Sfruttamento e innovazione tecnologica: le esternalizzazioni nelle telecomunicazioni
Lo scenario delle TLC dalla liberalizzazione del mercato delle Telecomunicazioni.
Sulla spinta del dogma neoliberista e della crescente globalizzazione dell’economia, seguendo l’esempio di USA e Gran Bretagna, anche in Europa negli anni ‘90 si assiste alla grande stagione delle privatizzazioni delle compagnie pubbliche e in seguito alle liberalizzazioni dei monopoli (gas, acqua, trasporti, telecomunicazioni).
Dopo le privatizzazioni del 1992 con il decreto a sostegno delle finanze pubbliche “Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica” (governo Amato) che avvia la trasformazione di ENI, Enel, IRI e Telecom in società per azioni, nel 1999 in Italia si provvede alla liberalizzazione del mercato delle TLC con la liquidazione del gruppo STET, del quale faceva parte Telecom Italia.
Lo Stato si ritira dalle partecipazioni negli asset pubblici, lasciando spazio a nuovi imprenditori che danno vita a nuovi operatori alternativi all’ex monopolista e dando inizio a un’inedita frammentazione di attori privati che iniziano a specializzarsi in vari settori della filiera delle TLC.
A garanzia della concorrenza vengono istituite le due Autorità di controllo (authorities): AGCOM (Autorità Garante delle COMunicazioni) e AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato).
Nel tempo si assiste da una parte a un diffuso beneficio sui prezzi al consumo e sull’efficienza delle aziende, dall’altro alla corsa al ribasso dei salari e al peggioramento delle condizioni di lavoro, per effetto della competizione e della conseguente necessità di abbattere i costi operativi.
Naturale quindi lo sbocco a trasformare parte dei costi fissi in costi variabili attraverso le esternalizzazioni di attività “non core”. Sulla base di discutibili interpretazioni dell’articolo 2112 del codice civile, che dovrebbe regolare la cessione di ramo d’azienda, inizia la dismissione di interi pezzi di azienda.
Il meccanismo è semplice ed è ben descritto da quanto accaduto in Telecom, oggi TIM. Dal 2000 Telecom ha esternalizzato nei più svariati settori: gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare, gestione autoparco, amministrazione del personale, manutenzione hardware e software, logistica, polizze sinistri, gestione del protocollo, posta e archivi cartacei, manutenzioni e servizi ambientali, sicurezza, servizi radiomarittimi.
Dapprima l’azienda “madre” scorpora una funzione aziendale, costituendo una nuova società alla quale trasferisce parte dei dipendenti e che lega alla capogruppo con un contratto di servizio. In una seconda fase, confronta i livelli di servizio e i salari con i concorrenti (benchmark). Ovviamente i livelli di servizio di società esterne, presenti sul mercato da più tempo e che hanno già subìto gli effetti della concorrenza sono migliori e i salari sono più bassi. Procede dunque all’adeguamento di performance e salari nella controllata, con ovvio peggioramento delle condizioni di lavoro. In una terza fase può decidere di cedere a terzi tutta o parte della società esternalizzata.
La conseguente frammentazione della filiera delle TLC porta a delineare un sistema di aziende che, tralasciando i servizi “accessori”, può essere schematizzata come in figura (sotto qualche esempio di società appartenente a quella porzione di filiera):
Importante, per le dinamiche di mercato e quindi del lavoro, è definire anche la figura delle aziende OTT (Over The Top).
(Wikipedia) “l’AGCOM definisce Over-The-Top (in acronimo OTT) le imprese che forniscono, attraverso la rete Internet, servizi, contenuti (soprattutto video) e applicazioni di tipo “rich media” (per esempio, le pubblicità che appaiono mentre si naviga in un sito web e che dopo una durata prefissata scompaiono). (…) Tali imprese, prive di una propria infrastruttura, agiscono al di sopra delle reti, da cui il termine over-the-top. Il vantaggio delle OTT è che non hanno a proprio carico i costi relativi alla trasmissione ed alla gestione della rete (come per la televisione tradizionale via digitale terrestre e via digitale satellitare), che gli altri broadcaster tipicamente sostengono. Si rivolgono inoltre ad un mercato globale con spese di gestione ed organici ridottissimi”[1]
Esempi di OTT sono Facebook, WhatsApp, Google, Netflix, Amazon, E-Bay.
