Il mistero del leninismo
Una rievocazione delle radici politico-culturali leniniane, attraverso la rilettura di alcuni testi eretici
Il 150esimo anniversario della nascita di Lenin è una buona occasione per dire qualcosa di inconsueto. Tanti saranno impegnati nell’eucarestia, Editori riuniti alla mano, glossando le liturgiche esposizioni di Gerratana e Parlato, Gruppi e Ragionieri. Roba su cui sarebbe sciocco sputare sopra, per di più oggi che ci appare addirittura miracolistica questa torsione nazional-popolare di Lenin. Ben venga dunque il ricordo e la gloria. Però si può dire anche altro, esplorare terre poco conosciute, svelare qualcosa che nessuno ricorda più, seppellito dal tempo e da quella stessa liturgia. Insomma, approssimarsi alla verità.
Vengono in aiuto alcuni libri, che vorremmo consigliare nonostante i loro autori, tutti dediti ad usare questa verità contro la rivoluzione, in maniera disonesta. Testi che ci raccontano del Lenin pre-rivoluzionario, accusato e ridicolizzato dall’ortodossia, protagonista di una storia ancora da scrivere, a differenza di quel senno del poi su cui, poi, è stata edificata una vicenda in cui tutti i conti tornavano: gli ortodossi erano “riformisti”, i critici “menscevichi”, o “terroristi”, e una nuova ortodossia veniva innalzata, il leninismo, con la quale giudicare e punire le eresie, le fughe in avanti, i “volontarismi” o gli “estremismi”. Vertigini dello storicismo.
Nel 1975 Alexandr Solženicyn pubblica Lenin a Zurigo, romanzo che nella visione iniziale dell’autore doveva far parte di un ciclo ben più vasto sulla storia della Rivoluzione russa. Ne rimarranno alcuni capitoli dedicati alla Prima guerra mondiale (grandi romanzi, come Agosto 1914). In questa sorta di spin-off ante-litteram prende vita un Lenin straniante: è ancora fresco l’odio del premio Nobel contro il comunismo e il suo artefice? Oppure le pagine del romanzo ci restituiscono una dimensione politica (e umana) del capo bolscevico ignorata ed estranea al racconto organizzato da Togliatti, Platone e Alicata?
Il romanzo non ha azione, come non ha azione la vita del rivoluzionario al confino. Lenin è chiuso nel suo esilio svizzero, pensa e scrive, e si tormenta. La rivoluzione è il suo assillo, e più si allontana, più si tramuta in ossessione. Le disfatte belliche si percepiscono da lontano: non solo dalla Svizzera non si ha compiuta contezza degli avvenimenti, ma i bolscevichi non hanno influenza su ciò che accade davvero.
Poi tutto cambia, la rivoluzione di febbraio schiude le porte alla storia, che si rimette in moto d’improvviso.
Viene a trovarlo Parvus, e lo sprona: il momento è adesso! Favoriamo la vittoria della Germania, provochiamo la sconfitta della Russia e il crollo dello zarismo. Provochiamo e raccogliamone i frutti:
«[Parvus]: Né voi né io guardiamo alla guerra con i criteri delle crocerossine. Le vittime, il sangue e le sofferenze sono inevitabili. Ciò che conta è tirarne fuori un risultato utile.»
[Lenin]: Ma certo, Parvus ha fondamentalmente ragione: bisogna che la Russia venga sconfitta e che quindi vinca la Germania ed è presso la Germania che bisogna cercare appoggi, e fin qui d’accordo! Ma soltanto fino a qui! Perché poi Parvus va troppo lontano. […]«Izrail’ Lazarevič, se pur i socialisti posseggono una qualche ricchezza, questa è l’onore. Quest’onore noi non lo dobbiamo perdere, significherebbe perdere tutto…» [pp. 114-115].
Il confronto dialettico è considerevole. La strumentalità della concezione politica leniniana, che piega i mezzi allo scopo rivoluzionario, è un tratto caratteristico e originale che Parvus, importante rivoluzionario nel frattempo arricchitosi in Turchia, riconosce come il vero segreto di Lenin.
