Fase 2: nessuna luce in fondo al tunnel
Inizia il 4 maggio, la fase 2 della gestione dell’emergenza, ovvero la parziale riapertura, che comprenderà non solo un generale allentarsi delle norme di distanza sociale ed assembramento, dell’autocertificazione e dei controlli delle forze dell’ordine, ma anche i settori dell’economia rimasti fermi. Tra le attività coinvolte, vi saranno i cantieri edili, ma anche le imprese metallurgiche, del tessile, dell’auto e i mobilifici[1]. E se Vittorio Colao, leader della “Task Force” del governo Conte destinata alla gestione della fase 2, esclude la riapertura dei negozi, il premier annuncia il ripristino delle “attività commerciali più funzionali alle filiere che vanno a ripartire”, lasciando aperti ampi spazi di ambiguità al riguardo.
Nonostante tutti i giornali annuncino l’evento con trombe e tromboni, la situazione attuale è ben lontana dalla famosa luce in fondo al tunnel.
Attualmente si prevede un crollo del pil dell’8%[2] nel 2020, 9,1% per il Fondo Monetario Internazionale[3]. Per fare un paragone, la crisi del 2008 portò a una diminuzione di “solo” il 3,1%. Ben dieci milioni di persone sono a rischio povertà assoluta, con in media meno di 900 euro in banca.
La narrazione dominante è quella di un paese solidale, in cui tutti siamo sulla stessa barca, romanticamente riportati ad una originale parità, tutti eguali, indipendentemente da reddito, origini o lavoro. Articoli su articoli ci parlano di come vincere la noia, di cosa fare durante la quarantena, di come sia una grande occasione per recuperare il “tempo” che ci era prima sottratto (da noi stessi ovviamente). Una visione falsata e idilliaca, ben lontana dalla realtà della maggioranza del paese, che fatica a sopravvivere[4].
Per le classi popolari, per i lavoratori, il virus ha accelerato e reso evidenti quelle devastanti differenze sociali che non hanno fatto altro che allargarsi dalla crisi del 2008. La quarantena non è uguale per tutti, restare chiusi in 50 metri quadri è diverso dall’esserlo in una villa, guardare il mondo dalla finestra è diverso dall’avere un terrazzo o un giardino. Non avere figli a cui badare è diverso dall’averli, e anche così ogni caso è a sé: vuoi per le diverse situazioni lavorative dei genitori, vuoi per l’organizzazione dell’insegnamento telematico nelle singole scuole, diversa da nord a sud, dal liceo classico all’istituto tecnico, da una scuola elementare del centro, a una della provincia. Lavorare da casa e gestire i figli contemporaneamente può rivelarsi un peso enorme. Anche l’avere a disposizione una perfetta connessione internet fa la differenza, sia nel lavoro che nel mantenimento della socialità a tutti i livelli, e non tutti ne dispongono ugualmente.
Per gli anziani poi, l’anello debole di questa emergenza, le differenze di reddito e assistenza ricevuti possono divenire spartiacque tra la vita e la morte: vivere insieme ai parenti, o soggiornare in una casa di riposo economica, dove la malattia può rapidamente diffondersi?
Ma è il mondo del lavoro che rimane al centro dello scontro: esser costretti a lavorare in un ambiente affollato è diverso dal poterlo fare al computer, o dall’aver avuto accesso alla cassa integrazione. La situazione in molte fabbriche ne è esemplificativa: i manager al sicuro, in contatto telematico, e gli operai stipati, in alcuni casi senza nemmeno le mascherine, costretti a lavorare anche in attività assolutamente non necessarie (un esempio tra i tanti il caso di Gucci, che ha appena riaperto i battenti[5]). La ferocia con cui Confindustria ha cercato in ogni modo d’impedire la chiusura delle fabbriche dimostra che nonostante le trasformazioni economico sociali degli ultimi quarant’anni, i luoghi di lavoro rimangono ancora il perno del sistema produttivo, e quindi il centro inevitabile del conflitto di classe.
