Emergenza casa: serve un ribaltamento del paradigma, non elemosine omeopatiche
“Oggi quasi tutti gli uomini trovano un luogo coperto dove mangiare e dormire, ma non hanno più la casa. Il regime capitalistico l’ha distrutta”. È asciutta e agra come un epitaffio, l’introduzione all’editoriale La Casa, presente in prima pagina nel sesto numero de L’Ordine Nuovo di Gramsci, Tasca e del gruppo socialista torinese[1].
Centouno anni dopo (il numero è quello del 14 giugno 1919), sulle macerie domestiche ancora fumanti, viene edificata tutta la fraseologia retorica dell’Emergenza Covid-19. L’#iorestoacasa diventa il mantra nazionale che per mesi vuole – deve – mettere a braccetto l’imprenditore e l’operaio, il professore e lo studente, il disoccupato e la star televisiva, di fronte alla “sfida comune” lanciata dal nemico invisibile. E come ogni imperativo emergenziale che si rispetti, quella formula non consente critiche, riflessioni, approfondimenti o, quanto meno, quesiti.
Chi resta a casa? Vorrebbe chiedere l’operaio veneto, costretto in produzione nei giorni più aspri dell’emergenza sanitaria. Chi paga l’affitto di casa? Domanda lo studente universitario, che senza il lavoretto in nero non riesce a saldare la mensilità. I genitori non possono aiutarlo, anche perché vivono un interrogativo simile, ma riferito alla rata del mutuo. E poi, se è vero che per numerose categorie l’affitto erode ogni mese circa il 40% del reddito, in tanti si chiedono: che succede se il reddito diventa di colpo zero?
Interrogativi che fanno sbuffare di noia il “gestore dell’emergenza” e la “centrale unica” del buon senso borghese. Figurarsi se il tenore delle domande assumesse improvvisamente una china più profonda e radicale (“velleitaria”, in tempi di unità nazionale). Magari sulla natura complessiva del concetto di “Casa”.
Una riflessione svolta a voce bassa che, durante il lockdown, ha accomunato ampi settori sociali, dal piccolo e medio borghese, al proletario urbano: queste quattro mura in cui sono costretto, sono un “luogo coperto dove mangiare e dormire” o sono “Casa”?
Proviamo a fare una riflessione sul tema, facendo qualche passo indietro e lavorando con il testo a fronte dell’editoriale citato in apertura.
Le scienze sociali e le indagini compiute in questi anni, ma anche in queste settimane, ci hanno restituito – non senza meriti – uno scenario del tema abitativo legato a doppio nodo ad un approccio emergenziale. Chi si è occupato della “questione casa”, tanto dal fronte istituzionale, quanto sul terreno delle lotte, non di rado ha fatto propria quella postura, intrecciando il proprio campo d’azione ad una delle tante emergenze esplose nei decenni scorsi. Dall’ormai lontana (?) “emergenza baracche” degli anni di spopolamento delle campagne in favore dei grandi poli urbani, alla più attuale “emergenza affitti”, “emergenza mutui” e, dunque, “emergenza sfratti”. Focus di lavoro, di ricerca e spesso anche di lotta, cui sono state aggregate preziose e interessanti – per quanto contingenti – analisi su fenomeni pervasivi (più o meno transitori) in grado di determinare una sempre rinnovata geografia emergenziale. “L’emergenza affitti”, prima che il coronavirus sparigliasse nuovamente le carte dell’economia capitalistica, si è dovuta confrontare ad esempio nell’ultimo decennio con la cosiddetta “Emergenza Airbnb”.
Intere città riconvertite in parchi tematici ad esclusivo appannaggio turistico e la conseguente progressiva sostituzione del mercato degli “affitti lunghi” con i più redditizi (e a minor rischio insolvenza, vista la concomitante fragilità economica frutto della crisi del 2008) “affitti brevi”.
Un ciclone in grado di generare una spaventosa bolla speculativa che ha spazzato sempre più in periferia l’inquilino “non occasionale”, trasformando e sfigurando il tessuto urbano già lacero delle nostre città. Oggi che, con il Covid-19, ci apprestiamo ad entrare in una fase nuova del mercato turistico internazionale, quell’emergenza appartiene già al nostro ieri. Ma se il bed and breakfast può essere velocemente riadattato ad abitazione semi-permanente per l’inquilino di lungo periodo, le tante “emergenze casa” restano tutte sul tavolo ed anzi assumono sembianze sempre nuove e sempre più devastanti nelle loro ricadute sociali.
Al di là dello sconcio teatrino sullo stanziamento di risorse (in dosi e modalità di somministrazione da far impallidire l’omeopatia) per tamponare questa o quella emergenza deflagrata nelle settimane del lockdown; tralasciando la retorica de “la maggioranza degli italiani sono proprietari di casa”, come se alla proprietà sia preclusa la coesistenza con la povertà[2], il velo che andrebbe tolto dal dibattito su questa materia – soprattutto a fronte di ciò che ci aspetta nel futuro di medio e breve termine – è appunto quello che ci impedisce di certificare lo stato di morte della Casa. Una linea piatta, tutta in seno al capitalismo, che dovremmo assumere come dato irreversibile, onde evitare la corsa all’aspirina con il defunto ormai sepolto.
Chi ha ucciso la Casa?