È finito il tempo dei bombaroli e dei sindacalisti, dirà Parvus riconoscendo in Lenin la figura del rivoluzionario “di tipo nuovo”: occorre ragionare in grande e al cospetto della storia.
Quello che Parvus propone a Lenin è però un’ingegneria della rivoluzione che crede di controllare tutto un processo fondato – ed è qui l’alchimia leniniana – sulla casualità: «il socialdemocratico non prepara la rivoluzione, fa la rivoluzione», dirà Lenin nel Che fare?. Si fa trovare pronto a cogliere l’occasione, non manipola né la crea in laboratorio. L’ingegneria di Parvus non è realismo, ma cinismo. Questo “metodo di governo” delle relazioni umane, appannaggio delle classi possidenti e della borghesia al potere, non può essere ribaltato e fatto proprio dal proletariato, cambiandolo di segno e sottomettendolo alle ragioni della rivoluzione. Il realismo leniniano non è un’a-moralità calcolatrice, ma un processo continuamente innervato dal presupposto etico.
Contro un piano così grandioso Lenin non poteva produrre né le ragioni della diffidenza né quelle della riluttanza.
Tutto vi era come si deve. Secondo un ragionamento elementare il governo del Kaiser, il principale nemico del mio nemico principale, era il primissimo alleato. […].
Allearsi, d’accordo. Ma, più importante ancora dell’alleanza, la prudenza. La prudenza non come misura preventiva, ma come condizione di tutta l’azione. Se non accettate il criterio di una prudenza estrema, se ne vada al diavolo la vostra alleanza e tutto il vostro piano! Davvero non dovevate dare alle nonnette socialdemocratiche di tutta Europa il destro per le loro corali sputacchiose a base di Oh! e di Ah! Anche Lenin buttava lì di quando in quando che la Francia era una repubblica di redditieri e che non era poi il caso di compiangerla troppo, ma lo faceva con circospezione […].
Era stato allora che Lenin aveva compreso la debolezza di Parvus e la propria superiorità. Parvus, che partiva sempre prima di lui alla scoperta, che lo precedeva e gli sbarrava la via, non aveva però abbastanza fiato da prolungare la corsa [pp. 138-139].
È difficile capire questo Lenin senza cogliere la sua radicale alterità con l’ortodossia marxista del suo tempo, né prescindendo dalla sua formazione rivoluzionaria. Motivi che sono colti in tutta l’opera di Vittorio Strada, il maggiore conoscitore dello spirito letterario e rivoluzionario russo nell’Italia del secondo Novecento. Purtroppo la sua evoluzione politica e spirituale costituirà, dagli anni Settanta in avanti, un continuo cedimento alla più retriva conservazione, da Craxi a Berlusconi fino al misticismo religioso. Eppure lo Strada “comunista” degli anni Cinquanta e Sessanta ha contribuito al disvelamento del leninismo come originale e dirompente commistione di giacobinismo blanquista e ascetismo, terrorismo populista e materialismo dialettico. Una “summa” del suo lavoro di rinvenimento delle radici politico-culturali della personalità di Lenin può essere rintracciato nella celebre Introduzione al Che fare? edito da Einaudi nel 1971. Un libro che si pone in scia del fondamentale lavoro di Franco Venturi sul Populismo russo, nonché sulla sua ideale continuazione, La rivoluzione russa del 1905 di Valdo Zilli, allievo del Venturi venuto a mancare prima del completamento dell’opera di ricostruzione complessiva della temperie rivoluzionaria russa precedente al 1917.