Effetti della concorrenza sulla dinamica dei ricavi e sul mercato del lavoro
Nel mercato italiano, la dinamica concorrenziale e l’ambito esclusivamente domestico delle aziende (molti operatori in competizione con gli stessi clienti da conquistare) hanno portato alla saturazione del mercato, con il conseguente andamento decrescente dei ricavi, come mostrato dai risultati dei soli ultimi dieci anni (2007-2017).
Si noti che anche i ricavi del business innovativo del mobile sono in discesa.
Qualche timido segnale di stabilizzazione dei ricavi si nota nel mercato del fisso, per effetto del cambio tecnologico nell’accesso dal rame alla fibra ottica.
A fronte del deciso declino dei ricavi, le aziende reagiscono dando sempre più lavoro all’esterno (outsourcing), dove possono contare su condizioni salariali favorevoli per il mantenimento del margine di profitto e sulla possibilità di seguire in modo più flessibile picchi o diminuzioni della produzione.
Il caso dei call center e degli appalti di rete definisce più di altre esternalizzazioni l’effetto della concorrenza e dell’insufficienza della regolazione legislativa dello Stato nella giungla delle aziende, piccole e grandi, che agiscono in questo campo.
I call center
I call center offrono diversi servizi: dalla gestione della vendita dei prodotti attraverso la classica telefonata al cliente (chiamate outbound), alla ricezione e gestione delle chiamate da parte dei clienti o potenziali clienti nella vendita di servizi o assistenza (chiamate inbound) ma anche gestione delle campagne di sondaggi alla clientela, lavorazione in back office di pratiche di abbonamento, recupero crediti, ecc.
L’azienda che ha esternalizzato i suoi servizi, può “girare” da call center interni verso call center esterni, spesso esteri, quantità più o meno grandi di lavorazioni (chiamate, lavorazioni di pratiche, campagne) attraverso sistemi automatici di regolazione del traffico (sistemi di routing).
Le aziende che si occupano di questa attività sono moltissime. Grazie a una legislazione che ne favorisce la costituzione (legge 407/90) se legata all’assunzione di disoccupati, hanno aperto molti call center, soprattutto al sud. Alcuni di essi si barcamenano nel settore senza un chiaro obiettivo di business, agendo solo sulla minimizzazione dei costi fissi (basso costo del lavoro, ambienti fatiscenti, strumenti di lavoro inadeguati).
Le dinamiche del mercato dei call center hanno dunque caratteristiche darwiniane. Il concetto è più chiaro osservando la figura seguente:
Le professionalità richieste per operare in un call center, a meno di particolari lavorazioni, sono piuttosto basse. Gli impiegati tipo dunque sono persone meno giovani, molti dei quali espulsi dal mercato del lavoro, che non trovano collocazioni migliori.
La figura seguente illustra numericamente quanto detto.
La figura illustra chiaramente anche un altro aspetto interessante. Nel grafico di destra si nota l’aumento significativo della stabilizzazione dei rapporti di lavoro: i rapporti che durano più di 10 anni sono aumentati dal 53% del 2010 al 70% del 2017.
Questo è dovuto principalmente alle lotte che i lavoratori hanno portato avanti in questi anni.
I lavoratori dei call center lavorano in spazi affollati, separati uno dall’altro da paratie simili a loculi, con dotazioni di terminali e cuffie non assegnati alla persona ma condivise tra più lavoratori. Il salario spesso è un cottimo, legato al numero di chiamate ricevute/effettuate. Sono sottoposti a ferrea disciplina sul tempo di contatto con un cliente, sui tempi intercorrenti tra una chiamata e l’altra e sul numero assoluto di chiamate gestite in un giorno. Un cosiddetto supervisor controlla le prestazioni dei lavoratori attraverso sistemi automatici di rilevamento in tempo reale delle chiamate in corso. L’attività di ciascun lavoratore dunque è controllata in ogni minimo dettaglio, per assicurare tempestivamente interventi di “miglioramento della produttività individuale”.
