Il dramma dei lavoratori indiani ai tempi del corona virus
Con l’avvio del lock-down decine di milioni di lavoratori sono costretti ad abbandonare le grandi città o a rimanere intrappolati senza cibo né alloggio.
Carovane di milioni di lavoratori con le loro famiglie si sono formate in India all’inizio di questo mese, nel tentativo di lasciare Nuova Delhi e le altre grandi città per raggiungere i loro villaggi, anche a centinaia di chilometri di distanza. Dopo l’improvvisa chiusura del 24 marzo a causa del diffondersi della pandemia, decine di milioni di lavoratori sono rimasti senza lavoro, senza reddito, alla fame e senza possibilità di far ritorno alle loro case.
Milioni di poveri, affamati, assetati, giovani e anziani, uomini, donne, bambini, malati, disabili, senza più un posto nelle città, sono partiti a piedi verso la campagna e le loro famiglie d’origine, mentre i trasporti pubblici erano fermi. Al 29 marzo si contavano almeno 22 morti lungo la strada. La polizia interviene per reprimere violentemente questi flussi, picchiando i lavoratori poveri in fuga dalla città per imporgli il divieto di circolazione, anziché fornire misure di assistenza sociale per la sopravvivenza e un’adeguata assistenza sanitaria, la cui inesistenza è la reale causa della diffusione del virus. Il governo centrale ha infine deciso di chiudere i confini interni agli stati federali impedendo il passaggio degli esausti emigranti dalle città.
L’India è una delle cosiddette economie capitaliste “emergenti”, con significativi tassi di crescita, una potenza nucleare in ascesa nel sistema imperialista internazionale (fa parte dei BRICS), con una posizione particolarmente geo-strategica nella regione asiatica che va dal Medio Oriente alla Cina. I più potenti centri imperialisti del mondo – dagli USA alla Russia, passando dall’UE – hanno relazioni economiche, commerciali e militari notevoli con l’India nel quadro della competizione con la Cina, individuandola come potenziale “contrappeso” ad essa nella regione, grazie anche alla giovane età media della sua popolazione, al grande mercato, al livello di innovazione tecnologica, ecc..
Allo stesso tempo, la stragrande maggioranza dei lavoratori del paese, che ha una popolazione di circa 1.3 miliardi di persone, lavora in “nero”, senza contratti, senza assicurazione. Lo stesso censimento redatto dal governo ha rilevato che l’87% di tutte le imprese nel paese operano “in modo informale”. Quando le fabbriche, i settori dell’edilizia e dell’agricoltura, i negozi e i ristoranti sono stati chiusi, quando i ricchi e la classe media si sono chiusi nelle proprie case per proteggersi dalla pandemia, nelle grandi città è emerso il dramma dei lavoratori – di cui molti giornalieri – e delle loro famiglie.
Il primo ministro indiano, N. Modi, ha annunciato martedì scorso l’estensione delle misure restrittive fino al 3 maggio. A Mumbai e in altre città vi sono state manifestazioni di lavoratori, picchiati dalla polizia, che chiedono di poter tornare nelle loro case d’origine. Il governo di destra, inoltre, sta utilizzando la crisi per intensificare la repressione politica, arrestando qualsiasi cittadino sospettato di “attività antistatale”.
«La quarantena di tre settimane mostra adesso che gran parte della popolazione ha fame e non ha un alloggio adeguato», ha dichiarato il Partito Comunista d’India (Marxista), esortando il governo ad assumere misure concrete per la classe operaia, così come misure sanitarie adeguate a identificare i focolai di diffusione della pandemia e misure di protezione per il personale infermieristico. Inoltre ha richiesto al governo di non scaricare l’onere della lotta contro l’epidemia sulle comunità locali e l’introduzione di un programma di test anti-virus gratuito per tutti coloro che ne necessitano, sul modello dello stato del Kerala. Il Partito Comunista Indiano ha osservato che le decisioni del governo «ignorano le persone sofferenti, in particolare i migranti interni e i lavoratori a giornata, compresi i medici e il personale sanitario».
