Il metodo di Lenin nella costruzione del partito rivoluzionario
Nella Russia di fine Ottocento, in un periodo in cui si diffondevano le agitazioni e gli scioperi degli operai, ed insieme una crescita di consensi verso gli ideali socialisti tra gli intellettuali, Lenin pone la necessità di fare un vigoroso passo in avanti, dando unità ai circoli operai e gruppi socialdemocratici disseminati in tutti gli angoli della Russia attraverso un unico partito operaio socialdemocratico.
Lenin rileva subito la fondamentale importanza del legame indissolubile tra i compiti teorici e quelli pratici; la ricerca teorica deve accompagnarsi alla propaganda, all’agitazione, allo studio scientifico delle condizioni di vita degli operai: “sia l’agitazione economica che l’agitazione politica sono parimenti indispensabili per sviluppare la coscienza di classe del proletariato; l’una e l’altra sono parimenti indispensabili come guida della lotta di classe degli operai russi, giacché ogni lotta di classe è lotta politica”.[1] Lo studio delle forme che assume l’oppressione capitalistica nelle fabbriche serve a portare i lavoratori, partendo dalla loro esperienza, ad acquisire coscienza della natura dello sfruttamento capitalistico nelle sue specifiche manifestazioni.
Anche nel Lenin di quell’epoca, ancora legato a Plekhanov e Kautsky, emergeva una impostazione originale che tendeva a superare le generalizzazioni dottrinarie tipiche di Kautsky, restituendo la concezione materialistica della storia alla sua funzione di strumento per comprendere ed intervenire rispetto ad una formazione storica specifica (in questo caso la Russia di quell’epoca storica).[2]
La fondazione del partito operaio socialdemocratico russo del 1898 raccolse l’esigenza di unità prospettata da Lenin e si accompagnò subito all’adozione di due strumenti fondamentali per superare forme federative di forze diverse, riconducendo la discussione sul piano dell’unità.
Innanzitutto occorre dotarsi di un programma, teoricamente fondato: “La questione più urgente del nostro movimento – scrive Lenin – attualmente non consiste più nello sviluppo del vecchio lavoro e “all’artigiana”, ma all’unificazione, nell’organizzazione. Per compiere questo passo abbiamo bisogno di un programma; il programma deve formulare le nostre concezioni fondamentali, stabilire con precisione i nostri compiti immediati, indicare quelle rivendicazioni urgenti che devono delimitare la sfera di attività di agitazione, rendere quest’attività unitaria, ampliarla e approfondirla, trasformarla da agitazione parziale, frammentaria, per piccole rivendicazioni frazionate, in agitazione per tutto l’insieme delle rivendicazioni socialdemocratiche”.[3]
Il secondo strumento, messo in rilievo da Lenin, è un giornale, un organo di stampa rivoluzionaria che fosse capace di sviluppare il confronto tra le diverse idee presenti nel momento operaio con un obiettivo ben individuato: lottare contro il revisionismo e l’opportunismo da cui non erano immuni i socialdemocratici russi.
Gli echi delle posizioni di Bernstein arrivarono a consolidarsi in Russia proprio sotto la forma dell’economismo. Gli economisti sostenevano che il proletariato dovesse limitarsi solo alla lotta economica, mentre la lotta politica andava lasciata alla borghesia. Il socialismo, secondo questa tendenza, sarebbe stato il risultato necessario di un processo evolutivo rispetto al quale la teoria e l’iniziativa dei rivoluzionari erano prive di ragioni.
Lenin individua in queste posizioni la variante russa del revisionismo bernsteiniano. Il principio secondo cui “il movimento è tutto” in Russia si esprime nella presa di posizione programmatica che Lenin sintetizza così: “Anche la lotta economica è difficile […] ma è possibile, e per di più viene condotta dalle masse stesse. Imparando in questa lotta ad organizzarsi ed urtandosi continuamente nel corso di essa contro il regime politico, l’operaio russo creerà quella o quelle organizzazioni che sono più adatte alle condizioni della realtà russa”.[4]
Il quadro dell’arretratezza russa sembrava essere una barriera invalicabile, davanti alla quale si dovevano arrestare gli sforzi dei rivoluzionari, privilegiando, dal basso, la spontaneità del movimento.