Fin dalla costituzione dei primi call center molti lavoratori hanno compreso l’insostenibilità delle condizioni di lavoro. Nei primi anni 2000 ad esempio, Telecom Italia esternalizzò parte dei servizi di call center nella società ATESIA, in cui i lavoratori, ceduti con l’esternalizzazione alla nuova società, erano assunti di nuovo con contratti a termine di tipo CO.CO.CO. (Contratti di COllaborazione COntinuativa) poi diventati CO.CO.PRO (Contratti di COllaborazione a PROgetto) con la legge Biagi. Spesso si trattava di contratti di una settimana, rinnovati di settimana in settimana. Il comitato di lotta che si costituì allora racconta bene la stagione di lotte e l’atmosfera che si respirava nei luoghi di lavoro[2]. Racconta ad esempio che spesso il fine settimana venivano esposte le liste dei nominativi cui era stato rinnovato il contratto. Le lotte per la stabilizzazione dei contratti, tramite scioperi e cause legali, portarono finalmente alla stabilizzazione dei contratti.
ATESIA venne poi scissa in due società: Teleperformance, che rimase nell’orbita del gruppo Telecom, e ALMAVIVA, del gruppo del famigerato imprenditore Tripi. In ALMAVIVA, a seguito di sciagurati accordi sindacali, le condizioni dei lavoratori peggiorarono: turni di lavoro ancora più pesanti, controllo a distanza, ecc.
L’epilogo drammatico della vicenda ALMAVIVA di Roma del 2017 è noto a tutti: le condizioni di lavoro erano talmente peggiorate che, a fronte dell’ennesima richiesta padronale di renderle ancora peggiori, i lavoratori hanno preferito il licenziamento. 1666 lavoratori non hanno ceduto all’ennesimo ricatto e sono stati licenziati.
Un quadro normativo incerto e frammentario, una compagine sindacale ormai incapace di praticare il conflitto e una massa lavorativa disillusa costituiscono il brodo ideale perché si moltiplichino imprenditori rapaci e molto reattivi, quando poi si manifesta una qualche forma di conflitto, nel delocalizzare le attività all’estero, in quei paesi dove la manodopera costa meno ed è più mansueta. È esperienza comune che, chiamando un call center, rispondano dall’Albania, dalla Romania, dall’India o dalla Tunisia.
Appalti di rete
Altro settore di primaria importanza per le aziende che esternalizzano per estrarre valore, mantenendo alti livelli di produttività e bassi salari, è quello degli appalti di rete.
È opportuno precisare cosa si intenda per “rete”. In un settore come quello delle Telecomunicazioni una rete di comunicazione si compone di chilometri di cavi che interconnettono migliaia di apparati presenti in migliaia di centrali di trasmissione, gestiti da sistemi automatici che ne controllano il funzionamento. Le attività di gestione sono sia manuali (scavi per la posa di cavi, allacci in centrale e in strada tra pezzi di cavi) sia automatici tramite sistemi di supervisione.
A seguito della liberalizzazione, alcuni operatori hanno creato una loro rete, alternativa a quella dell’ex monopolista Telecom, altri hanno affittato (interconnessione) porzioni di rete da Telecom, altri ancora hanno seguito un approccio misto (in parte una propria rete, in parte in affitto da Telecom).
Si sono create quindi società specializzate in lavori di rete che offrono i propri servizi a questi operatori: scavi e posa cavi con mezzi specifici, lavori di cablaggio e installazione apparati in centrale, affitto di forza lavoro specializzata per la supervisione dei sistemi, software per il controllo di apparati di rete.
Dunque un ecosistema di aziende che ruota attorno agli operatori di TLC il cui meccanismo di ingaggio è quasi sempre la gara al massimo ribasso per la gestione di porzioni di rete anche molto estese. Le aziende che vincono la gara spesso non hanno forza lavoro sufficiente per far fronte alla commessa e ricorrono quindi al subappalto, utilizzando a loro volta spesso le aziende che hanno perso la gara. Si stabilisce dunque una catena del valore appaltante-appaltato-subappaltato che vede nel gradino più basso il singolo lavoratore.
In un meccanismo ormai consueto in molti ambiti lavorativi, per risparmiare sui costi e mantenere un margine di profitto succede quindi che i lavoratori abbiano salari bassissimi, turni di lavoro massacranti e condizioni di sicurezza precarie o inesistenti.
Il calo dei ricavi della filiera descritto in precedenza, ha portato molti operatori a rivedere a ulteriore ribasso i termini dell’ingaggio degli appaltati, portando le condizioni dei lavoratori al semi-schiavismo.
