L’importanza della teoria dello Stato leninista all’epoca della crisi del Covid-19
Lenin teorico della politica marxista
Lenin è stato il più grande teorico marxista del XX secolo e la sua opera rappresenta un classico, essendo un punto di riferimento imprescindibile per la teoria e la politica rivoluzionaria del XXI secolo. Il contributo di Lenin parte direttamente dallo studio di Marx ed Engels, ma ha una sua originalità, perché la sua elaborazione è sempre creativa e capace di adattare e sviluppare i principi dei due fondatori del socialismo in base alle condizioni e al mutare della storia. La teoria leninista è la teoria della rivoluzione per come questa si prospettava tra la fine dell’XIX e l’inizio del XX secolo e rappresenta un corpus unitario, con le varie parti – lo studio delle condizioni economiche della Russia, la teoria dell’imperialismo, la teoria dello Stato e del partito – che si incastrano perfettamente, realizzando la visione d’insieme e intimamente coerente di un progetto rivoluzionario.
Tuttavia, se ci si permette una valutazione, la parte più originale e importante, da cui trarre indicazioni preziose per il presente, è quella della teoria politica. Infatti, Lenin ha il merito enorme di aver realizzato qualcosa che prima non esisteva se non in spunti sparsi: l’elaborazione e la sistematizzazione di una teoria marxista della politica.
Lenin è sia il leader pratico della Rivoluzione d’Ottobre sia il teorico principale della politica in senso marxista. Non che Marx e Engels non avessero una teoria politica, tutt’altro. Entrambi svolsero un decisivo ruolo politico pratico nella I internazionale, e in tutte le loro opere fanno riferimento a elementi di teoria politica, soprattutto allo Stato, da cui Lenin trae spunto e attinge a piene mani, ma nessuna delle loro opere tratta in modo sistematico ed esclusivo dell’argomento. Si può dire che la teoria politica marxista si è definita con Lenin quando si sono generate le condizioni storiche per la rivoluzione politica. Questo è vero, ma in realtà il problema della mancanza di una teoria politica marxista rappresenta un grave limite anche in periodi non rivoluzionari.
Fu proprio Lenin a denunciare come la mancanza di una teoria dello Stato fosse alla base della degenerazione opportunistica della II Internazionale e dell’allinearsi dei partiti socialisti, che ne facevano parte, ai rispettivi imperialismi al momento dello scoppio della I Guerra mondiale. Ma anche dopo l’Ottobre sovietico, quando si cercò di diffondere la rivoluzione in Europa occidentale, è sempre alla mancanza o ai limiti di comprensione della teoria politica marxista che da Lenin viene attribuita l’incapacità di una parte dei partiti comunisti occidentali di sviluppare una vera pratica politica di massa, liberandosi delle tendenze estremiste[1].
La Teoria politica di Lenin si compone essenzialmente di due parti: la teoria dello Stato e la teoria del partito, la quale contiene anche un’altra parte importante, la teoria della coscienza di classe. Sebbene usualmente abbia riscosso maggiore attenzione la teoria del partito, la parte più importante è costituita dalla teoria dello Stato, cui Lenin, subito prima della rivoluzione d’Ottobre dedica l’opera più importante: Stato e rivoluzione (pubblicato nel maggio 1918), le cui tematiche verranno riprese, in parte, da La Rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky (novembre 1918). Lenin, in Stato e rivoluzione, ci rivela come avesse dovuto svolgere un vero e proprio lavoro di scavo archeologico per riportare alla luce, dopo cinquanta anni, i principi di teoria dello Stato di Marx e Engels, tanto profondamente erano stati espunti dalla ideologia ufficiale dalla socialdemocrazia dell’epoca. Anche oggi si rende necessario un simile lavoro di scavo archeologico, solo che si dovrebbe andare ancora più nel profondo e confrontarsi con illusioni sulla democrazia e sullo Stato, che sono molto più radicate che all’epoca in cui Lenin scriveva.
