Ma a voi veramente è piaciuto Il buco?
ATTENZIONE: SPOILER
La visione di Il buco mi ha lasciato sentimenti contrastanti. Da una parte la voglia di spegnere la tv, rescindere l’abbonamento a Netflix e giurare a me stesso di non concedere mai più fiducia ai film spagnoli finto impegnati; dall’altra l’esigenza di cercare su internet un qualche tipo di spiegazione plausibile a ciò che avevo appena visto. Il film ti lascia la frustrazione dell’incompiuto, ma anche il desiderio forte di risposta ai mille interrogativi suscitati.
Esatto! Sto tentando di dare una connotazione positiva al fatto che questo film sembra fondamentalmente monco. Una grande allegoria in cui ci si è preoccupati di più ad inserire simbolismi celati che a sviluppare una trama coerente.
Nel dispiegarsi della vicenda è una pellicola non isolata nel suo genere. Appartiene a quel genere di film, da vorrei ma non riesco, che parte con un’intuizione abbastanza geniale (in questo caso la prigione distopica in cui si svolge tutta la vicenda dei nostri personaggi, che è un’ambientazione estremamente suggestiva) per poi perdersi in un finale scialbo, retorico e non realmente costruito. Della serie: abbiamo avuto una grande idea, ma non sappiamo bene che farci.
Non fraintendetemi! Il buco non è un brutto film. Costruisce, dall’inizio alla fine, un’ottima tensione e ritmicità in un contesto difficile, statico, ripetitivo, incentrato esclusivamente sulle interazioni tra i personaggi, riuscendo a renderle mai scontate e sempre ben scritte. Da questo punto di vista la sceneggiatura fa un ottimo lavoro, trasmette la sensazione di trovarsi di fronte ad un prodotto di altissimo livello e forse è proprio per questo che fa così arrabbiare.
Il Buco alza la pallina per un’ora e mezza in maniera magistrale, ma non schiaccia mai.
E allora mi direte: “Non è importante la storia. Il valore sta nella metafora, nell’aspra critica al capitalismo, alle diseguaglianze sociali”. Ma dove? Tutto questo nel film non c’è o, al massimo, è rappresentato in maniera estremamente banale e già abusata.
Nel film più che una denuncia c’è una fotografia di un’umanità irrimediabilmente persa, condizionata da un ambiente ostile che la spinge alla lotta fratricida per la sopravvivenza individuale.
Una condizione di miseria dalla quale non è possibile liberarsi. Nel film ogni possibilità di ascesa liberatrice è preclusa tanto che nel tentativo di sovvertire quell’ordine ingiusto, Goreng, il protagonista, si ritrova a sprofondare nei bassifondi di quella società finendo per perdersi nell’oblio. Neanche l’opera riformatrice è possibile agli occhi del regista che porta al suicidio, dopo il primo mese di prigionia, il personaggio che rappresenta questa aspirazione: Imoguiri (la funzionaria dell’amministrazione che sceglie consapevolmente di chiudersi nella prigione). La quale non punta alla distruzione della prigione ma al tentativo di armonizzare il comportamento dei prigionieri per far funzionare quel sistema. La lettura che ne scaturisce è quella di una realtà cinica e immutabile in cui gli sforzi dell’umanità, in qualunque direzione vadano, sono vani.
Ma il film riesce perfino nell’intento di contraddirsi da solo.
Per spiegarvi questa mia convinzione dobbiamo parlare del finale, quello criptico e interpretativo. Leggendo un po’ qua, un po’ là e mettendoci del mio, con la possibilità di prendere qualche cantonata, l’ho interpretato così: la bambina che sul finale risale fino al piano zero è una figura completamente allegorica e rappresenta la speranza. Per questo motivo lei diventa il “messaggio” che il protagonista deve inviare all’amministrazione.
Ma qui si sgonfia perfino tutta la prospettiva che si è cercato di trasmettere in ogni frame precedente. Il regista ci lascia con una visione di speranza completamente astratta, impalpabile.
Tutti i protagonisti reali sono dovuti soccombere nel tentativo di migliorare la realtà e quel messaggio di speranza immateriale è un’immagine sciapa che contraddice sé stessa. Qui muore ogni pretesa di denuncia della pellicola, nell’inviare all’amministrazione (responsabile dell’edificazione di quella condizione di ingiustizia) un inconsistente messaggio di speranza.
Però, voglio chiudere questo articolo con un elogio alla pellicola. Frutto di un’interpretazione vera? Plausibile? Sbagliata? Non mi interessa, tanto vale tutto. Credo che nel film ci sia una scena riuscitissima che trasmettere visivamente un messaggio fortissimo. Una di quelle scene che riescono a spiegarti un concetto che è più facile “sentire” che esprimere a parole.
Si tratta della scena, apparentemente avulsa dal resto del film, dell’inquisizione ai cuochi per capire chi sia il colpevole di aver fatto cadere un proprio capello nella panna cotta.
Realisticamente il significato di questo passaggio è similare a quello della possibilità di scelta del proprio piatto preferito, che poi verrà ripresentato ogni giorno tra le pietanze nel buco: ovvero, la distorsione di valori che in contesti differenti diamo ad una stessa realtà. Nel contesto della prigione a modificarsi non è semplicemente la scala di valore che diamo alle cose ma la validità stessa di determinati concetti, quali la sporcizia del cibo o la preferenza di gusto. Entrambi questi concetti non perdono semplicemente di priorità ma esauriscono completamente il proprio significato. È questo messaggio che ho apprezzato moltissimo!
Faccio un passo in più. La distanza esistente tra i due mondi è una raffigurazione che voglio sviluppare conferendogli un significato ulteriore, partendo dal presupposto che tutta l’ultima parte del film sia onirica e non realmente accaduta.
Nel corso della loro discesa, infatti, il protagonista e il suo aiutante si ritrovano sempre più spesso di fronte ad incongruenze e situazioni inverosimili. Questo può essere letto con il fatto che i due personaggi siano effettivamente morti per le ferite ricevuto e il film abbia traslato da una narrazione allegorica ad una completamente fatta di simboli. In questa chiave di lettura, essendo la bambina solo simbolo e non più allegoria, al piano zero tornerebbe effettivamente la panna cotta e la scena sopra richiamata rappresenterebbe proprio quel momento.
Alla luce di questa ipotesi la scena diventa superlativa. Il film riacquista la sua coerenza e il suo essere cinico con un’immagine geniale, fortissima. Tutti gli sforzi della seconda metà della pellicola, le visioni, la ricerca del “messaggio” e anche la speranza, ultima pia illusione, si scontrano irrimediabilmente con la completa incomunicabilità dei due mondi, con la differenza ontologica tra il piano zero e tutti gli altri che rende impossibile qualsiasi contatto. Tutto il valore del simbolo presso l’amministrazione viene inteso con l’unica chiave interpretativa a cui al piano zero si può accedere: la propria realtà.
Per l’amministrazione la panna cotta è stata rimandata indietro perché i prigionieri vi hanno trovato dentro un capello.