In una dichiarazione congiunta del PCI (m), PCI, PCI (ml) – Liberazione, Partito Socialista Rivoluzionario e Blocco Avanzato, si rileva che «molte persone hanno perso le loro fonti di sostentamento. L’esodo dei lavoratori migranti dai centri urbani ha dimostrato l’inquietante livello di sostentamento delle persone causato dall’improvviso annuncio del blocco. C’è un urgente bisogno di fermare la diffusione della fame, della malnutrizione. La pandemia Covid-19 si nutre di queste condizioni delle persone […] È necessario predisporre adeguate strutture sanitarie per i lavoratori migranti e di altri che hanno viaggiato in luoghi diversi. Strutture di quarantena efficaci e igieniche devono essere istituite in tutte le aree del paese. Bisogna metter fine alla brutalità della polizia nei confronti dei lavoratori migranti e devono essere prese misure rigorose contro coloro che hanno dato tali ordini. In tutti i centri urbani, in particolare nel grande conglomerato di baraccopoli urbane, è urgentemente necessario fornire cereali e generi di prima necessità ai bisognosi per prevenire la fame, l’inedia e la diffusione della malattia».
I comunisti indiani mostrano preoccupazione anche per il proseguire della violenza settaria, fomentata dalla borghesia e dal governo, che colpisce le minoranze nazionali e religiose, in particolare i musulmani, con richiami da parte della destra nazionalista a effettuare dei veri e propri pogrom.
Le associazioni padronali e gli economisti dal canto loro sono preoccupati per il rischio di recessione economica e di possibili rivolte: «L’aumento della disoccupazione, la perdita di reddito e l’insoddisfazione per le misure draconiane potrebbero portare a disordini sociali», mentre l’economia capitalista indiana rischia di ridursi del 4% quest’anno.
Nei bassifondi di Dharawi
In India sono stati segnalati circa 13mila casi accertati e 423 decessi da Covid-19, ma i dati ufficiali sono ben lontani dalle dimensioni reali della pandemia nel vasto paese (si stimano da 300 a 500 milioni di casi entro luglio), come dimostra il dato che colloca l’India agli ultimi posti della classifica mondiale per test effettuati in relazione alla popolazione. Circa 10.500 sono i pazienti ricoverati negli ospedali con sintomi gravi, solo ad essi sono effettuati test diagnostici, mentre il virus si diffonde rapidamente e silenziosamente tra la classe lavoratrice che vive in condizioni miserabili nelle grandi città densamente popolate. Gran parte di loro non accede al sistema sanitario quasi inesistente, che possiede solo 0,5 letti d’ospedale per ogni 1.000 persone. Tipica è la situazione del distretto di Dharawi, immensa baraccopoli urbana nei sobborghi della capitale finanziaria dell’India, Mumbai, in cui si stima che vivano da 600.000 a 1 milione di persone in circa 2.5 km2, una densità tale da farlo considerare uno dei più grandi slums del mondo.
Le possibilità di diffusione del Covid-19 sono altissime. Seppur relativamente giovane, la popolazione di questa area urbana è afflitta da malattie frequenti e diffuse, come la tubercolosi e la malaria e vive in uno spazio ristretto senza adeguati servizi igienici e acqua corrente, una situazione in cui sono impossibili sia il distanziamento sociale che la sanificazione. È inoltre significativo per comprendere la situazione sociale indiana, come in questi bassifondi non vivano solo i “poveri più poveri”, ma anche operai industriali e piccoli commercianti, a causa dei costi molto alti degli alloggi, a Mumbai come nelle altre metropoli.
Mentre gli appartenenti alle classi privilegiate si sono isolati e beneficiano di cure mediche private, i poveri rimangono rinchiusi nei sobborghi, circondati dall’esercito e dalla polizia senza assistenza sanitaria.
