Ambrogio Donini, Interstampa e lo “strappo”
Tra gli obiettivi primari dell’Ordine Nuovo c’è anche consegnare alle nuove generazioni spunti per un’analisi storica del movimento comunista ed in particolare delle vicende poco note e ancora poco indagate dalla storiografia ufficiale. Tra queste l’opposizione alla deriva del PCI e il processo di organizzazione che porterà alla formazione del Partito della Rifondazione Comunista, insieme con le vicende successive a partire dagli anni ’90. Questa storia poco indagata, anche perchè ha visto alcuni dei protegonisti di allora direttamente coinvolti nelle vicende politiche attuali, merita un approfondimento aperto – come nel caso dell’articolo di seguito di riportato – al contributo di compagni esterni alla nostra redazione, indipendentemete dalle scelte successive effettuate. Ringraziamo Sandro Valentini del contributo che vi ha inviato e che di seguito pubblichiamo, rilanciando un invito ai protagonisti di allora a fornirci spunti e contributi aperti alla discussione collettiva, per portare avanti questo progetto.
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Era la fine del 1981, ascoltavo in televisione la conferenza stampa di Berlinguer durante la quale, in riferimento ai fatti di Polonia, pronunciò la famosa frase: «Si è esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre». Mi strofinai gli occhi, sobbalzai dalla poltrona, non ci volevo credere. Ripreso dalla sorpresa, prima fui invaso dallo sconforto e dopo mi assalì la rabbia. Non ci dormii la notte. Dissi tra me: «Devo assolutamente fare qualcosa». La mattina dopo chiamai il mio amico Sergio Laudati che lavorava al “bottegone”, Sezione Autonomie locali che era diretta da Armando Cossutta. Anche lui era scoraggiato e scosso. Gli chiesi di farmi sapere che intenzioni avesse l’Armando. Il giorno dopo ero a cena a Trastevere con Sergio. Davanti a una pizza mi informò che Cossutta intendeva dare battaglia. Questa notizia mi sollevò un po’.
Ci fu infatti la Direzione del partito. In quella sede fu approvato, con il solo voto contrario di Cossutta, un documento, Aprire una nuova fase per la lotta al socialismo, in cui, oltre a condannare il nuovo governo militare presieduto dal generale Jaruzelski in Polonia, si ribadiva il giudizio espresso da Berlinguer nella conferenza stampa televisiva, cioè che «la fase dello sviluppo del socialismo che ebbe inizio con la Rivoluzione d’Ottobre ha esaurito la forza propulsiva». Alcuni giorni dopo, all’inizio del 1982, il 6 gennaio esattamente, L’Unità pubblicava un articolo di Cossutta in prima pagina dal significativo titolo In che cosa dissento dal documento sulla Polonia. Era lo “strappo”, l’atto con il quale Cossutta iniziò una lunga guerra che lo ha condotto a non aderire al PDS e a fondare il PRC. Ma in quel momento Cossutta non sapeva ancora che lo sbocco della sua lotta sarebbe stato la fondazione di un nuovo partito.
Il 6 gennaio, oltre a essere l’Epifania è anche il compleanno di Sergio, così lo chiamai per gli auguri di rito, ma in realtà ero ansioso di scambiare con lui qualche opinione sull’articolo dell’Armando appena pubblicato su L’Unità. Tra l’altro avevo letto da qualche parte che un gruppo di intellettuali e di personalità politiche, tra cui Ambrogio Donini, Ludovico Geymonat e Nino Pasti, avevano dato vita a una rivista in dissenso con le politiche del PCI. Volevo sapere se Sergio ne sapesse qualcosa. Ci vedemmo e parlammo in modo entusiasta dell’articolo dell’Armando, ma eravamo anche molto preoccupati della sua futura sorte e soprattutto di quella del PCI. Anche lui aveva sentito parlare del gruppo di intellettuali che avevano dato vita alla rivista, ma ne sapeva quanto me. Ci lasciammo con l’intesa che si sarebbe informato da Cossutta, il quale sicuramente doveva avere molte più informazioni di noi.
