Editoriale del 1 maggio
Il primo maggio di quest’anno ci pone più di ogni altro di fronte alla consapevolezza dei nostri compiti. La crisi capitalistica ha subito un’accelerazione improvvisa per un fattore non prevedibile che ha scompaginato in poche settimane molte delle certezze assolute della società capitalistica, senza tuttavia poter agire di per sé nella soluzione dei problemi politici e organizzativi che il movimento comunista e i sindacati hanno nel nostro Paese.
Con maggiore coscienza della fase e comprensione di ciò che si prospetta davanti a noi nei prossimi mesi la borghesia scalpita. Proprio ieri in Senato è andato in scena il consueto teatrino politico. Conte si è presentato in Parlamento per riferire sulla situazione politica, lasciando alle forze di opposizione – anche interna – al suo esecutivo, quel palcoscenico di opinione saldamente monopolizzato dal Governo in queste settimane.
La premiata ditta Matteo & Matteo al Senato ha alza la voce: ha urlato per farsi sentire dal grande capitale italiano che morde il freno, dicendo a gran voce: siamo noi i vostri migliori referenti! Ha urlato contro i pieni poteri a Conte perché quei poteri vorrebbero darli a Draghi o a un governo di unità nazionale che potrà applicare con ancora più forza le politiche antipopolari che servono (ai capitalisti), potrà alzare di più la voce in Europa a fronte delle briciole ottenute da Conte. Persino questo Governo, che con Confindustria è stato uno zerbino, facendosi dettare scadenze, limitazioni e concedendo un sistema di deroghe più che generoso, non è abbastanza per garantire la vera Fase 2, quella in cui il velo della lotta al virus cederà il passo all’evidenza della lotta di classe che si consumerà per la sopravvivenza.
La crisi che attraversiamo non è qualcosa di ordinario: i dati veri registreranno una caduta del PIL e un aumento del debito pubblico ben superiore alle stime attuali. Un quadro mai visto e di proporzione globale: o si salvano i profitti dei grandi capitalisti schiacciando lavoratori e ceti popolari o si rovescia il banco. Non è contemplata una terza opzione.
Ci sono due ordini di critiche che vengono mosse al Governo in queste ore. La prima riguarda un concetto – quello di una presunta libertà assoluta individuale – che per noi comunisti non è un bene assoluto, ma è subordinato al bene della collettività. Quando Renzi e Salvini, insieme con giuristi e opinionisti attaccano Conte per le limitazioni alla libertà personale difendono un modello individualista, prodotto ultimo e allo stesso tempo e premessa ideologica del sistema capitalistico e della sua versione neoliberista imperante nel periodo pre-crisi. Questa libertà personale può – in molti casi deve – essere subordinata alle esigenze collettive come in questo momento. Invocare il liberi tutti, la possibilità di aprire tutto – addirittura facendolo chiedere retoricamente ai morti di Bergamo, come fatto vergognosamente da Renzi – significa invocare la libertà che vogliono i grandi capitalisti: far ripartire immediatamente e a pieno regime i profitti privati. Non è la nostra libertà che difendono, ma la loro. Le parole alte piene di princìpi di diritto nascondono la cruda e impronunciabile realtà dei rapporti economici.
A questa critica borghese, si contrappone la nostra critica, che non si basa sulla limitazione in sé delle libertà individuali, che le esigenze collettive ben possono giustificare, ma sul carattere – di classe – delle scelte con le quali si è concretizzata e si concretizza ogni giorno questa limitazione. Sul sacrificio che è stato richiesto ai lavoratori e alle lavoratici costretti a andare a lavorare senza adeguate misure di sicurezza o con pesanti deroghe. Su un calendario di chiusure/aperture che è stato scritto dalla Confindustria nell’interesse prevalente e assoluto del grande capitale. Sulle scelte economiche, sui sussidi che sono e saranno garantiti al grande capitale per ripartire – anche in forma di nazionalizzazioni temporanee – scaricando sulle casse dello Stato, e quindi sui lavoratori, il costo del salvataggio delle imprese. Questa è la nostra critica.
Non che ci aspettassimo altro. È questa la contraddizione che fin da subito si è palesata per i comunisti e le forze sindacali di classe: dover necessariamente cedere a un governo borghese la gestione immediata della crisi sanitaria, dimostrando responsabilità contro un nemico inafferrabile che si diffonde anche attraverso gli strumenti tradizionalmente necessari per la lotta stessa. Responsabilità per l’interesse della salute di tutti e dei lavoratori in primis e su questo gli irresponsabili si sono dimostrati proprio la Confindustria e quanti invocano le riaperture, in nome della libertà individuale, che altro non è che la libertà di profitto.
Dall’altra parte avere la consapevolezza che una delega a tempo per le esigenze di salute collettiva – quella stessa delega che oggi i Salvini e i Renzi strumentalmente attaccano –non può diventare una delega alla borghesia per la gestione politica della crisi, nelle quali anche quelle forme di lotta saranno necessarie per evitare che su di noi si scarichino tutti i costi del fallimento del capitalismo. Responsabili sì, obbedienti mai. Mai disposti ad accettare passivamente le decisioni politiche che saranno prese, mai disponibili a delegare i governi borghesi a decidere per noi la gestione della crisi.
La curva discendente del contagio si incrocia con quella ascendente della crisi sociale che avanza. L’equilibrio tra responsabilità e rifiuto di obbedienza diviene una questione politica, che comporta l’individuazione di strumenti e modalità che sappiano conciliare la doppia lotta alla diffusione della pandemia e all’utilizzo strumentale che della crisi fanno i capitalisti.
