Il sistema di produzione capitalistico e la crisi ecologica
Le origini dell’attuale crisi ecologica affondano le loro radici nei rapporti sociali capitalistici e per essere affrontati richiedono la radicalizzazione degli antagonismi di classe piuttosto che la loro ricomposizione. Vale a dire la radicalizzazione della critica al capitalismo. La Natura, così come la sfera della produzione, è un campo di battaglia, e lo sarà sempre di più mano a mano che la crisi tenderà ad approfondirsi.
SOCIALISM FOR FUTURE
In un articolo precedente[1] abbiamo iniziato ad indicare alcuni dei nessi esistenti tra il modo di produzione capitalistico e la crisi ecologica, in questa sede continuiamo a scavare un po’ più a fondo partendo da una delle questioni che nell’ultimo decennio ha assunto una drammatica centralità nel dibattito pubblico, ossia il riscaldamento globale, il cosiddetto global warming. Già dall’inizio di marzo hanno iniziato a circolare le immagini satellitari che mostravano gli effetti collaterali del coronavirus sull’emissione di alcuni gas serra[2], o più precisamente gli effetti dell’interruzione della produzione di merci causata dalla crisi epidemica sulla composizione atmosferica sopra le aree fortemente industrializzate.
Una sorta di paradosso sanitario ed ecologico che ha portato qualche giornalista a parlare addirittura del Sars-cov-2 come di un “virus verde”, che avrebbe avuto quantomeno il “merito” di indicare, e auspicabilmente accelerare, la strada verso la transizione energetica. Ma è realmente questo il tema centrale? Pensiamo davvero che la soluzione al problema possa essere esclusivamente di natura scientifica o ingegneristica? Oppure la domanda corretta che dovremmo iniziare a porci, in realtà, è quale tipo di società possiamo immaginare utilizzando le energie rinnovabili come sorgente principale di energia?
Queste non sono domande retoriche, dal momento che il movimento globale che in questi anni ha meritoriamente riempito di giovani e giovanissimi le piazze di mezzo mondo mantiene su tali questioni alcuni elementi di “ambiguità” che andrebbero invece affrontati. Si tratta però, e su questo vorremmo essere chiari fin dall’inizio, di quelle che potremmo definire “contraddizioni in seno al popolo” e che dovremmo provare a superare in avanti, collettivamente, senza invece prenderle a pretesto per sancire chissà quali distanze politiche incolmabili.
Ma procediamo con ordine. L’approccio dominante alla crisi ecologica, tanto nel pensiero verde mainstream quanto in quello più radicale, privilegia una prospettiva politica che potremmo definire “umanista”, fondata, in ultima istanza, su una visione interclassista e cosmopolita. Per motivi di spazio potremmo semplificare dicendo che secondo questo filone d’analisi l’umanità tutta, nel suo complesso, sarebbe finalmente chiamata a superare le proprie divisioni in nome di un vero e proprio “patto ecologico”. E questo perché, per la prima volta nella sua storia, il cambiamento climatico avrebbe posto il genere umano di fronte alla necessità di farsi soggetto della storia. Non più le classi in lotta fra loro, dunque, ma un’umanità chiamata per necessità e opportunità a “pensare e ad agire da specie”. Per dirla con le parole di Dipesh Chakrabarty, uno dei principali teorici del postcolonialismo, “la crisi attuale ha rivelato alcune condizioni di esistenza delle forme di vita umana che non hanno un legame intrinseco con le logiche delle identità capitaliste, nazionaliste o socialiste”.[3]
Ebbene, la tesi che sosteniamo muove in direzione diametralmente opposta. Come proveremo ad articolare ragionando sul concetto di Antropocene, riteniamo che le origini dell’attuale crisi ecologica affondino le loro radici nei rapporti sociali capitalistici e che per essere affrontata questo richieda la radicalizzazione degli antagonismi di classe piuttosto che la loro ricomposizione. Vale a dire la radicalizzazione della critica al capitalismo. La Natura, così come la sfera della produzione, è un campo di battaglia[4], e lo sarà sempre di più mano a mano che la crisi tenderà ad approfondirsi.
Grazie anche alla sua potenza evocativa l’Antropocene è diventato nel giro di poco più di un decennio forse il più importante concetto ambientalista del nostro tempo, nonché, probabilmente, anche il più ambiguo e, per certi aspetti, “pericoloso”.