La non neutralità di classe dello Stato
Proprio oggi, nell’epoca della crisi del covid-19, definire correttamente la natura dello Stato e il modo di rapportarsi ad esso è di importanza ancora maggiore, perché siamo in una fase in cui il ruolo dello Stato sembra riacquistare una nuova importanza. Per decenni, nel corso di quella che è stata definita globalizzazione, erano stati in molti a sostenere l’obsolescenza se non l’inutilità dello Stato. Oggi, a fronte della crisi più grave dal ’29 si assiste invece ad un revival dello Stato.
Il vecchio Stato nazionale dimostra di poter bloccare le frontiere a persone e merci, impone la segregazione in casa a miliardi persone, soprattutto, è chiamato a sostenere le imprese dinanzi al fallimento del principio che aveva guidato il mondo per quaranta anni, il mercato autoregolato. Lo Stato è persino sollecitato da antichi alfieri della disciplina di bilancio, come Draghi, a indebitarsi senza freni pur di salvare il sistema capitalistico dal suo disfacimento. Persino nella neoliberista Ue, attraverso la commissaria alla concorrenza Vestager, viene dato il via libera agli aiuti di stato alle imprese e alle nazionalizzazioni, per impedire che imprese strategiche vengano a cadere nelle mani di Stati stranieri. A muoversi in questo senso non sono solo l’Italia, dove lo Stato ha rafforzato la normativa sul golden power[2], e la Francia, ma anche la Germania.
Allo stesso tempo la globalizzazione subisce duri colpi dall’aumento delle misure protezionistiche implementate dai vari Stati, non solo gli Usa e la Cina, ma anche la Ue. Intanto le lunghe catene del valore, ossia l’articolatissima divisione internazionale della produzione delle merci, subiscono un accorciamento mediante la reinternalizzazioni di intere parti della produzione nei Paesi sedi delle imprese. Insomma, siamo di fronte all’emergere di un nuovo paradigma di accumulazione capitalistica, già emerso da qualche tempo ma accelerato dalla pandemia, al centro del quale si riposiziona lo Stato. Di conseguenza, si ripropone come centrale anche la questione della natura dello Stato, anche perché molti cadono nell’equivoco che questo nuovo interventismo dello Stato sia sempre positivo in sé stesso, accogliendo con sollievo quella che sembrerebbe essere la fine del libero mercato autoregolato. Anzi, per alcuni il nuovo ruolo dello Stato sarebbe quasi prodromico alla riproposizione del socialismo come opzione storica.
Questo modo di vedere presuppone un grave limite, ossia la concezione dello Stato come di una macchina essenzialmente neutrale sia dal punto di vista degli interessi di classe che rappresenta, sia dal punto di vista della sua forma e struttura di funzionamento interna. È precisamente questa concezione che viene criticata dalla teoria leninista dello Stato, secondo la quale lo Stato non è mai neutrale dal punto di vista di classe.
Lo Stato nasce dalla divisione in classi della società
La verità è che non è la prima volta che lo Stato interviene direttamente nel processo di accumulazione, anzi la storia del capitalismo è un continuo alternarsi di maggiore e minore presenza dello Stato a seconda delle condizioni che attraversa il modo di produzione capitalistico. Una di queste epoche è proprio quella in cui Lenin elabora la sua teoria dello Stato, quando si affermano il capitalismo monopolistico di Stato e l’imperialismo. Il primo punto da cui parte Lenin è l’origine dello Stato.
La nascita stessa nella storia dello Stato è legata alla divisione della società in classi sociali contrapposte: “Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento e in quanto, dove, quando e nella misura in cui gli antagonismi di classe non possono essere conciliati. E per converso l’esistenza dello Stato prova che gli antagonismi di classe sono inconciliabili. (…) Lo Stato è l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra. È la creazione di un ordine che legalizza e consolida questa oppressione, moderando il conflitto fra le classi”[3].