A fine 2018 ad esempio TIM ha chiesto a tutti i propri fornitori di servizi un ribasso “piatto” del 20% del valore delle commesse, indipendentemente dal tipo di lavorazioni e dai costi di produzione che i fornitori dovevano sostenere.
Ciò ha provocato la reazione delle aziende coinvolte che hanno annunciato tagli al personale e il ricorso al subappalto ad aziende più piccole, innescando una spirale di dumping salariale e normativo sempre più fuori controllo.
Ne è un esempio quello che è accaduto in SIRTI, da sempre in posizione di leadership nella manutenzione su rete fissa e mobile e legata a TIM da uno storico rapporto fiduciario. A seguito di un’ulteriore delibera AGCOM di liberalizzazione dei rapporti di manutenzione tra Operatori e fornitori di servizi di Rete, si è innescata una concorrenza ancora più feroce.
Questo ha portato la SIRTI all’apertura delle procedure di licenziamento collettivo per 833 addetti, un quarto della sua forza lavoro.
I licenziamenti sono poi stati poi scongiurati all’epoca dalla solita procedura di utilizzo di ammortizzatori sociali (solidarietà con l’obiettivo “solito” di far rientrare poi le attività in subappalto) ennesimi costi che peseranno anche sulla collettività in una spirale discendente senza fine. Tanto è che a marzo di quest’anno sono stati dichiarati di nuovo ulteriori esuberi.
E i cittadini ne hanno tratto beneficio?
Nonostante il moltiplicarsi degli operatori e dei servizi offerti, la concorrenza non ha portato a benefici reali ai cittadini che scontano un peggioramento della qualità della rete, dei servizi e, per via della logica del profitto, alla diseguale distribuzione delle reti a larga banda.
Secondo l’attuale classificazione delle aree del paese infatti, nelle cosiddette aree a fallimento di mercato, ben pochi operatori investono nello sviluppo delle reti, lasciando intere porzioni di popolazione senza accesso alle reti di nuova generazione, destinandole ad una sorta di nuovo analfabetismo digitale.
Estemporanee iniziative governative, più legate a fattori di propaganda politica che all’effettivo bene del Paese, hanno dato luogo alla nascita di un operatore, Open Fiber, che avrebbe dovuto avere il ruolo di colmare questo gap ma che, stretto nella morsa dei debiti e dalla logica privatistica del profitto, ha fallito in questa missione.
Il futuro delle lotte nelle TLC
La tecnologia non è neutra, si sa. L’utilizzo o la sua stessa promozione sono sempre politici. Abilita nuovi modelli nei rapporti sociali e quindi anche di lavoro. E chi li disegna sono le classi dominanti.
Conoscerli significa per la classe lavoratrice valutarne i rischi, le minacce e prepararsi a combatterli.
Il gran parlare che si fa di industria 4.0 ne è un esempio classico. In questo caso a ragione, dato il notevole impatto che avrà sul mondo del lavoro.
Partiamo da una premessa. Il padronato ha sempre ricercato spasmodicamente di ottenere sempre più produttività (valore creato per ora lavorata) e flessibilità (modulazione della produzione in dipendenza della maggiore o minore domanda di beni e servizi), ottimizzando gli investimenti e minimizzando i costi operativi (salari, spese fisse di energia, di affitto immobili, manutenzione dei macchinari, ecc.).
Nella produzione di beni fisici (automobili, vestiti in serie, elettrodomestici, ecc.) le tecniche per aumentare questi due fattori sono sperimentate da tempo. Le fabbriche ad automazione spinta esistono da tempo. Le nuove tecnologie consentiranno di migliorare ulteriormente gli indici di produttività e flessibilità.
Ma è nella produzione di servizi, di cui le telecomunicazioni fanno parte, che l’introduzione della digitalizzazione avrà i suoi effetti più dirompenti.
Per poter rispondere in modo pressoché immediato ai bisogni di consumatori, le nuove tecnologie mettono a disposizione mezzi potentissimi per:
- intercettare quasi sul nascere il bisogno del cliente, attraverso l’analisi in tempo reale di quantità enormi di dati dalle fonti più diverse generate dal comportamento delle persone;
- progettare e realizzare in tempi rapidissimi il prodotto attraverso gruppi di produzione snelli e supportati da alta automazione di processi
- distribuire i prodotti in modo intelligente
- avere feedback immediati sul successo del prodotto (soddisfazione del cliente, quantità vendute, distribuzione dei consumi) per apportare ottimizzazioni di prodotto o di distribuzione
Per ottenere tutto questo occorre agire su due leve: organizzazione del lavoro e rapporti di lavoro.
