L’INCONSISTENZA DEL CONSIGLIO EUROPEO DI FRONTE A UNA CONGIUNTURA SENZA PRECEDENTI
Come alla fine della Prima guerra mondiale. Secondo la bozza del Def, il documento di finanza pubblica del Ministero dell’economia, si prevede che nel 2020 il debito pubblico italiano arriverà al 155,7% sul Pil. Si tratta di un vero e proprio record nella storia dell’Italia unita. Dal 1861 ad oggi solo dopo la Prima guerra mondiale il debito pubblico raggiunse questi livelli, rispettivamente nel 1920 con il 159,5% e nel 1921 con il 158,9%. Ma era un periodo eccezionale. Il debito era rigonfiato dalle spese e dai costi enormi di quattro anni di guerra totale, e il Paese era alle prese con una difficoltosa riconversione industriale. La disoccupazione postbellica era in crescita e l’Italia era stremata e percorsa da un importante movimento rivoluzionario, il biennio rosso. Neanche nella Seconda guerra mondiale si arrivò a tanto: il debito pubblico nel 1943 arrivò al massimo del 119% sul Pil. Nel 2020, quindi, il debito raggiungerà in cifra i 2.600 miliardi di euro, con un aumento di 190 miliardi rispetto allo scorso anno. Ma il debito pubblico non è l’unico record evidenziato dal Def. Il conto della manovra, cioè la spesa prevista dallo Stato, è il più grande della storia repubblicana, essendo pari a 160 miliardi. Anche il deficit di 55 miliardi non ha precedenti. La famigerata manovra di Amato del 1992, che rese molto caro il costo dell’adesione a Maastricht e al percorso di entrata nell’area euro, si fermò a 45 miliardi. In percentuale il deficit si prevede che raggiungerà il 10,4%, esattamente quello del 1992. Il Pil, invece, crollerà del -8%. In questo caso si tratta di un dato del tutto inedito per la storia repubblicana e, in parte, anche per quella unitaria.
Neanche nella crisi del ’29 si registrò un dato simile. Solo tra il 1943 e il 1945, con l’Italia distrutta e occupata da due eserciti stranieri, si fece peggio, con un Pil che nel 1944 raggiunse il -19%, con un rimbalzo nel 1946 del +34%. Questa volta il rimbalzo post crisi del 2021 si prevede modesto, appena il +4,7%, quindi non in grado di recuperare quanto perso nel 2020.
La maximanovra sarà in parte determinata dalla ricapitalizzazione di Cassa depositi e prestiti, che nell’ultimo impianto del provvedimento sale a 50 miliardi, e dai 30 miliardi necessari a garantire il decreto liquidità. Il deficit sarà alimentato dalla Cassa integrazione (13 miliardi), affiancata dall’indennità, salita a 800 euro a testa, da concedere a lavoratori autonomi e professionisti, per un totale di 7 miliardi, e dal rafforzamento della Naspi (1,3 miliardi). Rimane molto poco per il reddito di emergenza voluto dal M5s e per il “pacchetto famiglia”, spinto da Italia viva. L’aiuto alle imprese prevede un intervento creditizio sia privato che pubblico. Le banche dovrebbero, secondo le intenzioni, erogare credito alle imprese per 400 miliardi, grazie ai 55 miliardi stanziati dallo Stato a copertura di garanzie pubbliche. Questo rappresenta la fonte di un possibile ulteriore problema, perché la ripartenza economica sarà lenta e non poche aziende potrebbero non farcela nonostante i crediti. In questo modo si creerebbe di nuovo un problema di Npl, cioè di crediti inesigibili, e quindi di sofferenze per le banche. Pensiamo che solo con grande sforzo le banche sono riuscite a ridurre a soli 80 miliardi gli Npl scaturiti dell’ultima crisi. Il problema, quindi, è che i prestiti, anche se potessero limitare la crisi oggi, si traducano in un debito pubblico e privato difficile da gestire domani.
Per sostenere le spese della crisi lo Stato dovrà emettere in asta 500 miliardi di titoli pubblici, di cui la metà verrà assorbito dalla Bce, ma il resto dovrà trovare collocamento sul mercato.
Il problema centrale è proprio questo: l’intervento europeo non si basa su erogazioni a fondo perduto ma su prestiti che dovranno essere restituiti. La Bce non può monetizzare il debito, cioè non può semplicemente “stampare” denaro per finanziare i governi, come fanno le banche centrali degli Usa, dell’Inghilterra e del Giappone.