Passò qualche giorno, se rammento bene, e Sergio mi telefonò. «Armando ti vuole parlare», mi disse. Dopo un paio di giorni andammo a casa sua, in Viale Aventino. Cossutta fu molto affettuoso, lo conoscevo bene, dai tempi in cui era nella FGCI ed ero amico del figlio, Dario. Entrò subito nel merito della proposta che intendeva farmi.
«Lavori con l’ANSA. Non hai più incarichi di partito. Ti va di essere il mio contatto, l’uomo di collegamento tra me e Interstampa? Dobbiamo organizzare la battaglia nel partito, ma con il centralismo democratico non si scherza. Non posso direttamente seguire il loro lavoro politico. Devo fare molta attenzione. Se decidi di sì avrai anche un po’ di soldi per le tue spese, ogni due o tre mesi. Che ne pensi?».
Appresi così che la famosa rivista di cui si vociferava si chiamava Interstampa. Un nome insignificante, anonimo, non mi piaceva, Avrei preferito un titolo più ridondante, tipo Ottobre o Mondo Nuovo, come si chiamava il bel settimanale del PSIUP. Con gli anni poi il nome Interstampa mi è entrato nel cuore. Decisi di accettare la proposta senza pensarci neppure un attimo. Stavo facendo la mia scelta di vita. Volevo fare qualcosa, la mia adesione al PCI, dal settembre del 1970, non poteva finire con la fase nuova indicata da Berlinguer.
Qualche tempo dopo capii perché la rivista fu chiamata Interstampa. Nel primo anno (uscì nell’aprile del 1981, quasi un anno prima dello “strappo”) in realtà era un bollettino che riportava notizie o articoli presi dalla stampa estera, quasi sempre dei paesi dell’Est, per far conoscere, sia pure a un pubblico limitato, la realtà del mondo del cosiddetto socialismo realizzato, che era manipolata e distorta dalla stampa occidentale. Nel suo secondo anno di vita, con il passaggio all’editore Napoleone, venne gradualmente trasformata in rivista.
Tre giorni dopo Laudati mi telefonò dicendo che mi voleva vedere, ma non dovevo assolutamente andare a trovarlo in Direzione. Decidemmo di incontrarci al Portico di Ottavia, al Ghetto. Da quel primo appuntamento in avanti, quando dovevo dare una informazione importante all’Armando o ricevere da lui una indicazione, mi sarei visto con Sergio al Portico d’Ottavia. Ogni volta lui usciva dal suo ufficio in Via delle Botteghe Oscure e a piedi, in pochi minuti, mi raggiungeva nel luogo dei nostri appuntamenti segreti. Iniziava per me una fase politica di semi clandestinità. Mi disse di telefonare a un certo Armando Giampieri, uno degli animatori della rivista, il quale mi avrebbe messo in contatto con Ambrogio Donini, ma mi raccomandò di non far saper a nessuno che ero l’uomo di fiducia di Cossutta. Solo Donini e lo stesso Giampieri ne erano a conoscenza. Mi diede un numero di telefono e ancora mi rammento come mi congedò, mi salutò dicendomi: «Hai capito? In bocca al lupo vecchio mio!». Poi, senza neppure aspettare una mia eventuale risposta, girò le spalle e con passo veloce andò via, come se quella situazione scottasse, come in certe scene di film sulla lotta partigiana.
Da buon bolscevico, il giorno dopo telefonai a Giampieri. Anche questa telefonata fu contorta, allusiva, un dire e non dire. Ci vedemmo ai giardini del Laghetto dell’EUR. Seduti su una panchina di marmo parlammo un paio di ore. Tre giorni dopo ero con Giampieri a Rignano Flaminio, o meglio subito fuori dal paese, in campagna, lungo la stradina che porta al cimitero del paese, dove, dopo circa mezzo chilometro, all’altezza di una biforcazione, in una strada non asfaltata, c’era la casa di Ambrogio Donini.