- Sull’organizzazione del lavoro, si stanno sempre più diffondendo nelle aziende le cosiddette tecniche di lavoro agile (pronunciata all’inglese) e cioè gruppi di lavoro interdisciplinari e interconnessi tra loro, composti di varie competenze aziendali, che superano le attuali organizzazioni gerarchiche e divise in funzioni verticali (la funzione acquisti, quella del marketing, l’information technology, le vendite). Il lavoratore agile lavora per obiettivi in un orizzonte temporale limitato sotto la direzione non di un capo ma di un responsabile di progetto. Il gruppo di lavoro nasce e muore con il compito che gli è stato assegnato.
- Sul rapporto di lavoro: un lavoratore non è più legato a un orario di lavoro ma ad un compito. Pertanto si stacca dalla fisicità di un luogo di lavoro in cui lavorare “dalle…alle” per eseguire un compito preciso dal risultato atteso definito, che può svolgere in qualunque luogo e in qualunque orario (anywhere, anytime)
Le tecnologie digitali supportano questo tipo di approccio.
Quello che dunque i lavoratori si dovranno attendere sarà:
- un salario non più legato ad un orario di permanenza in azienda ma al grado di raggiungimento di un obiettivo e al numero di obiettivi portati a casa.
- L’assenza di un luogo fisico stabile di lavoro ma la possibilità di lavorare da casa e svolgere solo saltuariamente in un luogo fisico, anche condiviso con altri, riunioni con altri in presenza
- La necessità di formazione continua su nuovi prodotti, nuove tecniche di produzione, nuove competenze
Dunque andranno a sparire o rimarranno marginali ruoli e professionalità di livello impiegatizio come amministrativo e vendite, installatori e manutentori, il cui lavoro sarà svolto dagli automi, per lasciare il posto a professionalità come i creativi, ingegneri, matematici, informatici, analisti.
Secondo il rapporto del World Economic Forum “The future of jobs”[3] il tasso di sostituzione tra vecchie e nuove professionalità però sarà assolutamente asimmetrico: il rapporto stima che con l’avvento delle nuove tecnologie si perderanno 7.1 milioni di “vecchi” lavoratori a fronte di 2 milioni di “nuovi” lavoratori.
Quanto rapido sarà questo sviluppo dipenderà da vari fattori: capacità investitorie delle aziende, conflitti sociali, capacità pianificatorie dello stato nazionale.
A nostro avviso, sarà proprio la pandemia di COVID-19 ad accelerare questo processo, dato che molte aziende per poter riguadagnare rapidamente quote di mercato, forzeranno per avere immediata produttività e flessibilità affidandosi agli automi piuttosto che a umani recalcitranti.
Quello che il rapporto però non può dire e che in realtà è il vero spettro che può minacciare il sogno di ogni imprenditore è proprio l’elemento del conflitto sociale, scatenato da masse disoccupate che reclamano salario per vivere.
È un caso che in occasione della pandemia del CORONA VIRUS si stiano sperimentando tecniche di controllo di massa? Sarà per prevenire futuri e sicuri conflitti di massa?
Il suggerimento che a conclusione di questo nostro intervento ci sentiamo di dare è proprio quello di conoscere per tempo le tendenze e organizzare soggetti capaci di reagire tempestivamente agli attacchi padronali per espellere manodopera dal mondo del lavoro, con la scusa della crisi da pandemia e per effetto delle nuove tecnologie.
Ci sentiamo anche di insistere sulla necessità di nazionalizzare le industrie strategiche del Paese e iniziare a pensare ad una pianificazione delle produzioni sotto l’egida dello stato.
Lasciare le potenzialità delle nuove tecnologie alla cecità del mercato significa sprigionare forze distruttive che porteranno alla rovina intere popolazioni.
Di Eleonora D’Antoni e Riccardo Lorenzi, RSU USB TIM Roma
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Over-the-top_content
[2] http://www.romatoday.it/economia/almaviva-atesia-storia.html
[3] http://reports.weforum.org/future-of-jobs-2016/?doing_wp_cron=1586967577.8580019474029541015625