Il Kerala “rosso”
A differenza del resto del paese, recentemente l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha elogiato lo stato del Kerala per il modo esemplare con cui sta combattendo la pandemia. Governato dal “Fronte di Sinistra” composto dal Partito Comunista d’India (marxista), dal Partito Comunista Indiano e da altri piccoli partiti socialisti, lo stato federale del Kerala ha adottato una politica completamente diversa rispetto al resto del paese, con il tasso di alfabetizzazione più alto dell’India (94%), lo sviluppo di servizi di sanità pubblica e l’incremento dell’accesso alle università mediche, mentre il governo di destra di Modi ha privatizzato l’assistenza sanitaria e la formazione medica.
Il governo centrale ha scaricato l’onere di affrontare la pandemia sui singoli stati federali, che hanno reagito in maniera diversa. Nel Kerala è stata adottata una politica per garantire a tutti l’accesso alle cure sanitarie. Oltre 30.000 medici e infermieri lavorano negli ospedali che fanno di questa regione la migliore di tutto il paese in rapporto alla popolazione, tanto da poter inviare personale medico nelle altre regioni e all’estero. Al miglior sistema sanitario del paese corrisponde anche una aspettativa di vita tra le più alte in India.
Con il diffondersi della pandemia, già da gennaio la priorità del governo del Kerala è stata quella di eseguire quanti più test possibili, mettendo in campo una organizzazione capillare e lo screening negli aeroporti. Sono stati predisposti kit di test rapidi e luoghi dedicati nelle strutture ospedaliere e nelle università per controllare i casi sospetti di contagio, approntando centri di quarantena per i casi sospetti e garantendo l’isolamento da altre persone. È stata inoltre avviata una campagna di informazione combinata con la campagna di produzione e distribuzione di mascherine e disinfettanti. Le persone individuate per aver avuto contatti con portatori di virus vengono accompagnate in strutture ad alto livello d’isolamento. Inoltre, è stata immediatamente attuata una serie di misure di assistenza sociale, ad esempio per i bisognosi, per gli scolari e per chi non può uscire, con una rete di cucine che offre pasti caldi gratuiti. È stata creata una assistenza telefonica per alleviare la paura delle persone e infondere fiducia. Ai pensionati sono state pagate in anticipo due mensilità delle pensioni. È stata costruita anche una rete di rifugi per i lavoratori stagionali che migrano dalle campagne alle città, ritrovatisi senza un tetto dopo lo scoppio dell’epidemia.
Le autorità del Kerala sono riuscite a fermare lo sviluppo iniziale dell’epidemia. Il 13 aprile, il numero di pazienti guariti ha superato per la prima volta il numero di malati. Il 15 aprile è stato registrato solo un nuovo caso. È in corso una campagna di test di massa. Circa 15.000 sono stati effettuati solo nella prima settimana di aprile. Le autorità di altri stati hanno iniziato a rivolgersi al Kerala per chiedere aiuto, oltre ad applicare alcuni elementi del suo programma di controllo del virus. Questo, secondo le autorità locali, ha determinato un calo dei nuovi casi e alcune regioni sono state completamente protette dall’epidemia.
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Le immagini e notizie che giungono dall’India sono tra le più drammatiche e al contempo simboliche della barbarie del capitalismo, che con la pandemia del Covid-19 si sta manifestando in queste settimane nel modo più crudo e duro. Sempre dall’India, negli ultimi anni ci sono giunte anche le immagini di straordinarie mobilitazioni operaie e popolari, come scioperi generali di dimensioni storiche e marce contadine, che testimoniano un forte fermento del proletariato e delle masse popolari indiane e un’intensificazione della lotta di classe in uno degli Stati più popolati al mondo; il diverso indirizzo delle politiche adottate dal governo comunista del Kerala per alleviare la sofferenza della popolazione, benché non configuri certamente un sistema socialista, essendo circoscritto nel recinto di uno stato federale di un paese capitalistico, ci mostra tutte le potenzialità di un approccio diverso da quello capitalistico e la necessità di farla finita per sempre con un modo di produzione che ha al suo centro il profitto di pochi contro il bisogno di molti.
Fonte su Kerala https://www.technologyreview.com/2020/04/13/999313/kerala-fight-covid-19-india-coronavirus/