Il marxista russo, secondo gli economisti, doveva restare alla coda – sia del movimento operaio spontaneo che della borghesia liberale – rinunciando alla propria azione indipendente, doveva “partecipare, dare cioè il proprio aiuto, alla lotta economica del proletariato e partecipare all’attività dell’opposizione liberale”.[5]
Il rapporto che gli economisti stabiliscono tra il movimento spontaneo dei lavoratori e la lotta politica è piattamente meccanico: poiché la lotta politica si volge contro l’autocrazia spetta alla borghesia dirigerla, mentre il proletariato deve mantenere una posizione di appoggio al processo.
La polemica di Lenin contro gli economisti, che si adagiano sul movimento spontaneo e rinunciano alla lotta politica indipendente della classe operaia, sarà un momento decisivo dell’azione per costruire il partito, per superare lo “spirito di circolo” e conquistare lo “spirito di partito”.
Lenin ristabilisce il corretto rapporto tra coscienza, base materiale e movimento: “’L’ideologo’ merita di essere chiamato ideologo[6] solo allorquando precede il movimento spontaneo e gli indica la via, quando sa risolvere prima degli altri tutte le questioni teoriche, politiche, tattiche e organizzative che si pongono spontaneamente agli ‘elementi materiali’ [spontanei, che non appartengono alla coscienza n.d.a.] del movimento. Per ‘tener conto degli elementi materiali’ del movimento, nella giusta misura, bisogna considerarli criticamente, bisogna saper indicare i pericoli e i difetti del movimento spontaneo, bisogna saper elevare la spontaneità a coscienza”. [7]
A quanti sostengono che “gli ideologi (cioè i dirigenti coscienti) non possono deviare il movimento dalla strada determinata dal giuoco reciproco dell’ambiente e degli elementi” in cui esso si svolge Lenin replica “che la coscienza partecipa a questa azione reciproca” e partecipa alla determinazione dei loro rapporti.[8]
Lenin si colloca qui al di fuori dell’influenza positivistica che, a cavallo tra Otto e Novecento, gravava pesantemente sul movimento socialista e si collega con l’impostazione del rapporto tra essere sociale e coscienza affermata da Marx in un noto passo delle Tesi su Feuerbach, allorché ricorda che “le circostanze sono modificate dagli uomini e che l’educatore stesso[9] deve essere educato[10]”.[11].
Questa concezione del rapporto tra situazione oggettiva e iniziativa rivoluzionaria Lenin la svilupperà in tutta la sua articolazione teorica nell’opera che fa i conti definitivamente con l’economismo: il Che fare, scritto tra il maggio 1901 e il febbraio 1902.
E’ il momento in cui si sviluppa, nel 1901, una grave carestia nelle campagne, con pesanti conseguenze per i lavoratori russi. Le lotte operaie entravano in una fase acuta con un’estensione degli scioperi spontanei. Ma “’l’elemento spontaneo’ – sottolinea Lenin – non è che la forma embrionale della coscienza”.[12]
Appunto, si tratta di coscienza embrionale. “Presi in sé, questi scioperi costituivano una lotta tradunionistica ma non ancora socialdemocratica; annunciavano il risveglio dell’antagonismo fra operai e padroni; ma gli operai non avevano e non potevano avere ancora la coscienza dell’irriducibile antagonismo fra i loro interessi e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo, cioè la coscienza socialdemocratica. Gli scioperi della fine del secolo dunque, malgrado il progresso immenso che rappresentavano in confronto con le ‘rivolte’ anteriori, restavano un movimento puramente spontaneo”.[13]
Lenin spiega chiaramente che la classe lavoratrice non perviene spontaneamente alla coscienza socialista. Riportiamo, a tal proposito, un passo importantissimo del Che fare?
“Ogni sottomissione del movimento operaio alla spontaneità, ogni menomazione della funzione dell’’elemento cosciente’, della funzione della socialdemocrazia significa di per sé […] un rafforzamento dell’influenza dell’ideologia borghese sugli operai. Tutti coloro che parlano di ‘sopravvalutazione della ideologia’, di esagerazione dell’elemento cosciente, ecc. immaginano che il movimento puramente operaio sia di per sé in grado di elaborare – ed elabori in realtà – una ideologia indipendente; che ciò che più conta sia che gli operai ‘strappino dalle mani dei dirigenti le loro sorti’. Ma questo è un profondo errore. […] La coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi”. [14]
Siamo qui davanti ad uno dei nodi più delicati del pensiero di Lenin sul partito.
Il partito comunista è quell’organizzazione cosciente dell’avanguardia della classe lavoratrice che porta in ogni rivendicazione una visione complessiva, che inserisce ogni battaglia immediata in una prospettiva politica generale che investe il problema decisivo, quello dell’alternativa di potere.