L’impegno sul lato teorico e strategico dell’individuazione della direzione delle lotte, deve incrociarsi con chi materialmente in questi giorni sta promuovendo nelle fabbriche, nei magazzini, nei quartieri di periferia i primi moti – spesso spontanei – dei lavoratori e dei disoccupati.
In queste settimane il sindacalismo conflittuale ha promosso scioperi e iniziative di lotta che hanno un valore enorme. Di fronte alla pandemia l’egemonia delle dirigenze confederali scricchiola anche nelle loro basi. Oggi, 1 maggio nei paesi dove il movimento operaio dispone di organizzazioni politiche e sindacali forti e salde sulle proprie posizioni – penso alla Grecia – i lavoratori sono in piazza coniugando forme responsabili per la salute con la presenza fisica e visiva della lotta. Nella nostra realtà, enormemente più arretrata sul lato organizzativo, gli scioperi promossi in queste ore hanno però una valenza enorme. Specialmente nella logistica, gli scioperi stanno registrando importanti adesioni, dimostrando che se i lavoratori possono lavorare ogni giorno senza rispetto delle misure di sicurezza possono anche scioperare e manifestare in sicurezza. Qui l’equilibrio tra responsabilità e non obbedienza è stato dimostrato nei fatti.
Per onorare davvero il primo maggio, per dare realmente seguito al nostro compito storico di fronte alla circostanza epocale di questa crisi, che mette potenzialmente in discussione l’ordine sociale costituito, abbiamo il dovere di unire queste esperienze. Di legare ogni elemento di mobilitazione con una prospettiva politica, di unire settori oggi disgregati e sparsi in un fronte unico di classe che individui una via d’uscita rivoluzionaria dalla crisi. È tra i lavoratori salariati che deve essere compiuto questo primo passo, perché solo attorno a una presenza salda di una classe operaia organizzata e cosciente, tutti gli strati popolari potranno coalizzarsi in una prospettiva di rovesciamento dell’ordine sociale capitalistico.
Un fronte unico di classe per rispondere alla crisi sociale che avanza. Un fronte unico di classe, propulsore delle lotte, per organizzare e unire in un programma di transizione i segmenti sparsi della classe operaia e dei settori popolari.
Un fronte unico di classe per far avanzare in concreto nei luoghi di lavoro, nelle periferie delle grandi città la coscienza delle necessità storica di un cambiamento rivoluzionario. Un fronte unico di classe perché solo così avremo le forze fisiche necessarie che sono presupposto indispensabile per conquistare autorevolezza e credibilità di fronte alle masse, divenire massa critica e organizzata. Un fronte unico di classe che sappia affrontare dall’ottica degli interessi dei lavoratori le contraddizioni che si aprono nel campo europeo e a livello internazionale, senza lasciare le masse popolari spettatrici di questi conflitti o peggio alla coda di settori capitalistici nazionali e internazionali in lotta tra loro. Un fronte unico di classe che sappia coniugare aspetti ed esperienze parziali, con saldezza di principi e creatività nelle forme, sulla base di un’analisi concreta della situazione attuale. Un fronte unico di classe che sappia legare lavoratori e intellettuali, che lavori per acquisire una reale capacità di direzione di ogni ramo della società. Un fronte unico di classe da contrapporre al fronte unico delle forze borghesi che da destra, sinistra e centro si scannano per dimostrare maggiore affidabilità al grande capitale, divisi nell’apparenza uniti nella volontà di far pagare alle classi popolari il prezzo della salvezza dei capitalisti. Un fronte unico di classe per unire le lotte e non per unire forze opportuniste in vista delle elezioni, che abbia come chiara discriminante la questione del rovesciamento di questo sistema e l’esclusione di ogni forma riformistica e di compatecipazione alla gestione borghese del potere politico, ad ogni livello essa si esprima.
Non abbiamo la pretesa di vedere scomparire le questioni teoriche e politiche che vedono la presenza di divisioni tra le forze sindacali e politiche di classe oggi. Non crediamo sia neppure una pretesa giusta, dato che molte di quelle divisioni attengono a opzioni strategiche che hanno ragioni profonde. Ma di fronte alla portata della crisi queste divisioni possono marciare parallelamente – alimentando il dibattito teorico, se necessario anche lo scontro di posizioni – alla definizione e alla promozione di un elemento comune tattico di lotta, senza il quale neppure le divisioni di prospettiva hanno un reale senso storico, perchè inevitabilmente destinate tutte alla sconfitta di fronte alla capacità di resistenza e riorganizzazione del capitale di fronte alla crisi. Quelle questioni, che esistono tra le forze di classe, torneranno ad avere valore discriminante se avremo agito efficacemenete in una fase storica e in un momento più avanzato, con rapporti di forza più favorevoli, in cui su quei punti di dovranno produrre rotture storiche che saranno giustificate dalla loro attualità. E non è detto che molte di esse non potranno essere superate dai fatti, dall’esperienza pratica acquisita sul campo della lotta.
Ci saranno riserve, e con pazienza dovremmo scioglierle, facendo comprende la portata reale e rivoluzionaria di questa proposta. Ma ci saranno anche molti pretesti per opporsi a questa necessità. Ci scontreremo con la volontà di salvare orticelli e poltrone, posizioni di comodo e di rendita. Molti saranno i tentativi di occultare questi opportunismi, ammantandoli di parole roboanti, di princìpi tanto affermati quanto traditi nella pratica. Ma una verità deve essere chiara: chiunque e da qualsiasi ottica – anche la più apparentemente ortodossa – di fronte alla crisi attuale e al suo carattere epocale, attaccherà questa prospettiva, l’unica che possa realmente far avanzare la lotta di classe in questo Paese, nei fatti farà un prezioso lavoro per la borghesia potendo un domani esporre con fierezza anche questa medaglia sul proprio petto.
Non aspetteremo il loro via libera.