Questo neologismo venne adoperato per la prima volta negli anni Ottanta dal microbiologo Eugene Stoermer, per poi essere ripreso a cavallo degli anni Duemila dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, e indica l’attuale era geologica, quella in cui sarebbero da attribuire al genere umano le cause principali delle trasformazioni territoriali, strutturali e climatiche che interessano il pianeta. La sua “pericolosità” risiede però proprio nel fatto che, mentre mostra con chiarezza un passaggio geologico, esso al contempo ne mistifica anche la storia, cominciando dalla scelta su come andrebbe periodizzata l’alba di questa nuova era.
Alcuni archeologi hanno proposto di convertire parte o tutto l’Olocene in Antropocene. Altri collocano il suo principio a partire da circa 2000 anni fa. Altri ancora, invece, hanno provato ad indicare il suo inizio nella metà del secolo scorso. Come si vede si tratta di un confine estremamente mobile e incerto, perfino labile, eppure con conseguenze di non poco conto, perché, come sanno bene gli storici, la maniera di periodizzare la storia dà poi inevitabilmente forma all’interpretazione degli eventi. E l’interpretazione ormai dominante propone una periodizzazione ben precisa, individuando, secondo il cosiddetto “modello dei due secoli”, le origini del mondo moderno nella rivoluzione industriale avvenuta in Inghilterra all’inizio del XIX secolo. Questo approccio è sostenuto da due decisioni metodologiche che hanno anche importanti ricadute teoriche e politiche: il focus empirico viene limitato alle conseguenze dell’attività umana (la concentrazione di CO2 nell’atmosfera) mentre l’umanità tutta, nel suo complesso, viene descritta come “una forza geofisica” (una, singolare) che opera all’interno della natura. Prendendo a prestito le parole dello storico dell’ambiente Jason W. Moore: “quale sarebbe stata dunque la forza trainante di questo cambiamento globale? In due parole: carbone e vapore. E la forza trainante dietro al carbone al vapore? Non le classi, non il capitale, non l’imperialismo, ma l’umanità come tutta indifferenziata. L’Anthropos”[5].
È evidente, quindi, che periodizzando i cambiamenti solo sulla base degli effetti sensibili si corre il rischio di offuscare la nostra visione fin dal principio, perché in realtà l’era del Capitale precede e accelera i “segnali geologici” del cambiamento climatico. In altre parole individuare le origini del mondo moderno nella macchina a vapore e nelle miniere di carbone significa dare priorità esclusivamente alla loro dismissione.
Mentre collocare le origini del mondo moderno nell’ascesa della società capitalista significa dare priorità ai rapporti sociali e al loro superamento. Le origini della crisi ecologica moderna non possono quindi essere circoscritte solo all’Inghilterra del lungo XIX secolo e non possono nemmeno essere addebitate ad un’umanità ritenuta astrattamente omogenea e unitaria. Riteniamo che risieda proprio in questo il carattere fondamentalmente borghese dell’Antropocene, perché nei fatti rappresenta una chiave d’interpretazione estremamente semplificatoria che non mette in discussione le diseguaglianze, l’alienazione e la violenza inscritte nei rapporti sociali ma, anzi, cancella la specificità storica del capitalismo e del suo rapporto con la natura. La conseguenza pratico-politica più immediata di questo approccio è l’illusione che in fin dei conti “un altro capitalismo” non solo sia possibile, ma che sia perfino auspicabile. Senza la necessaria chiarezza in tal senso, lo slogan “System change, not climate change”, che pure nel corso delle mobilitazioni internazionali ha campeggiato sui cartelli di mezzo mondo, rischia così di trasformarsi nella richiesta di una transizione ad una green economy, magari alimentata a energia eolica o solare, ma fondata comunque sullo sfruttamento.
Ovviamente non vogliamo qui mettere in discussione il fatto che la rivoluzione industriale sia stato “un” punto di svolta, ma piuttosto contestarne una visione stilizzata che invece ne fa “il” punto di svolta da cui far originare tutta la modernità, riducendo di fatto la storia ecologica mondiale alla storia dell’industrializzazione e del suo impatto sulla natura.
Nelle meta-narrazioni del pensiero verde essa appare quasi come un deus ex machina, entrato sul palcoscenico storico-mondiale grazie al carbone e alla macchina a vapore. Ma le civiltà non si formano attraverso dei big bang e, pure se la storia procede per salti e rotture, essa è comunque inscritta dialetticamente nelle possibilità oggettive. Per cui, da questo punto di vista, le trasformazioni ci appaiono come fenomeni processuali piuttosto che come eventi puntuali. L’ascesa del capitalismo ha sicuramente segnato la storia delle relazioni umane con il resto della natura più di qualsiasi altro cambiamento, compresa la macchina a vapore.