Ma come si arriva ad un’organizzazione con queste caratteristiche ed all’altezza del suo compito storico?
La coscienza critica del movimento sociale e politico – elemento essenziale del partito rivoluzionario – può formarsi nel momento in cui gli esponenti più avanzati della politica e della cultura borghese sono portati a riflettere sulla loro società, ad assumere coscienza delle sue contraddizioni e della loro insuperabilità.
“La dottrina del socialismo – scrive Lenin – è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali. Per la loro posizione sociale, gli stessi fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed Engels, erano degli intellettuali borghesi. Anche in Russia la dottrina teorica della socialdemocrazia sorse del tutto indipendentemente dallo sviluppo spontaneo del movimento operaio; sorse come risultato naturale e inevitabile dello sviluppo del pensiero fra gli intellettuali socialisti rivoluzionari”.[15]
Non vi è, quindi, un automatismo tra essere sociale e coscienza, nel senso che l’essere sociale borghese non può che generare una coscienza borghese. La coscienza dell’essere sociale borghese è, invece, coscienza di una realtà sociale contraddittoria e perciò è essa stessa coscienza contraddittoria, messa in crisi, spinta a superare le proprie contraddizioni nel riconoscimento della funzione guida di una classe che non è più la propria. Il momento in cui inizia a formarsi una teoria rivoluzionaria socialista è il momento del distacco dell’intellettuale borghese d’avanguardia dalla propria società.
Dalle contraddizioni della cultura dominante nasce il processo della formazione di una cultura rivoluzionaria, che si appropria delle acquisizioni della cultura tradizionale, innestandole in una nuova concezione.
Una visione critica complessiva della società non può essere il risultato di un’esperienza immediata (che è quella che compie l’operaio di fronte al padrone) ma di una visione critica complessiva di tutta la società a cui si può giungere solo per mezzo della scienza, degli strumenti di ragionamento che solo la filosofia, l’analisi economica, la cultura forniscono, intese al più alto grado della riflessione critica, quello che si fonda sul metodo del materialismo storico.
Per dirla con Marx, con il quale Lenin è perfettamente coerente, si tratta di quegli intellettuali che “sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme”.[16]
Per Lenin, come per Marx, non si tratta di cogliere categorie economiche, sociali e politiche astratte, ma di comprendere ed interpretare – per mezzo di categorie economiche – il processo storico nella dialettica delle sue contraddizioni, impiegare l’astrazione determinata per cogliere la determinazione concreta. “Non conosciamo altra scienza che la storia”, avevano scritto, a tal proposito Marx ed Engels ne L’ideologia tedesca. Anche per Lenin la teoria è coscienza dell’esperienza storica. Non a caso la teoria del partito viene tracciata da Lenin riflettendo sulle origini della teoria rivoluzionaria e del partito, riflettendo, cioè, sul processo storico.
“Dall’esterno della classe operaia”, abbiamo visto, significa, per Lenin, tra gli intellettuali, formatisi nell’ambito della cultura borghese, ma forniti degli strumenti di critica elaborati teoricamente. Ma significa anche fuori dal rapporto immediato operaio-padrone, fuori da quello spontaneismo che ancora in anni recenti viene teorizzato come la bussola che deve orientare la lotta politica.[17]
Il rapporto esperienza-coscienza non è immediato. Esige una mediazione: quella del partito che unisce la teoria al movimento. Ed è la teoria rivoluzionaria che consente di andare al di là dell’esperienza immediata, che sa negarla dialetticamente per assumerla, attraverso un’analisi che va al di là del fenomeno nella sua apparenza e ne coglie i tratti davvero fondamentali.
Al di fuori della comprensione dialettica del rapporto che Lenin stabilisce tra movimento e teoria, tra movimento e partito, la sua concezione del partito risulta incomprensibile.