Ciò è espressamente vietato dai Trattati europei. Prima o poi lo Stato italiano dovrà rimborsare i 380 miliardi di titoli di Stato detenuti dalla Bce. Lo stesso problema risiede negli strumenti di contrasto alla crisi che sono stati discussi nell’ultimo Consiglio europeo, la riunione dei capi di governo della Ue. Il Consiglio europeo ha approvato alcune delle misure discusse alcuni giorni fa all’Eurogruppo, la riunione dei ministri economici. In primo luogo è stato approvato il Mes, il meccanismo europeo di stabilità, che inizialmente era stato rifiutato da Italia e Spagna. Poi il Sure, uno strumento che dovrebbe finanziare la cassa integrazione europea, e infine l’utilizzo della Banca europea degli investimenti per aiutare le imprese. Ma l’argomento più importante su cui si doveva discutere era il Fondo per il rilancio economico. La proposta della Spagna era che il Fondo distribuisse non prestiti ma sussidi. Quella francese proponeva un fondo finanziato con emissioni comuni e garanzie congiunte degli stati membri. La cosa più importante era che il fondo avrebbe previsto non l’erogazione di prestiti ma di sovvenzioni. Tuttavia, il denaro sarebbe stato rimborsato, secondo criteri da definire. Riguardo al Fondo per il rilancio economico, al termine della riunione del Consiglio europeo, è stata la presidente della Commissione europea, Ursula von Der Leyen, a tracciarne per sommi capi le linee. Sarà la Commissione europea a prendere denaro a prestito sui mercati finanziari, usando come garanzia il proprio bilancio, che dovrà essere aumentato. In realtà i dettagli su come funzionerà il Fondo non sono ancora ben definiti. Sembra, però, prevalere la funzione del Fondo di prestatore piuttosto che di sovvenzionatore delle economie in difficoltà. Ad ogni modo, si è ancora molto lontani dalla costituzione di un debito comune, come Italia, Spagna e Francia avevano caldeggiato. Anche ammesso che esista la volontà di realizzare un debito comune, e non è così, perché il fronte dei contrari va molto oltre l’Olanda, per farlo bisognerebbe modificare i Trattati europei e ottenere l’assenso dei Parlamenti nazionali a spostare voci di bilancio e responsabilità dal livello nazionale all’Europa. Decisioni che ad esempio il Parlamento tedesco è assai improbabile che prenda. È evidente, dunque, che un Fondo che metta in comune il debito e eroghi sussidi non è attuabile.
Sostanzialmente, con questo Consiglio europeo, non è cambiato molto, rispetto all’ultima riunione dell’Eurogruppo. A parte il fatto che le posizioni di Francia, e soprattutto di Italia e Spagna sono state sconfitte.
Lo scontro tra Stati e capitali, comunque, proseguirà sulla definizione delle condizioni di attuazione dei prestiti del Fondo e degli altri strumenti europei.
La Germania punta su un aumento del tetto di spesa del budget comunitario gestito dalla Commissione e su un piano della durata di appena due anni. Le sbarre che chiudono la gabbia europea, rappresentate dai Trattati sono troppo robuste per essere spezzate. Ma il problema vero è politico. Esiste la chiara volontà politica da parte della Germania e dei suoi satelliti (Olanda, Austria, Finlandia) di non cedere alle richieste degli altri Paesi. Alla base di tutto ci sono interessi contrapposti, tra Stati e frazioni nazionali di capitale, e tra interessi contrapposti vince il più forte.
Quello che appare evidente è che gli aiuti – in qualunque forma verranno erogati – saranno prestiti che dovranno prima o poi essere restituiti. Ad avvantaggiarsi sarà soprattutto il grande capitale finanziario, cioè i mercati finanziari presso cui il Fondo di ricostruzione reperirà il denaro e soprattutto presso cui andrà collocata la massa dei titoli che gli Stati emetteranno per finanziarsi.
Con i tassi di interesse sul denaro portati ai minimi termini dalle banche centrali di tutto il mondo non mancherà certo la liquidità. Ma saranno anche le grandi imprese multinazionali a beneficiare della situazione, acquisendo imprese più piccole e in difficoltà a prezzi di saldo. Del resto Confindustria si è prodigata per spingere all’accettazione del Mef “a condizioni ridotte” e a non spaccare il fronte europeo. A pagare saranno i lavoratori dei Paesi europei che “beneficeranno” dei prestiti.
Secondo la bozza del Def, passata la pandemia, l’Italia impiegherà un decennio per riavvicinare il proprio debito alla media europea a colpi “di congrui surplus di bilancio primario”, il che, tradotto, vuol dire che le entrate dovranno eccedere, e di parecchio, le spese.
Di conseguenza, a meno che non si vogliano aumentare le tasse, a pagare lo scotto saranno le spese sociali, il welfare. Si tratta di un film già visto, con l’ultima crisi dei debiti sovrani nel 2011, con la differenza che questa volta le condizioni dell’economia sono molto più difficili e i sacrifici da imporre più duri. Quello che è alquanto probabile è che nel prossimo futuro aumenterà la conflittualità sia tra Stati sia tra classi all’interno dei singoli Stati, rendendo ancora di più la questione dell’uscita dalla Ue e dall’euro un tema politico centrale da sciogliere all’interno di una strategia di ripresa dell’antagonismo politico al capitalismo in Italia e in Europa.