Eravamo tutti tre seduti nel soggiorno rustico. Facevo conoscenza con il “grande vecchio” di Interstampa, intellettuale di fama mondiale, allievo di Ernesto Bonauiti. Donini era uno storico delle religioni e del cristianesimo; autore di libri pubblicati in non so quante lingue, come “Storia del cristianesimo” e “Lineamenti di storia delle religioni”. Prese nel 1926 il posto del suo maestro all’Università di Roma ma fu subito allontanato dall’insegnamento per decisione del governo fascista. Entrò nel PCI ma nel 1928 fu costretto a rifugiarsi all’estero per evitare l’arresto. Trasferitosi negli USA approfondì le sue ricerche storiche, specializzandosi in ebraico e siriano all’Università di Havard. Richiamato dal partito in Europa, al centro di Parigi, dal 1932 al 39 fu redattore capo del quotidiano La Voce degli italiani e diresse le Edizioni di Cultura e Società. Scoppiata la guerra torno negli Stati Uniti dove diresse L’Unità del popolo e insegnò storia delle religioni alla Jefferson School di New York. Con la Liberazione rientrò in Italia dopo 17 anni di esilio!
Donini ricoprì molti incarichi nel partito e nelle istituzionali: consigliere comunale di Roma, ambasciatore a Varsavia tra il 1947-48, Presidente dell’Istituto Gramsci, Vice direttore di Rinascita con Palmiro Togliatti direttore, membro del Consiglio mondiale per la pace, senatore della Repubblica per dieci anni e membro del Comitato centrale del PCI dal 1948, poi dal 1956 della Commissione Centrale di Controllo. Professore di storia del cristianesimo all’Università di Bari nel 1973, in occasione del suo settantesimo compleanno, fu insignito dal Soviet supremo dell’URSS dell’ordine di amicizia tra i popoli.
Uomo quindi dal curriculum spettacolare. Era sposato con Olga, una burbera sovietica, che aveva conosciuto nel suo esilio negli Stati Uniti, con la quale comunicava in francese nonostante lei parlasse perfettamente l’italiano. Donini conosceva bene anche l’inglese e il russo che Olga adoperava quando, preoccupata che lui si stancasse troppo (e in parte aveva ragione), lo esortava a licenziare gli ospiti senza che questi potessero capire le loro parole.
Ambrogio Donini era di impostazione politica secchiana, come del resto tutto il gruppo storico di Interstampa, ma era anche legatissimo a Togliatti, con cui aveva avuto una profonda amicizia, a differenza di altri dirigenti di matrice secchiana. Quando andai a trovarlo in occasione del suo ottantesimo compleanno mi mostrò una montagna di messaggi di auguri che aveva ricevuto, ma volle leggermi il lunghissimo telegramma di auguri inviatogli da Nilde Jotti, allora Presidente della Camera dei deputati. Ai tempi del suo legame con Togliatti, nel partito si era creato un grande scandalo; molti ritenevano inammissibile il fatto che il Segretario avesse lasciato la moglie, Rita Montagnana, una figura autorevole della storia del PCI, e un figlio avuto con lei, per mettersi insieme a una donna tanto più giovane di lui. Questa situazione provocò un certo ostracismo nei confronti di Togliatti da parte di molti dirigenti che, formati nel solco del “puritanesimo comunista” degli anni ’30, avevano una visione arretrata in merito alle relazioni sentimentali.
Togliatti soffrì molto per queste incomprensioni sulla sua unione con la Jotti. «La moralità non va confusa con il moralismo; la nostra moralità è un tutt’uno con il nostro impegno di cambiare il mondo – scrisse – il moralismo è un’altra cosa». Donini era stato anche Vicepresidente del Senato quindi era prassi che i Presidenti delle due Camere in carica gli inviassero un telegramma di auguri, ma le parole del telegramma mostravano un affetto che andava oltre un atto di cortesia istituzionale. Feci notare a Donini questo aspetto. E lui mi rispose:
«È vero Sandro, la tua è una giusta osservazione. Sai, la politica nella vita non è tutto. La Jotti non potrà mai dimenticarsi che quando voleva fare l’amore con Togliatti e non sapevano dove andare, dove sbattere la testa, io fornivo le chiavi di casa mia. Queste cose non si dimenticano. Nella vita si fanno scelte politiche diverse, ma questi ricordi restano nel cuore. Il suo telegramma è, nonostante gli anni passati, un atto di riconoscenza di una donna che non ha dimenticato». Rimasi di stucco, scoprivo aspetti su storie umane, di uomini e donne del PCI che nessun libro di storia ti racconta.