La coscienza di classe non si traduce soltanto in linea politica ma in teoria, visione scientifica dell’insieme dei rapporti economico-sociali e politici. La linea politica scaturisce dalla teoria che, a sua volta, si forma ragionando sulle lotte sociali e politiche. Senza teoria non è possibile una linea politica coerente, cioè autonoma, sottratta all’influenza e alla direzione della borghesia. Senza teoria esisterà solo il praticismo dell’azione politica quotidiana, incapace di elevarsi all’organicità di un disegno complessivo che investa la struttura economica della società e il sistema del potere politico. “Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Non si insisterà mai troppo su questo concetto in un periodo in cui la predicazione opportunistica venuta di moda è accompagnata dall’esaltazione delle forme più anguste di azione pratica”.[18]
Lenin propone un partito di tipo ideologico? Nel senso positivo che il concetto di ideologia assume per Lenin, certamente. Il partito può essere veramente autonomo, da un punto di vista politico, solo se è fornito di un metodo generale di indagine e di una concezione fondati sul modo in cui il marxismo stabilisce il corretto rapporto tra struttura e sovrastruttura, demistifica la falsa universalità delle idee, riconducendole alla loro base di classe.
Solo così il partito della classe operaia può garantire l’indipendenza del proletariato ed essere portatore di questa coscienza politica rivoluzionaria; dal canto suo il movimento operaio non può elevarsi al suo compito politico se non supera la spontaneità e non si esprime in un’avanguardia politica, teoricamente consapevole.
Pensiamo a quanto questo sia di straordinaria attualità oggi.
Solo riconducendo ogni rivendicazione immediata all’interno di una prospettiva di rivoluzionamento sociale dell’esistente è possibile rendere davvero vincente uno scontro sociale, un movimento di lotta. Lenin ci insegna che solo contrapponendo una radicalità eguale ed opposta a quella messa in campo contro la classe sfruttata è possibile vincere. E questa radicalità non è limitabile alle armi tradizionali connesse al mero rivendicazionismo. Occorre non fermarsi agli strumenti tradizionali ma elevare questi fuori dai confini imposti dal capitale, ponendo la questione del potere dei lavoratori. La difesa del posto di lavoro, di un salario adeguato, l’organizzazione di uno sciopero in quest’epoca storica, in cui tutti gli spazi per il riformismo sono esauriti, non si possono limitare ad una dimensione meramente difensiva ma devono porsi ad un livello più avanzato, quello del partito rivoluzionario.
Il partito rivoluzionario non può e non deve adagiarsi sullo spontaneismo operaio che è permeato dall’influenza della classe dominante. Non si può limitare al tradunionismo, né può essere sostituito da un sindacato perché neppure il sindacato più combattivo può misurarsi con la complessità dei compiti che spettano al partito.
Non è un caso, infatti che la più grande esperienza sindacale rivoluzionaria, quella dell’Internazionale sindacale rossa, nacque sotto il segno del partito di Lenin e dell’Internazionale comunista.
In realtà quello che differisce la teoria leniniana del partito con i teorici dello spontaneismo non è una questione di opzioni organizzative ma di linea politica, di strategia complessiva. Se si vuol restare nel campo del rivendicazionismo spicciolo, dell’agitazione di stampo riformistico il partito rivoluzionario non serve. Viceversa diventa uno strumento indispensabile quando la classe lavoratrice non si rassegna alla sua funzione subalterna, quando acquista consapevolezza del suo ruolo storico e si organizza, attraverso il partito, per realizzarlo nella concretezza storica.
Il partito leninista si dà proprio questo compito. Organizzare militanti rivoluzionari attorno al programma comunista, formare “tribuni rivoluzionari” in grado di svolgere attivamente il ruolo di agitatori e propagandisti tra le masse, per elevare la loro coscienza apolitica.
Proprio la definizione del militante fu al centro dello scontro che animò il secondo congresso del Posdr. All’interno del partito si manifestarono due orientamenti contrapposti.
Si poteva iscrivere al partito chiunque accettasse di lavorare sotto la direzione del partito – come sostenevano i menscevichi – o chi svolgeva parte attiva nelle organizzazioni di partito? Lenin si battè strenuamente per la seconda posizione. Perché aveva chiaro che solo se il “bisogno oggettivo di comunismo” che scaturisce dalla lotta di classe si fa soggettività, coscienza organizzata, professione rivoluzionaria, solo allora l’operaio, lo studente, il contadino comunisti diventano quadri rivoluzionari e il partito diventa il luogo politico per organizzare in modo rivoluzionario la loro militanza.
Questa concezione rappresenta un punto dirimente per la costruzione di una forza autenticamente comunista, è lo spartiacque che ha separato i rivoluzionari dai riformisti e, alla luce della storia e del presente del movimento comunista, si ripropone in tutta la sua attualità.
Chi storce il naso di fronte al rigore dell’impostazione leniniana dovrebbe dirci quali sarebbero allora, nella nostra società vetero-capitalistica, fondata sulla disgregazione e l’atomizzazione sociale, le alternative credibili.