Le vene decisive del leninismo vanno ricercate in quello che Plechanov, e con lui la socialdemocrazia russa, definiva come «blanquismo populistico-giacobino», la tensione congiuratoria che vedeva la rivoluzione come attività cospirativa di rivoluzionari che «ritengono opportuno organizzare una congiura, prendere in pugno il potere e poi rovesciare sulla testa dei propri sudditi una serie di benefici-decreti» [p. XXXIX]. Una torsione peculiare, che accoglieva Marx attraverso la mediazione di Tkačëv e del primo populismo di Zemlja j Volja. Contro il pacifico sviluppo delle forze produttive e delle relazioni sociali da queste generate, che avrebbe portato sul finire del secolo al contorcimento legalitario delle socialdemocrazie europee, Lenin raccoglie la lezione dei rivoluzionari del XIX secolo operando un’originale sintesi di “oggettivismo marxista” e “soggettivismo blanquista”. Un programma impresso anche all’origine del Posdr nel 1898, laddove affermava che «Come movimento e tendenza socialista, il Partito socialdemocratico russo continua l’opera e le tradizioni di tutto il precedente movimento rivoluzionario in Russia». La rivoluzione, per Lenin, si configura dunque come spazio d’incontro dialettico tra necessità e possibilità, con tutti gli elementi di casualità di cui questo spazio è costellato, e non il portato di un fatalistico corso delle cose o l’arbitrio di una volizione soggettiva. […] E si vedrebbe la straordinaria fusione di duttilità e intransigenza che, in sintonia col mutare delle situazioni concrete e con l’aprirsi e chiudersi delle loro oggettive virtualità essenziali, Lenin seppe conferire a tutta la sua coerente strategia e tattica storica…[p. LXXXIV].
Tutto, come detto, tornava nelle esegesi comuniste del secondo Novecento. Lenin era colui che aveva fatto la rivoluzione, e l’alchimia originale stava lì a dimostrazione della genialità del capo bolscevico. Interpretata in chiave teleologica, tutta l’esperienza leniniana pre-rivoluzionaria non costituiva altro che una tattica contingente al servizio di una strategia compiuta e disvelata nell’ottobre del ’17.
Eppure per i più accorti, e per i meno interessati a salvaguardare la rivoluzione dei suoi nemici, i conti non tornavano. Una confessione utile, in tal senso, è quella che può ricavarsi dalla lettura de I miei colloqui con Lenin, di Nikolaj Valentinov (1964). Altro “destro”, infine reazionario emigrato in Francia. Altro nemico della rivoluzione. Nonostante ciò, e in qualche modo proprio per questo, libero da autocensure morali o politiche. Il Valentinov ancora comunista accoglieva il leninismo ma, nelle valutazioni successive, ammette: «Non ci rendevamo conto di come la concezione volontaristica, “eroica” della storia contrastasse con la concezione materialistica di Marx» [p. 31]. Un problema tutt’altro che banale, molto sentito e che porterà, tra le altre cose, a quella “prima grande crisi epistemologica del marxismo” di cui ci ha parlato recentemente Luigi Vinci nel suo libro edito da Punto Rosso nel 2018.
Nella realtà il marxismo non può configurarsi come semplice “oggettivismo”, quanto – sulla scorta del Merleau-Ponty di Umanismo e terrore – di «identità del soggettivo e dell’oggettivo». La storia dunque, citando ancora Merleau-Ponty, «non utilizza l’uomo per realizzare i propri fini, come se fosse una persona indipendente: essa non è altro che l’attività dell’uomo che persegue i propri fini». E nonostante ciò, non si può evadere da una dimensione storico-filosofica che assegnava alla realtà un suo prodursi oggettivamente e, sulla scorta dell’influenza positivista dell’epoca, “progressivamente”. Erano problemi reali, che costringevano il marxismo del tempo a una scelta politica precisa, che però ne castrava quello spirito rivoluzionario che Lenin non voleva “lasciare” ai sindacalisti-rivoluzionari.
Il marxismo non poteva abbandonare la rivoluzione agli “altri”, forte del suo essere in connessione con l’incedere della storia. Questa l’ossessione leniniana.