Questa storia di umanità e solidarietà comunista fa il paio con quella che qualche anno più tardi mi raccontò Cossutta. Longo, allora Segretario, voleva Pietro Secchia Vicepresidente del Senato, anche a parziale riparazione delle discriminazioni di cui era stato oggetto per lungo tempo dopo che Togliatti lo aveva allontanato dalla segreteria del partito utilizzando come pretesto il caso Seniga, uomo di fiducia di Secchia scappato via e rifugiatosi in Svizzera con la cassa del partito. La segreteria nazionale, anche se non era del tutto convinta, decise di accettare la proposta di Longo. Toccò a Cossutta tenere una riunione con il Direttivo del gruppo del Senato per avanzare la proposta. Ma il Direttivo, a maggioranza, la respinse. Andò da Longo e lo informò dell’esito negativo della riunione. L’anziano leader montò su tutte le furie: «Cos’è questo ostracismo contro uno dei fondatori del partito! È vergognoso! Contro un partigiano, un uomo che ha guidato la Resistenza. Questo comportamento è inaccettabile! Ora chiedi la riconvocazione del Direttivo del gruppo e fai sapere a tutti che quella di Secchia è prima di tutto la proposta del Segretario. Se a qualcuno non va bene venga da me per discuterla e protestare».
Fu a seguito di questo drammatico retroscena che Secchia fu eletto Vicepresidente del Senato. In quello storico gruppo dirigente si poteva discutere accanitamente, si poteva litigare fino a essere costretti a scelte pesanti, ma mai veniva meno il rispetto della persona. Si era cinici, in alcune circostanze anche duri e con i nemici spietati, ma nei rapporti tra loro c’era una carica di umanità, consolidata in tante e tante battaglie comuni, che riemergeva potente ogni volta che le circostanze politiche lo permettevano, quando non si metteva in discussione la linea.
«Secchia – commentava Cossutta – era una persona sensibile e squisita, sempre gentile con gli altri, sicuramente socializzava molto più di Togliatti. Anche se qualche malalingua sosteneva che avesse qualche inclinazione omosessuale, in quanto Seniga dormiva su una brandina nella sua camera da letto, ma io non ho mai creduto a queste maldicenze. Comunque, era una persona per bene. Non condividevo certe sue posizioni, ma gli ho sempre riconosciuto coerenza politica. Si faceva amare oltre che rispettare». Non avevo mai sentito Cossutta parlare in modo quasi affettuoso di Secchia, con cui aveva avuto accesi scontri politici. Pensai: «Il gruppo dirigente storico del PCI non smetterà mai di stupirmi».
Il primo incontro con la Direzione di Interstampa avvenne in Via Chinotto nella sede della Casa Editrice Napoleone. L’editore, Roberto Napoleone, aveva preso in gestione la rivista nata un anno prima. Alla riunione doveva partecipare anche Donini, ma ebbe un malore e non potendo venire mi pregò di andare a trovarlo perché doveva darmi delle indicazioni. Mi consegnò dei suoi appunti chiedendomi di leggerli nel corso della riunione. Mai ingresso in un organismo fu preparato tanto male: Giampieri aveva fatto poco o nulla per informare i compagni della mia presenza. Mi presentavo con delle indicazioni scritte da Donini, ma se i partecipanti alla riunione mi avessero detto «chi diavolo sei?» avrebbero avuto ragione. Sicuramente molti lo pensarono, anche se non ebbero il coraggio di dirlo. Così, mentre molti si chiedevano chi fossi e da dove sbucassi, partecipai alla riunione presentato frettolosamente come segretario di Donini. Forse qualcuno mi guardò anche con sospetto pensando che potessi essere un infiltrato del PCI, dato che non ero del giro dei secchiani.
