organizzazioni adesso si sono fossilizzate all’interno del comitato di gestione tra azienda e RLS sulla questione della prevenzione sanitaria. Ma la battaglia dev’essere politica, non tecnico-sanitaria: in questa fase le produzioni non essenziali devono rimanere chiuse.
Io voglio proteggere me, i miei familiari, la mia comunità. Dicendo che stiamo fermi e ripartiamo quando ci sono le condizioni, che non possono essere le mascherine per tutti, ottenute comunque con la lotta o il metro di distanza impossibile da garantire in fabbrica.
AST significa oltre 2000 persone che stanno in giro aumentando la probabilità di contagio. Se bisogna stare fermi, con tutte le conseguenze economiche del caso, voglio deciderlo io come lavoratore e non subire una decisione del mercato o del padrone dall’oggi al domani, che poi magari decide di mandare a casa centinaia e centinaia di lavoratori: i lavoratori devono poter decidere del proprio lavoro e del futuro dello stabilimento.
Come vedi il futuro della fabbrica in cui lavori e svolgi il ruolo di rappresentante sindacale?
Mi sono convinto che non è una questione di codici ATECO. Stiamo vedendo che se la gestione economica del Paese viene demandata ai padroni è un casino. Bisogna costruire politicamente un controllo dell’economia, una visione e una pianificazione generale pubblica delle strutture industriali strategiche nell’interesse dei lavoratori e dei cittadini di questo paese.
Ad esempio questa crisi ci ha fatto capire che in questo paese non c’è nessuno che produce cose essenziali come le mascherine o i macchinari per la terapia intensiva. Purtroppo anche oggi sbattiamo contro un governo che fa slogan, ma a parte dar soldi alle imprese e fare debito all’interno dei meccanismi “sacri” della UE fa molto poco di sostanziale per chi lavora.
La nostra fabbrica è a ciclo integrato: abbiamo i forni ad arco elettrico quindi usiamo il rottame. Da questo punto di vista siamo strategici perché chiudiamo di fatto il ciclo dei rifiuti. Con una spesa molto inferiore rispetto all’approvvigionamento delle materie prime. Quindi è una fabbrica che sarebbe strategica ma che di fatto per i governi che si sono susseguiti da decenni a questa parte non lo è.
Avevamo sottoscritto al MISE un accordo su un investimento biennale, e già questo faceva intuire la situazione: due anni di programmazione per un’azienda come questa sono ridicoli, non cambiano la situazione. È un’azienda strategica non solo per l’Umbria, ma per l’apparato industriale di tutto il paese, ma sembra non esserlo per la politica.
Oggi la battaglia è quella di far fermare le fabbriche che non producono beni essenziali, per salvaguardare i lavoratori e la società intera. Domani la battaglia sarà far ripartire più fabbriche possibile, con un protagonismo maggiore dei lavoratori, anche con un intervento diretto pubblico, attraverso nazionalizzazioni e controllo della produzione. Non si può semplicemente tornare come prima dell’emergenza. Penso anche a provvedimenti come la regolarizzazione dei lavoratori immigrati che lavorano in settori essenziali come l’alimentare. Da questo punto di vista il richiamo alla costruzione e al rafforzamento di un’organizzazione sindacale di classe passa anche attraverso queste lotte.