E Valentinov, senza retrovie da difendere, riconosceva questo legame tra Lenin e lo spirito rivoluzionario populista, che andava oltre il marxismo – forse – e oltre l’ortodossia – sicuramente: «Si sbaglierebbe quindi a ricondurre a Marx e al marxismo l’evolversi del pensiero leniniano in senso rivoluzionario. A “solcare da capo a piedi” il giovane Vladimir Ul’janov fu Černyševskij» [p. 64]. «Non capire Černyševskij – insisteva Valentinov – era lasciarsi sfuggire l’essenziale della psicologia e del pensiero di Lenin» [p. 69]. Ma ovviamente Lenin è pervaso da Marx e dal suo oggettivismo, come dimostra la polemica contro Bogdanov e Lunačarskij nel fin troppo noto Materialismo e Empiriocriticismo. Lo stesso Lenin che affermava che «non si può comprendere appieno il Capitale di Marx, specie i primi capitoli, se non si è compresa e studiata attentamente la Logica di Hegel» [p. 227]. Ma questo è già un Lenin successivo, che ha rotto con le posizioni riformiste e legalitarie e combatte per evitare che la sua piccola setta bolscevica sbandi, approdando al volontarismo rivoluzionario e al soggettivismo. È questo il Lenin brandito, a volte con qualche ragione, in difesa delle garanzie costituzionali e della lotta parlamentare.
Il leninismo, e con esso il bolscevismo, si pongono dunque all’incrocio di più derivazioni, innestando sullo spirito rivoluzionario della Narodnaja Volja una teoria marxista dei rapporti di produzione. Forzando (decisamente) la mano, ma – anche qua – cogliendo un aspetto della realtà, dirà Valentinov che
Cosa può ricavarsi da un excursus rapido e incompleto come questo? Nel giorno del ricordo di Lenin, in cui tanti si affretteranno a celebrare il “grande manovratore”, sicuramente si potrà far notare che agli occhi del marxismo “ortodosso” dell’epoca così in effetti non appariva, quanto una strana creatura che inorridiva gli adepti della lettera marxiana e delle sue glosse ufficiali. Niente appare più eretico del tentativo leniniano di coniugare lo spirito blanquista-giacobino del populismo della seconda metà del XIX secolo russo, collegandolo al coraggio liberale che aveva portato al martirio e alla Siberia i decabristi della prima metà del secolo, innestando questa protesa soggettiva – ma non “soggettivista” – su di un’analisi della realtà che ne studiava le sue dinamiche oggettive, ricavata dal marxismo e dal suo rapporto con Hegel.
E in secondo luogo, “celebrando” Lenin possiamo sollecitare a una diversa apertura mentale: la storia della rivoluzione non è conservata solo nelle interpretazioni ufficiali. Possiamo ricavarne un significato, vivificandola, anche dalle fonti più inusitate. L’importante, come sempre, è dire la verità.
_____________
Nota di Redazione
La pubblicazione dell’articolo di Barile fa parte della volontà de “L’Ordine Nuovo di esplorare, per citare l’autore, «terre poco conosciute» senza censure preventive. Ogni contributo in questa direzione è tuttavia sottoposto al necessario dibattito e, se necessario, anche alla critica, come in questo caso. Esplorare Lenin attraverso autori anticomunisti è un approccio originale, ma le conclusioni tuttavia esigono un’analisi critica che nell’articolo manca. Non concordiamo con l’autore quando scrive che «la strumentalità della concezione politica leniniana, che piega i mezzi allo scopo rivoluzionario, è un tratto caratteristico e originale» di Lenin, in quanto riduce il frutto di un’elaborazione scientifica, fondata sullo studio della realtà e della storia, ad un pragmatismo basato sulla convenienza del momento, presentando la Rivoluzione Socialista come un colpo di stato di una minoranza, non come il risultato di una situazione rivoluzionaria, come tale percepita dalle masse, frutto del convergere di momenti oggettivi (la guerra e la crisi dell’autocrazia e del capitalismo) e soggettivi (l’organizzazione e il lavoro politico dei bolscevichi)…. continua