A ripensarci oggi la scena era anche un po’ comica. Un amendoliano convinto, come sono sempre stato, in un covo di secchiani. Occorre sempre rammentare che Interstampa si era schierata con Cossutta contro lo “strappo”, ma non fu mai la rivista di Cossutta. Mi ricordo che c’erano (vado a memoria): Otello Nannuzzi, Paolo Cinanni, Giacomo Aducci, Alfio Caponi, Adelio Albarello, Ettore Biocca, Giuseppe Angelini, Aldo Bernardini e il terribile Arnaldo Bera, che era stato un fedelissimo luogotenente di Pietro Secchia e grande avversario di Cossutta. C’erano anche due giovani, Fausto Sorini ed Elisabetta, una bellissima ragazza che diventerà molti anni dopo la sua compagna e dalla quale avrà un figlio. Elisabetta è morta giovane di un brutto male. So che è stato un duro colpo per Fausto con cui ho frequentemente litigato, ma con cui ho sempre mantenuto un rapporto di affetto e di stima. Rimasi colpito nel vedere un uomo, apparentemente duro, assistere la moglie nello stadio terminale della grave malattia, con grande attenzione e delicatezza. Si dedicò a lei anima e corpo e la affiancò nelle ultime tappe del suo percorso, sino all’inevitabile e tragico epilogo.
Ma tornando a quella riunione ricordo che c’era anche un personaggio un po’ buffo, con un atteggiamento molto da cospiratore: Walter Poce, figlio di Antonio, uno dei leader del Movimento Comunista d’Italia e delle bande partigiane romane Bandiera Rossa. Poi c’era il Direttore responsabile nonché proprietario della rivista Nicodemo Boccia. Erano inoltre presenti, ovviamente, oltre al sottoscritto, Giampieri e Napoleone.
Fu una riunione confusa e inconcludente. Lessi diligentemente gli appunti di Donini, molto sensati, che però su molti presenti non ottennero nessun effetto. Biocca e Poce erano scatenati, pareva volessero fare la rivoluzione il giorno dopo, ma con chi e con quali forze non era dato saperlo. Solo i giovani e qualche vecchio compagno mantennero un atteggiamento positivo. Dovetti telefonare ben due volte a Donini e farlo parlare al telefono prima con Biocca e poi con Giampieri perché tornasse un po’ d’ordine e di buonsenso nella riunione
Uscii da quel primo incontro avvilito, preso dallo scoramento. Della riunione ne parlai qualche giorno dopo con Laudati. Ero demoralizzato. Egli sorridendo mi apostrofò:
«L’Armando ti manda a dire che il pane si fa con la farina che hai. Non ci sono alternative. Cosa ti abbiamo messo a fare lì dentro. Vai e fai il tuo lavoro. Segui le indicazioni di Donini, che è il più vecchio ma anche il più assennato e lucido».
Avevo compreso la lezione. Mi buttai d’impeto nel lavoro di organizzazione. Ero diventato il Responsabile della diffusione della rivista, un incarico tecnico-operativo e politico nello stesso momento. La rivista non era nelle edicole, costava troppo, dunque il solo modo per farla conoscere erano gli abbonamenti e la diffusione militante. Tutto questo lavoro andava promosso e coordinato su scala nazionale e neppure Napoleone aveva la forza di farlo. Il lavoro però aveva anche una valenza politica: infatti si erano costituite le Redazioni locali di Interstampa nelle principali città d’Italia, che formalmente erano delle redazioni, composte da iscritti e non iscritti al PCI così come la Direzione, per cui non potevano essere accusate di attività frazionista, ma in pratica erano veri e propri centri di organizzazione della battaglia in vista del XVI Congresso del PCI.
L’attività di contatto con le Redazioni locali era quindi sotto la mia diretta supervisione e da Roma ero l’unico che poteva farlo, in quanto lavoravo per la rivista a tempo pieno, tolto quelle poche ore che sottraevo all’impegno politico come cronista all’ANSA. Cossutta mi aveva consigliato di mantenere questo lavoro, che mi permetteva di arrotondare le mie entrare e nel contempo mi dava una copertura, sia pur parziale, in quanto il contributo e i rimborsi che ricevevo per la mia attività politica erano in nero, solo Donini era a conoscenza di questo delicato aspetto.