Ben il 42% delle imprese sono rimaste aperte o sono state riaperte già nel pieno della fase 1. Queste sono anche il centro della diffusione del virus insieme agli ospedali, ed ecco quindi spiegata l’insistenza con cui i media si appellano a operai, cassieri e infermieri, ai lavoratori coinvolti tutti quali “eroi”, per mascherare con la retorica della solidarietà nazionale l’enorme rischio a cui sono costretti dal ricatto del lavoro salariato.
Completamente isolati infine tutti coloro che avevano lavori precari, saltuari, in nero o disoccupati, una cifra che oscilla tra i sei e i sette milioni. Per molti di loro sarà impossibile persino rivolgersi alla cassa integrazione.
Non stupisce dunque, che adesso il capitale italiano chieda ulteriori salassi alla classe lavoratrice in nome della retorica della ripartenza, a dispetto della situazione sanitaria, ancora critica. Per l’epidemiologo Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto superiore di Sanità, nel corso di un’intervista rilasciata all’agenzia Dire, “Rischio accettabile per noi è zero, per economisti è dieci, alla politica il compito di fare sintesi”[6].
Ma in quale direzione la politica fa questa sintesi? L’enorme diffondersi del virus è stata resa possibile da un sistema sanitario mutilato e privatizzato nel corso degli ultimi trent’anni, dalla chiusura parziale e più e più volte ritardata dei luoghi di lavoro da parte di Confindustria. La classe politica, in questo sistema, è legata a doppio filo agli interessi delle classi dominanti. Lo dimostra ad esempio la scelta non casuale del premier di porre come leader per la task force del precedentemente citato Vittorio Colao, un ex amministratore delegato (in questo caso di Vodafone). Diviene evidente che il problema era ed è il sistema capitalista e la logica del profitto, l’aver messo quest’ultimo al primo posto a scapito della vita umana. Da questo punto di vista vi è scarsa differenza tra il prima e dopo emergenza covid-19.
Infatti, se prima si accettavano le morti sul lavoro come inevitabile prezzo del sistema, adesso si accettano allo stesso modo i contagi. Mantenere i profitti a qualunque costo, e ove questo si riveli impossibile, costringere lo stato a coprire le perdite, scaricando il peso dei prestiti su futuri tagli alla spesa pubblica.
Insomma, l’austerity, la competitività, la solita narrazione dell’imprenditore quale centro della vita economica e miracoloso creatore del lavoro, da aiutare in ogni modo e da mettere sempre al centro delle notizie.
La crisi del covid-19 non è quindi il “semplice” risultato di una situazione di emergenza, ma al contrario, il prodotto inevitabile del sistema e delle logiche che l’hanno preceduta, in assoluta continuità. Non siamo tutti sulla stessa barca, i lavoratori hanno dimostrato ancora una volta la loro assoluta centralità nel sistema, eppure proprio loro pagano la quasi totalità del prezzo di questa crisi, esclusi dalle tutele riservate invece al mondo finanziario e imprenditoriale. Se, e in che misura deve esserci una ripartenza non può essere in alcun modo deciso sulla base degli interessi dei padroni.
[1] https://www.lastampa.it/cronaca/2020/04/23/news/dal-4-maggio-ripartono-cantieri-edili-e-fabbriche-al-lavoro-quasi-3-milioni-di-italiani-1.38752002
[2] https://www.repubblica.it/economia/2020/04/23/news/def_coronavirus_deficit-254785874/?ref=RHPPTP-BH-I254789156-C12-P2-S1.12-T1
[3] https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2020/04/14/weo-april-2020
[4] https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/04/22/news/casa_cibo_medicine_e_bollette_dieci_milioni_rischiano_di_non_farcela_la_caritas_da_noi_tanti_nuovi_poveri-254746309/
[5] https://www.affaritaliani.it/cronache/coronavirus-burioni-dopo-fca-fa-riaprire-anche-gucci-tutorial-per-i-dipendenti-667517.html
[6] https://www.repubblica.it/cronaca/2020/04/21/news/coronavirus_rezza_per_noi_rischio_accettabile_e_zero_per_economisti_e_10_la_politica_faccia_una_sintesi_-254598604/