Per fare un semplice esempio, dopo il 1450 la deforestazione si produsse con una scala e una velocità da 6 a 10 volte maggiore che nell’età feudale. L’Europa feudale impiegò secoli per disboscare vaste zone dell’Europa centrale, dopo il 1450 simili deforestazioni avvennero nel giro di poche decine di anni determinando enormi trasformazioni sociali ed ambientali. Per non parlare dell’impatto del cosiddetto “scambio Colombiano”, cioè malattie, armi e cereali dal Vecchio al Nuovo mondo, e le colture di quest’ultimo che giunsero in Europa.
Concentrandosi esclusivamente sul carbone e il petrolio si corre il rischio di ignorare la grande rivoluzione della produttività del lavoro avvenuta nel primo capitalismo grazie alle continue rivoluzioni scientifiche, botaniche, cartografiche e agronomiche che non solo precedettero, ma “prepararono” la prima rivoluzione industriale.
In realtà però, e in questo risiede la differenza tra un approccio che si sofferma sugli effetti sensibili e un altro che invece guarda ai rapporti sociali sottostanti, la vera trasformazione fu di tipo qualitativo e si fondò sulla trasformazione del controllo della terra come modalità di appropriazione del surplus, al controllo della terra come condizione per l’aumento della produttività del lavoro. È su questo che poggia il passaggio ad una società fondata sul valore-lavoro e sulla produzione generalizzata di merci. Questo ci permette, en passant, anche di superare quelle facili rappresentazioni del primo capitalismo mercantile o preindustriale come se non fosse il “vero capitalismo” a cui abbiamo accennato. Il passaggio dalla produttività della terra a quella del lavoro rivelò una nuova legge del valore. Ma essa fu qualcosa in più che una valutazione basata sul lavoro sociale astratto, essa implicava in un secondo momento dialettico anche l’appropriazione gratuita del “lavoro” di quella che, per parafrasare Marx, potremmo chiamare la natura sociale astratta come una indispensabile condizione di possibilità. Detto in altri termini, tutte queste condizioni di possibilità, che sono comunque al di fuori della forma valore, non producono direttamente valore eppure il valore non può essere prodotto prescindendo da esse. L’era del capitale si è da sempre fondata su questo rapporto che consente grandi balzi nella crescita della produttività del lavoro solo in ragione di un’appropriazione gratuita sempre maggiore delle risorse naturali che rendono possibile il processo di accumulazione, operando come controtendenza rispetto alla caduta del saggio di profitto. La crisi ecologica, vista da questa prospettiva, segnala anche la crisi del processo di valorizzazione da cui il capitale potrà provare ad uscire solo provando ad espandere e ad approfondire ulteriormente i processi di spoliazione di quella che abbiamo chiamato natura sociale astratta.
Immaginare che possa esistere un “capitalismo verde”, e che comunque questo rappresenti un alternativa preferibile al “capitalismo fossile” significa dunque infilarsi in un vicolo cieco da cui poi diventa difficile uscire.
Una visione rivoluzionaria all’altezza dei tempi dev’essere in grado di articolare una proposta politica che connetta la crisi della biosfera e la crisi del lavoro produttivo e riproduttivo. Un ecologismo, anche radicale, che non sappia parlare anche di sfruttamento e insicurezza sociale è destinato al fallimento, e lo stesso si può dire per le organizzazioni di classe che non sappiano parlare anche della crisi ecologica globale. Riuscire a intrecciare le lotte è dunque il compito a cui una nuova generazione di comunisti deve dimostrare di essere all’altezza dando forma e gambe all’intuizione di Marx: il comunismo è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo… È la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione.[6]
[1] https://www.lordinenuovo.it/2020/04/06/lo-sviluppo-capitalistico-e-la-diffusione-delle-epidemie/
[2] https://earthobservatory.nasa.gov/images/146362/airborne-nitrogen-dioxide-plummets-over-china
[3] Dipesh Chakrabarty, The climate of history. Four theses, 2009
[4] Razmig Keucheyan, la natura è un campo di battaglia, Ombre Corte, 2019
[5] Jason W. Moore, Antropocene o Capitalocene?, Ombre Corte, 2017
[6] Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844. Einaudi, 1968