Lenin e la politica sindacale
Leninismo significa preparazione concreta delle condizioni per la vittoria della rivoluzione socialista. La necessità della rivoluzione, di un cambio radicale del sistema di potere, dei rapporti di produzione e di distribuzione dei prodotti della società, è oggettivamente dimostrata dall’incapacità del modello economico capitalistico di rispondere ai bisogni di larghissimi e costantemente crescenti strati di popolazione: le crisi economiche si presentano in maniera sempre più estesa e ravvicinata nel tempo, non consentendo mai un recupero dei livelli occupazionali e di benessere precedenti la crisi stessa.
Oggi l’emergenza sanitaria ha dimostrato ulteriormente la debolezza strutturale di questo modo di produzione, incapace di rispondere a shock economici se non con un ulteriore aggravamento della crisi di sistema, facendo ricorso all’indebitamento degli stati per salvare i grandi monopoli e ridurre il debito del settore privato. Le possibilità di agitazione delle masse, sindacalizzate o meno, in una prevedibile fase di ulteriore accentuazione dei tagli allo stato sociale, sono molto ampie. Dalla sanità all’istruzione, dall’ulteriore ristrutturazione industriale al peggioramento dei rapporti di lavoro, dall’attacco alla rappresentanza sindacale a quello al diritto allo sciopero, si moltiplicano i casi concreti di mobilitazione su cui lavorare. In questo senso è necessario comprendere, in occasione dei 150 anni dalla nascita del padre del “marxismo dell’epoca del capitalismo monopolistico”, il significato della lezione leninista riguardo al rapporto dei comunisti con le organizzazioni sindacali.
I sindacati dei lavoratori sono la prima organizzazione di classe che storicamente si sviluppa durante il corso del capitalismo.
“Nonostante il collegamento del partito con le masse solo attraverso i sindacati sia insufficiente, storicamente il proletariato si è sviluppato e poteva svilupparsi solo per mezzo dei sindacati e attraverso l’azione reciproca tra sindacati e partito di classe.” – Lenin, L’estremismo, malattia infantile del comunismo
Le organizzazioni sindacali dei lavoratori nel mondo dell’imperialismo contemporaneo, tra la cosiddetta industria 4.0, la pandemia di COVID-19 e la competizione inter-imperialistica sempre più acuta, restano in generale il residuo più consistente, almeno quantitativamente parlando, di un intero secolo di lotte sociali.
Se pensiamo alla liquidazione dei partiti comunisti in gran parte d’Europa, o anche se ci limitiamo a soffermarci all’Italia, possiamo osservare come, nonostante esista una diffusa e profonda tendenza alla liquidazione politica delle organizzazioni di classe di tipo partitico, è presente ancora una non trascurabile partecipazione a livello sindacale (anch’essa calante), tra strutture confederali e di base. In tutto questo la borghesia ha l’interesse di mantenere uno strato di aristocrazia operaia e di burocrazia sindacale che sebbene ridotto rispetto a qualche decennio fa, costituisce ancora la base sociale dell’opportunismo all’interno del movimento operaio.
L’opportunismo e il riformismo come corrente egemone nel movimento sindacale italiano hanno avuto il loro parallelo politico con la liquidazione del partito comunista e la sua progressiva sostituzione nel rapporto con la CGIL da parte di un centrosinistra più liberale che socialdemocratico, poi confluito in un unico partito (PD), utile strumento della ristrutturazione capitalistica, della trasformazione in senso precario dei rapporti di lavoro e dell’aggressione ai diritti sociali negli ultimi 30 anni. Pensiamo ai governi Prodi – D’Alema (con l’appoggio dei comunisti) e ai governi Monti e Renzi, tutti con un forte sostegno di quel centrosinistra.
La CGIL, che storicamente è stato il sindacato di classe nel nostro paese, la “cinghia di trasmissione del PCI”, ha seguito dialetticamente il declino o per meglio dire la trasformazione, prima interclassista e poi filopadronale, del partito stesso. Nel corso di questa mutazione genetica, la tendenza alla diminuzione degli iscritti è stata compensata dai milioni di pensionati e dalle centinaia di migliaia di aderenti per i servizi, portando ad un cambio di pelle del sindacato: dentro gli uffici ma sempre più fuori dalle fabbriche, seguendo anche in questo le tendenze dei partiti di centrosinistra e della sinistra radicale.
L’opportunismo dei capi sindacali si è concretizzato nel supporto ad una linea di “dialogo sociale”, che anziché aggredire la crisi economica capitalistica ne ha fornito una base di ristrutturazione a scapito delle classi lavoratrici. In questo senso abbiamo visto un totale appiattimento nei confronti delle logiche dell’Unione Europea, pensiamo solo per fare un esempio all’ “Appello per l’Europa” di CGIL CISL e UIL firmato insieme con Confindustria in occasione delle Elezioni Europee del 2019, dove tra le altre cose si dice che “l’UE è stata decisiva nel rendere lo stile di vita europeo quello che è oggi. Ha favorito un progresso economico e sociale senza precedenti con un processo di integrazione che favorisce la coesione tra Paesi e la crescita sostenibile. Continua a garantire, nonostante i tanti problemi di ordine sociale, benefici tangibili e significativi, nella comparazione internazionale, per i cittadini, i lavoratori e le imprese in tutta Europa.”.
Alla faccia dei 17 milioni di disoccupati e degli oltre 105 milioni di poveri del paradiso UE!
Tutto questo ha causato un profondo disorientamento nella classe operaia e ha permesso che un profondo mutamento dell’aspetto giuridico dei rapporti di forza nel nostro paese avvenisse senza una adeguata risposta di mobilitazione e di resistenza organizzata a partire dai luoghi di lavoro. Basti pensare all’articolo 18, alla contrattazione, ai rapporti di lavoro temporanei, all’attacco alla conflittualità e al diritto allo sciopero.