Certamente non è credibile il modello riformista del “partito nuovo”, delineato da Togliatti all’indomani della “svolta di Salerno”, esattamente agli antipodi del partito di Lenin. Un partito annacquato nelle modalità di adesione, dove lo scadimento del militante corrispondeva alla precisa necessità di consentire alla direzione politica di far digerire facilmente, ad una base impreparata, scelte politiche criticabili.
La differente concezione dell’organizzazione e della militanza è strettamente legata ad una diversa strategia politica. Il partito rivoluzionario ha finalità opposte al partito avvitato sulle istituzioni, che vive entro i confini angusti delle costituzioni borghesi.
Anche l’uso del metodo del “centralismo democratico” fa parte integrante della concezione leniniana dell’organizzazione e si ripropone oggi come un elemento cardine per formare l’organizzazione comunista. A patto, deve essere chiaro, di intenderlo correttamente e non ridurlo ad una formula tautologica che lo intende come un insieme indistinto di democrazia e disciplina, che anche un circolo bocciofilo per funzionare dovrebbe avere. E di non svilirlo a formula paralizzante che consente al gruppo dirigente del partito di assicurare il controllo degli iscritti, tra un congresso e l’altro.
L’omogeneità pigra tra dirigenti e militanti era del tutto estranea alla concezione di Lenin. Una pagina del ’21 ci chiarisce nettamente i tratti metodologici di Lenin: “Il partito è malato, il partito ha brividi di febbre […] Che cosa bisogna fare per ottenere la guarigione più rapida e sicura? Bisogna che tutti i membri del partito si mettano a studiare con assoluta calma e attenzione: 1) la natura delle divergenze e 2) lo sviluppo delle lotte nel partito. È indispensabile curare l’una e l’altra cosa perché il fondo delle divergenze si sviluppa si chiarisce, si concretizza (e spesso si modifica) nel corso della lotta [….]. Bisogna studiare l’una e l’altra cosa esigendo assolutamente documenti assai precisi, stampati, controllati sotto ogni aspetto. Chi crede sulla parola un inguaribile idiota su cui non si può riporre alcuna speranza”.[19]
A diciassette anni di distanza da Un passo avanti e due indietro Lenin mantiene lo stesso metodo, fondato sulla chiarezza, sulla pubblicità del dibattito tra i militanti. In mezzo ci sono state due rivoluzioni, una guerra civile; eppure coraggio teorico e vigore polemico si fondono, in Lenin, nell’affermazione di un partito, davvero rivoluzionario, “nuovo”, rispetto alle decadenti eredità, lasciate ai partiti socialdemocratici che formavano l’Internazionale socialista.
Veniamo qui ad un altro punto, decisivo ed illuminante. Come si forma il pensiero politico nella costruzione del partito?
Attraverso “l’analisi concreta delle situazioni concrete”, diremmo con riferimento a Marx e a Lenin. Giusto, ma non basta, ad esempio, ad orientarsi nella valutazione delle argomentazioni di Rosa Luxemburg, adottate in polemica proprio con Lenin.
La Luxemburg che nei Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa pone la questione del tipo di partito certo non fa considerazioni astratte. È estremamente concreta quando contrappone la maturazione della classe operaia tedesca alla ristrettezza e all’analfabetismo politico della classe operaia russa, le condizioni aperte della situazione tedesca al carattere pre-borghese del regime zarista o quando – polemizzando aspramente contro il concetto del rivoluzionario come “giacobino indissolubilmente legato all’organizzazione del proletariato cosciente”[20] – distingue tra rivoluzione borghese e rivoluziona proletaria.
Il nodo sta altrove. Per la Luxemburg la tattica è definita da tutto il partito e, ancor di più, dal movimento.[21] Ed è proprio quello che Lenin contesta. Dal movimento nel suo insieme possono derivare spinte contrastanti e direzioni contraddittorie. Una tattica rigorosa è possibile solo se si supera la spontaneità, se il partito è fortemente disciplinato e organizzato, se si regge su quadri che portano al massimo grado la preparazione teorica e l’esperienza politica.
Nella mancanza di una netta demarcazione tra movimento e partito, presente nella Luxemburg, vi è uno spontaneismo di fondo, mai superato, e si sottende una concezione determinista – quella del crollo inevitabile del capitalismo in conseguenza del suo sviluppo – che fa venir meno il ruolo decisivo dell’iniziativa politica, del partito rivoluzionario.