Gli apparati del dominio di classe dello Stato
Il secondo punto riguarda il modo in cui lo Stato esercita tale dominio di classe, cioè quale ne sia la funzione principale. Lo Stato è un apparato, una macchina che ha come caratteristica principale il monopolio dell’esercizio della forza o della violenza entro un certo territorio. Fin qui anche i teorici borghesi sarebbero d’accordo ed è esattamente questa la definizione che l’antimarxista Max Weber dà dello Stato[4]. Ma, per il marxismo, il punto è che questo monopolio dell’esercizio della forza viene esercitato dalla classe economicamente dominante contro la classe economicamente subalterna. La forza stessa non è esercitata dai cittadini come comunità in armi, come poteva accadere nelle comunità primitive. Al contrario, “la società civile è divisa in classi sociali ostili, inconciliabilmente ostili, il cui armamento <<autonomo>> determinerebbe una lotta armata fra di esse”[5]. Per questo si forma lo Stato e si creano distaccamenti speciali di uomini armati, separati dal resto della popolazione, di cui sono espressione la polizia e gli eserciti permanenti con le loro appendici materiali, carceri, tribunali e caserme. Infatti, quando una classe ne soppianta un’altra si sforza subito di ricostruire nuovi distaccamenti armati che la servano.
La natura di classe è propria di qualunque tipo di Stato, attraverso il quale la classe economicamente dominante diventa anche la classe politicamente dominante. Questo dato di fatto è riscontrabile anche nello Stato moderno, nella repubblica democratica. Anzi è proprio qui che lo Stato ricopre in modo più efficace la sua funzione.
Secondo Lenin, “L’onnipotenza della <<ricchezza>> è in una repubblica democratica tanto più sicura in quanto non dipende da un cattivo involucro politico del capitalismo; per questo il capitale dopo essersi impadronito di questo involucro – che è il migliore – fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro, che nessun cambiamento, né di persone, né di istituzioni, né di partiti nell’ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo.”[6] La repubblica democratica ha rafforzato il suo carattere di classe, oltre che grazie al potere di imporre imposte e al debito pubblico, soprattutto attraverso due istituzioni: la crescita di un enorme apparato burocratico, costituito da una classe di funzionari, “che appaiono come organi al di sopra della società”[7], e il militarismo, basato sull’esercito permanente. La critica di Lenin è estesa anche al parlamentarismo. Lenin non è contro le istituzioni rappresentative, ma contro il parlamentarismo, perché il Parlamento “mai nella democrazia borghese decide delle questioni più importanti: esse vengono decise dalla Borsa e dalle Banche.”[8]
La necessità di spezzare la vecchia macchina dello Stato
Il terzo punto riguarda il rapporto tra la classe lavoratrice e lo Stato. La critica di Lenin è duplice. Da una parte è rivolta agli anarchici che si disinteressano dello Stato e la cui unica preoccupazione è abbatterlo, senza porsi il problema di con che cosa e come sostituirlo. Dall’altra parte, la critica è rivolta ai partiti socialdemocratici che ritengono la burocrazia ineliminabile e sempre necessaria. Come ben sintetizzato da Kautsky, il maggiore teorico della socialdemocrazia tedesca, “l’obiettivo della nostra lotta politica rimane la conquista del potere statale mediante il conseguimento della maggioranza in parlamento e della trasformazione del Parlamento in padrone del governo”[9]. Inoltre, sempre per Kautsky, il compito della lotta dei lavoratori nel capitalismo “non può essere di distruggere il potere statale”, ma soltanto di “indurre il governo a fare delle concessioni o di sostituire un governo ostile al proletariato con un governo che gli vada incontro” mediante “un certo spostamento nel rapporto delle forze all’interno del potere statale”[10]. La teoria marxista dello Stato ritiene, invece, che il potere non può essere preso con il semplice suffragio universale e che la classe lavoratrice, una volta conquistato il potere, non può limitarsi a prendere la vecchia macchina dello Stato e a usarla a così com’è a proprio favore.