Come conseguenza di ciò la classe operaia è stata disarmata, la dimensione reale delle organizzazioni sindacali è diminuita nonostante l’assimilazione di milioni di pensionati nelle sue fila e di centinaia di migliaia di iscritti che se ne servono solo per servizi di assistenza fiscale o giuridico-vertenziale. Il riformismo e lo spirito di collaborazione con i padroni e i governi sono le principali cause ideologiche che hanno prodotto tutto ciò.
Questa condizione generale è tutt’altro che nuova per il movimento operaio. I rivoluzionari dell’epoca di Lenin si sono trovati in una situazione simile. Che fare quindi?
Innanzitutto osserviamo che durante il periodo dello sviluppo dei partiti socialdemocratici precedentemente alla Rivoluzione d’Ottobre, i sindacati hanno cominciato a rivelare alcuni tratti reazionari, che appaiono oggi tutt’altro che inattuali: spirito corporativo, tendenza all’apoliticismo, fossilizzazione nelle strutture, costruzione e mantenimento di un’aristocrazia operaia, personalismo.
Lenin sottolinea, però, che: “Bisogna lavorare assolutamente là dove sono le masse” e che “Non lavorare all’interno dei sindacati reazionari, significa abbandonare le masse operaie arretrate o non abbastanza evolute all’influenza dei capi reazionari, degli agenti della borghesia, dell’aristocrazia operaia, ossia degli operai imborghesiti”.
“Temere questo carattere reazionario, evitandolo, significa temere la funzione educativa dell’avanguardia proletaria.”
In una fase storica di quel tipo, rivoluzionaria oggettivamente e soggettivamente, chi si opponeva all’avanzare della rivoluzione era obbiettivamente da considerare reazionario. Oggi questo tipo di atteggiamento ha il suo fulcro in una politica sindacale concertativa e di conciliazione tra le classi che anziché rendere coscienti le masse organizzate della necessità di una lotta generalizzata sia a livello economico che politico, le consegna mani e piedi legati a governo e Confindustria.
Mantenere un atteggiamento leninista di fronte a questo ambito di lotta oggi vuol dire che i comunisti “non devono uscire dai sindacati e creare una «lega operaia» del tutto nuova, pura, escogitata da comunisti molto simpatici” (Lenin), ma cominciare a costruire le condizioni concrete per la ricomposizione e il rilancio della lotta di classe con il materiale che il capitalismo ci ha lasciato in eredità, senza mai perdere la bussola della prospettiva rivoluzionaria.
Attraverso le organizzazioni del partito, bisogna svolgere quotidianamente e in maniera coordinata e pianificata “un lavoro continuo di agitazione e propaganda all’interno, sui membri attivi e influenti. Una lotta contro i membri non rivoluzionari portatori di ideologie interclassiste, corporative, borghesi”.
Una lotta continua contro l’aristocrazia operaia, in nome della massa operaia, per portare questa massa operaia dalla nostra parte, con la consapevolezza che i sindacati, quanto meno nella loro parte più vicina ai luoghi di produzione, restano una importante “scuola di gestione operaia della produzione”.
Le crisi che viviamo non sono il risultato di una cattiva gestione. Non è questione di buona o cattiva gestione del capitalismo. La questione è che le contraddizioni di questo sistema sono ormai talmente evidenti e profonde da non permettere alcuna ricetta di contenimento. La questione è abbattere il sistema e sostituirlo. Da queste considerazioni si è affermata a livello internazionale la posizione della non partecipazione dei comunisti ai governi borghesi di gestione capitalistica delle crisi. È chiaro che lo sviluppo concreto della possibilità rivoluzionaria dipenderà dalla crescita dialettica dei partiti comunisti e delle organizzazioni sindacali di classe in ogni paese, e dalla loro interazione ed integrazione programmatica e nelle lotte.
Da tutto ciò risulta evidente che non si può semplicemente “tornare” alla normalità. Non si può pensare ad un futuro progressivo per i lavoratori e le loro famiglie senza rimuovere le contraddizioni principali che costituiscono le premesse di queste crisi economiche, senza rompere con il modo di produzione capitalistico, senza una rottura con lo stato borghese.
La vita di tutti i giorni ci dimostra che le conquiste dei lavoratori sono solo temporanee se la classe operaia non porta la lotta alle sue estreme conseguenze. Oggi la lotta fondata sulle necessità e sui bisogni dei lavoratori in tempi di crisi sanitaria, della crisi economica sottostante e di quella che si svilupperà a breve, è una lotta fondamentale che deve riuscire a mettere insieme la rivendicazione immediata con la lotta per una società diversa. L’accesso al cibo, il diritto all’abitazione, le condizioni lavorative, la sanità, i problemi ambientali e le morti sul lavoro, la cultura: tutte questioni su cui bisogna costruire delle lotte per il loro riconoscimento, ben consapevoli che queste vittorie sono impossibili da mantenere nel capitalismo e che bisogna quindi lottare per un suo rovesciamento per soddisfarle in maniera definitiva.
La presenza di forti organizzazioni di massa nei principali centri industriali è storicamente una necessità fondamentale per poter produrre un avanzamento ulteriore della lotta di classe. Come comunisti dobbiamo lottare per un rafforzamento della sindacalizzazione e della lotta contro le correnti conciliatrici e opportuniste nei sindacati.
Il cambio di sistema oggi non solo è oggettivamente concepibile, ma è per certi versi inevitabile. Solo la lotta cosciente della classe lavoratrice può produrre i germi di questa rivoluzione.