Una moderna formazione leninista deve essere in grado di recuperare la profondità scientifica del pensiero di Lenin riprendendo il percorso che il grande rivoluzionario russo ha seguito per costruire il partito.
Piaccia o no, gli argomenti di Lenin sono di oggettiva, evidente, attualità e fondatezza. E ci servono per rifondare radicalmente metodi di lavoro, modalità di essere militanti, per rompere con l’impaludamento ereditato dal passato, anche con quello storicamente più recente.
È attuale la concezione del partito di Lenin? Pensiamo proprio di si. Solo un partito di quadri rivoluzionari è in grado di invertire il corso rovinoso che sta massacrando la classe lavoratrice, trascinandola in un abisso che sembra senza via d’uscita.
Nel quadro attuale in cui manca non solo la consapevolezza profonda dell’alternativa rivoluzionaria ma gli elementi più elementari della coscienza di classe è indispensabile, urgente, non più rimandabile la presenza del partito leninista, del suo programma e della sua azione politica.
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[1] “I compiti dei socialdemocratici russi”, in V. I. Lenin, Opere complete, II, 1954, Edizioni Rinascita, Roma, p. 322.
[2] Il giudizio assai positivo che Lenin esprime riguardo al Saggio sul materialismo storico di Labriola rappresenta una conferma della chiave di lettura leniniana.
[3] “Progetto di programma del nostro partito”, in V. I. Lenin, Opere complete, IV, 1957, Editori Riuniti, Roma, p. 232.
[4] “Protesta dei socialdemocratici russi”, in V. I. Lenin, Opere complete, IV, cit., p. 172.
[5] Ibidem, p. 173.
[6] Per Lenin il termine ideologia ha un significato positivo. Esso non sta ad indicare, come per Marx ed Engels la “falsa coscienza”, che porta ad avere percezioni e rappresentazioni della realtà erronee e sbagliate per cui gli effetti dei rapporti reali nel cervello degli uomini vengono scambiati per cause. A questi rapporti “capovolti” consegue l’illusione che le ideologie godano di universalità e capacità di intervento sulla società in modo assolutamente indipendente dal condizionamento sociale.
Per Lenin l’ideologia è naturalmente condizionata dalla sua base di classe. L’ideologia del marxismo supera tuttavia la “falsa coscienza”, in quanto è consapevole del rapporto tra essere sociale e coscienza e, nella consapevolezza di tale rapporto e del proprio condizionamento di classe, realizza un grado di obiettività scientifica superiore.
[7] “Un colloquio con i sostenitori dell’economismo”, in V. I. Lenin, Opere complete, V, 1967, Editori Riuniti, Roma, p. 292.
[8] Ivi.
[9] Cioè l’ambiente sociale.
[10] Dagli uomini che in esso operano.
[11] K. Marx, “Tesi su Feuerbach”, in K. F. Engels, Opere, V, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 4.
[12] “Che fare?”, in V. I. Lenin, Opere complete, V, cit., p. 345.
[13] Ibidem, pp. 345-6.
[14] Ibid., pp. 352-90.
[15] Ibid., p. 346.
[16] K. Marx – F. Engels, “Manifesto del partito comunista”, in G.M. Bravo, Il manifesto del partito comunista e i suoi interpreti, Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 39.
[17] Qui ci riferiamo, a titolo meramente esemplificativo, a Holloway e al suo scritto Cambiare il mondo senza prendere il potere.
[18] “Che fare?”, cit., p. 340.
[19] V. I. Lenin, “La crisi del partito”, in Opere complete, XXXII, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 30.
[20] Cfr. R. Luxemburg, “Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa”, in Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 221 e sgg.
[21] Criticando Un passo avanti e due indietro la Luxemburg scrisse: ““Se la tattica socialdemocratica non è determinata da un comitato centrale, ma dall’insieme del partito o meglio ancora dall’insieme del movimento, le singole organizzazioni di partito hanno evidentemente bisogno di quella libertà d’azione che sola rende possibile la piena utilizzazione di tutti i mezzi offerti dalle circostanze per il perfezionamento della lotta e lo sviluppo dell’iniziativa rivoluzionaria. Per contro, l’ultracentralismo raccomandato da Lenin ci sembra pervaso in tutto il suo essere non dallo spirito positivo e creatore, ma dallo spirito sterile del guardiano notturno. La sia concezione è fondamentalmente diretta a controllare l’attività del partito e non a fecondarla, a restringere il movimento e non a svilupparlo, a soffocarlo e non a unificarlo”.