Il sistema di produzione capitalistico “ha trasformato l’operaio in una tavola randagia sbattuta dalle onde secondo le mutabili sorti del mercato della mano d’opera”, è l’affresco confezionato in quel sesto numero de L’Ordine Nuovo. Un lavoratore che, ieri come oggi aggiungiamo noi, è relegato al ruolo di “appendice della macchina”, venendo così privato dei “legami stabili che lo fissino in un luogo e gli permettano di crearsi la Casa dove la sua personalità possa esplicarsi, i suoi bisogni soddisfarsi in spontanea e libera intimità”.
Non nelle “emergenze” contingenti è maturato dunque quel collasso, ma nell’officina capitalistica. Affinché la Casa esista, leggiamo ancora, “bisogna che chi lavora abbia una certa sicurezza di stabilità; un margine economico che permetta una vita domestica che non si riduca al pasto affrettato e svogliato attorno a un tavolo, poco dissimile da quello che ci darebbe la trattoria, che diventa, ahimè, persino un ideale”.
È in quest’ottica che si palesa tutta la necessità di reintegrare, di riassorbire, il “problema casa” – per nulla avulso da tutte le altre problematiche sociali – in un più ampio disegno di organizzazione della società. “Allo stesso modo che il problema del lavoro non è risolvibile colla più democratica legislazione riformatrice dei salari, degli orari, delle garanzie d’ogni genere, ma solo con la rivoluzione dei rapporti tra mezzi di produzione e il regime della proprietà, così il problema della casa non è problema di regolamenti igienici, di calmieri sugli affitti e simili, ma problema proprio di una società, in cui la vita operaia, coi suoi bisogni, e colle sue iniziative impronti in modo assolutamente prevalente la struttura sociale”.
Non ‘bonus affitti’, non “Fondi di Morosità incolpevole” (la denominazione di questi dispositivi la dice lunga sul paradosso in cui viviamo) , ma un ribaltamento di paradigma. A partire, come già detto, dal reintegro del “tema casa” nel più ampio conflitto sulla proprietà dei mezzi di produzione.
E questo non perché, per dirla con Engels,[3] la questione delle abitazioni sia un problema peculiare del proletariato moderno. L’officina capitalistica distrugge, sì, la Casa, ma non solo quella dell’operaio. Al contrario, come vediamo anche nella fase odierna e come già affermato sopra, il “problema casa” accomuna una variegata pluralità di soggetti appartenenti a classi anche diverse.
Ma questo schiacciamento verso il basso delle condizioni di vita delle fasce più fragili delle nostre città è una delle condizioni strutturali dello sfruttamento capitalistico.
Risulta grottesca, in questo senso, anche la retorica del “ritorno ai piccoli borghi”, avanzata come una delle riposte possibili alla crisi dentro cui siamo stati per l’ennesima volta proiettati. Dopo aver spremuto ogni centimetro quadro di territorio in ragione di un urbanesimo selvaggio, frutto di un’anarchia capitalistica che ha divorato ambiente e vite umane (polverizzando, per altro, l’economia delle nostre campagne), oggi al lavoratore viene chiesto di preparare in fretta e furia la valigia di cartone con cui è arrivato in città e far rientro all’idillio del borghetto natio. È il “distanziamento sociale” che ce lo chiede.
La Casa è morta, dicevamo, e può essere ricostruita solo in un quadro radicalmente mutato del sistema produttivo. Uno schema nuovo – un ordine nuovo, vorremmo dire – centrato sul lavoratore e le sue legittime aspirazioni.
Per l’Oggi si rende urgente e necessario mettere da parte i bonus e le elemosine omeopatiche, che altro non sono se non dei sistemi di perequazione tra domanda ed offerta con effetti nulli, tanto nel breve quanto nel lungo periodo. La ricetta immediata non può che transitare sul terreno della rottura di alcuni tabù propri del sistema economico attuale. Tabù, in effetti, già prontamente accantonati (o fortemente ridimensionati) in questa fase dalle classi dominanti, nel disperato tentativo di far sopravvivere il boccheggiante capitalismo alla crisi in atto.
Se solo poche settimane or sono, formule quali “esproprio dei beni”, “prezzi calmierati” e “requisizioni arbitrarie” venivano presentate come la Kryptonite del sistema, oggi possiamo agilmente rintracciarle nei decreti presidenziali e nelle ordinanze dei commissari. Non dobbiamo, dunque, inventarci nulla di nuovo quando pensiamo ad un’utilizzazione razionale delle abitazioni già esistenti, anche e soprattutto attraverso un profondo piano d’esproprio della proprietà fondiaria. Nulla, insomma, che non sia già stato contemplato nelle settimane dell’emergenza Covid-19 con riferimento a molti settori considerati strategici nell’ottica della “salvaguardia nazionale”. Quell’esproprio, citato fino a ieri come un sogno figlio della residualità politica, oggi viene presentato – e dal padrone – come “una solida realtà”. Cogliamo quest’invito.
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[1] “L’Ordine Nuovo” Anno I n. 6, 14 giugno 1919
[2] Secondo l’Agenzia delle Entrate, come opportunamente segnalato da un accurato articolo di Sarah Gainsforth (https://www.valigiablu.it/coronavirus-problema-affitti/), oltre la metà dei proprietari di abitazioni in Italia (25 milioni di famiglie proprietarie) appartiene alle fasce di reddito imponibile medio-basse: 6 milioni di proprietari hanno un reddito fino a 10mila euro l’anno, 11 milioni hanno un reddito compreso tra 10mila e 26mila euro l’anno.
[3] F. Engels, La questione delle abitazioni.