Così scrive Lenin: “La questione essenziale è di sapere se la vecchia macchina statale (legata con mille fili alla borghesia e impregnata di spirito burocratico e conservatore) sarà mantenuta oppure distrutta e sostituita con una nuova. La rivoluzione non deve consistere nel fatto che la nuova classe comandi o governi per mezzo della vecchia macchina statale, ma che, dopo averla spezzata, comandi attraverso una macchina nuova: è questa l’idea fondamentale del marxismo che Kautsky fa sparire o non ha assolutamente capito.”[11]
Un nuovo tipo di Stato
Il quarto punto è inerente alle caratteristiche del nuovo Stato della classe lavoratrice, ossia la questione della democrazia e della dittatura del proletariato, definita da Marx come la forma dello Stato socialista. La parola dittatura già all’epoca di Lenin suscitava delle perplessità, ad esempio in Kautsky stesso. La risposta di Lenin è che ogni Stato è una dittatura esercitata dalla classe dominante sulla classe dominata. Ora, si da il caso che, una volta preso il potere dalla classe operaia, le classi non si eliminano immediatamente da sé stesse, ma che continuino a esistere per un certo lasso di tempo. Per queste ragioni, la dittatura del proletariato è esattamente la forma del dominio della classe lavoratrice sui residui delle classi superiori nel periodo di transizione (altrimenti definito socialismo) dal capitalismo al comunismo. Così scrive Lenin sulla questione: “Riguardo alla democrazia un marxista non dimenticherà mai di porre la domanda: <<per quale classe?>> (…) dittatura non significa obbligatoriamente la soppressione della democrazia per la classe che esercita questa dittatura contro le altre, ma significa obbligatoriamente soppressione o importantissima restrizione (restrizione che è essa pure un aspetto della soppressione) della democrazia per quella classe su cui o contro la dittatura è esercitata.”[12]
Se il significato di democrazia è il dominio della maggioranza sulla minoranza, la democrazia si realizzerebbe nel modo più compiuto proprio nella dittatura del proletariato, che è appunto il dominio della maggioranza degli sfruttati sulla minoranza degli sfruttatori.
Un dominio che deve essere fondato, oltre che sul potere armato della classe lavoratrice, su organismi statuali che, come abbozzava Lenin a ridosso della conquista del potere in Russia, non possono che essere sempre meno burocratici, cioè sempre meno istituzioni separate dalla massa del popolo, e sempre più organismi di partecipazione e controllo delle masse sulla gestione della cosa pubblica.
La teoria leninista dello Stato e l’oggi
La teoria dello Stato leninista è molto più articolata e complessa di quanto in queste poche righe abbiamo cercato di abbozzare ed è stata ulteriormente sviluppata, in alcuni aspetti, dallo stesso Lenin durante il suo breve periodo di capo del governo sovietico, specialmente sul ruolo di mediazione dello Stato operaio tra le classi popolari e sugli strumenti di controllo della classe operaia sulla produzione e sullo Stato. Altri teorici hanno cercato di sviluppare ulteriormente la teoria politica, partendo da Lenin, come Gramsci e Poulantzas hanno fatto con esiti importanti.
Ma da ormai molto tempo c’è necessità di proseguire e aggiornare l’elaborazione della teoria politica marxista e in particolare quella dello Stato. Il compito è particolarmente necessario oggi non solo perché in Occidente lo Stato sta riprendendo una centralità, che solo in parte aveva lasciato, e in Europa l’euro e la Ue hanno modificato le modalità con cui il capitale ha esercitato il suo dominio sulla classe lavoratrice, ma anche perché abbiamo sotto gli occhi numerose esperienze di tentativi socialisti da cui trarre spunto, sia quelli storici dell’Urss, dei Paesi dell’Est e della Cina, sia quelli contemporanei degli Stati latino americani che hanno provato a costruire un loro percorso di socialismo del XXI secolo. Nonostante lo Stato abbia apparentemente perso potere, in realtà con la Ue e l’euro, se intendiamo – insieme con Lenin – con il termine di Stato l’apparato del dominio della classe capitalistica sulla classe lavoratrice, lo Stato si è molto rafforzato. Fra l’altro proprio per due fattori che Lenin descrive come tipici della saldezza del dominio di classe nella forma democratico-borghese. In primo luogo, la proliferazione di un apparato burocratico – nel nostro caso anche europeo – e la delega, attraverso di esso, di alcune importanti funzioni dello Stato, in particolare il controllo dei bilanci pubblici e della moneta.
La critica al parlamentarismo di Lenin trova nuove conferme nella sostanziale estromissione dei Parlamenti nazionali (e del Palamento europeo) dalle decisioni non solo da parte della burocrazia europea – a partire dalla Bce – ma anche dalla Borsa e dalle banche, ossia da parte dei mercati finanziari: uno spread che sale ha un potere di condizionamento delle scelte politiche molto maggiore di un qualsiasi parlamento nazionale, che molto spesso è confinato in discussioni su fenomeni di importanza secondaria. Ma anche all’interno dello Stato tradizionalmente inteso il dominio del capitale si è rafforzato insieme al rafforzamento del potere degli esecutivi sui parlamenti e al rafforzamento dei distaccamenti armati, compreso il passaggio di quasi tutti gli stati europei al modello di esercito professionale, sempre più impiegato all’estero in operazioni spesso di vera e propria guerra e all’interno in funzioni di ordine pubblico. Il ricorso, sempre più frequente, all’emergenza, sia essa economica, di finanza pubblica o sanitaria, rafforza la tendenza al dominio statuale e alla concentrazione del potere non certo quella alla democrazia.
Inoltre, nei cento anni da Stato e rivoluzione abbiamo visto riemergere a più riprese, anche recentemente, quelle stesse concezioni opportuniste che Lenin criticava in Kautsky come le illusioni sul “sostituire un governo ostile al proletariato con un governo che gli vada incontro” e sulla “conquista del potere statale mediante il conseguimento della maggioranza in Parlamento”. Quindi, l’aspetto più attuale della teoria dello Stato leninista sta nella conferma della centralità del concetto di non neutralità dello Stato e nella impossibilità di usare così com’è la macchina statale ereditata dalla borghesia.
Un intervento rinnovato dello Stato nell’economia avrà, come si sta già dimostrando, un segno di classe preciso, cioè a favore del capitale. La non neutralità dello Stato è, però, un concetto centrale anche nel caso di eventuale conquista del potere politico, come Lenin non si stancava di sottolineare. Hanno fatto esperienza concreta di questa verità molti stati latino americani, dove la conquista del governo da parte di forze di sinistra ha lasciato intatta la macchina dello Stato e i suoi legami con la classe dominante, a partire dagli apparati polizieschi, militari e giudiziari, che, infatti, non hanno mancato, come ad esempio nel passato in Cile e più recentemente in Brasile, di incidere sugli esiti successivi del processo politico a danno dei partiti dei lavoratori. Se il Venezuela ha potuto resistere, almeno fino ad ora, è stato proprio perché l’apparato militare è sempre stato legato al governo.
Sono passati più di cento anni da Stato e Rivoluzione e dal Rinnegato Kautsky, e vanno sempre evitate letture dogmatiche che applichino in modo troppo meccanico qualunque teoria, anche la migliore, ma credo che, letta criticamente, la teoria leninista dello Stato possa fornirci dei fondamentali da cui partire che sono ancora oggi pienamente validi. L’insegnamento principale è la centralità della lotta contro lo Stato, anche per la formazione della coscienza di classe. Infatti, come sostiene Lenin nel Che fare? “Il campo dal quale soltanto è possibile attingere questa coscienza di classe è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo”[13].
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[1] Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, Editori riuniti, Roma, 1974.
[2] Il golden power attribuisce al governo poteri di interdizione, indirizzo e orientamento nelle transazioni in settori e ambiti strategici (difesa, sicurezza nazionale, energia, trasporti, telecomunicazioni, ecc.)
[3] Lenin, Stato e rivoluzione, Editori riuniti, Roma 1981, pp.61-62.
[4] Max Weber, Economia e società, IV Sociologia politica, Edizioni di Comunità, Milano 1995, pp. 4-10.
[5] Lenin, Stato e rivoluzione, p.65.
[6] Ibidem, p.69.
[7] Engels, cit. in Ibidem, p.67.
[8] Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, Newton Compton Editori, Roma 1978, p.50.
[9] Kautsky, cit. in Lenin, Stato e rivoluzione, pp.199-200.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem, p.196.
[12] Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, p. 35.
[13] Lenin, Che fare? In Trockij, Luxemburg, “Rivoluzione e polemica sul partito”, Newton Compton editori, Roma, 1976, p.113.