Stavo promuovendo le prime riunioni in giro per l’Italia che scoppiò subito la prima “grana” con Napoleone, a seguito del manoscritto di Paolo Robotti, uno dei fondatori del PCI e della Direzione della rivista. Il suo saggio doveva essere pubblicato in una delle collane storiche della casa editrice. I problemi con Napoleone, a prescindere dal saggio di Robotti, erano comunque sorti poiché stava subendo una dura pressione dal partito che lo sollecitava ad abbandonare la gestione di Interstampa. A quel tempo era anche l’editore della rivista del sindacato di polizia che aveva migliaia e migliaia di abbonati. Fu dunque ricattato. Qualcuno sicuramente gli fece capire che se non si fosse separato da Interstampa avrebbe perso la gestione di riviste per lui economicamente molto importanti. Tutta la vicenda però si complicò con lo scritto di Robotti.
C’erano state tante campagne antisovietiche e l’ultima in ordine di tempo aveva una relazione con la vicenda che sto narrando. Questa volta la campagna si concentrava sulla liquidazione da parte di Stalin di militanti comunisti e antifascisti italiani esuli in Russia. Paolo Robotti era cognato di Togliatti. Aveva sposato Elena, una sorella di Rita Montagnana, moglie appunto di Togliatti, che era iscritta al partito dal ’21; dirigente nazionale era molto popolare tra le donne comuniste. Robotti conosceva molto bene la questione in quanto lui stesso esule a Mosca era stato arrestato in quel periodo. Incarcerato, era stato torturato affinché confessasse che Togliatti era una spia dell’OVRA e denunciasse che tra gli antifascisti italiani esuli in URSS, molti dei quali erano stati militanti degli Arditi del popolo che avevano condotto azioni armate di autodifesa contro i fascisti, vi fossero dei terroristi, pericolosi per il regime sovietico. Dopo un anno Robotti uscì dal carcere ancora più convinto della sua scelta comunista.
Nel suo saggio sosteneva che gli antifascisti italiani liquidati in quegli anni erano stati solo 98 e faceva puntigliosamente l’elenco dei nomi. Metteva in evidenza due aspetti: in primo luogo che i militanti italiani soppressi rappresentavano un fenomeno grave, da condannare, ma molto circoscritto; in secondo luogo che nessuno di questi era un militante del PCI, ma si trattava di anarchici, di sindacalisti rivoluzionari, di socialisti massimalisti e via dicendo. Non è che questa fosse una giustificazione per ammazzarli, voleva solo dimostrare che i comunisti italiani in Russia, tolta qualche rara eccezione, non furono perseguitati.
Robotti però era gravemente malato, era ricoverato alla clinica Città di Roma a Monteverde. Dal suo letto d’ospedale fece sapere a Donini che aveva fatto una copia del suo testo: l’originale era per Napoleone, che avrebbe dovuto pubblicarlo, la copia era destinata invece proprio a Donini, al quale chiedeva un parere prima di darlo alle stampe. Ambrogio mi parlò della vicenda nel corso del nostro incontro settimanale a Rignano Flaminio. Era contrariato dall’iniziativa di Robotti poiché giustamente la riteneva politicamente debole. «E poi – a un certo punto sbottò – certe cose, certi segreti si portano nella tomba». Mi raccontò tra l’altro, per sommi capi, alcuni episodi di cui era a conoscenza e che supportavano la tesi secondo la quale Stalin aveva perso il controllo della situazione, gli era sfuggita letteralmente di mano. Alcune di queste storie le riportò, modificando qualche passaggio, nel suo libro di memorie “Sessant’anni di militanza comunista”.
Secondo Donini, le denunce erano favorite dall’opera nefasta di alcuni esponenti del movimento comunista che, per ambizione, erano diventati delatori della polizia segreta sovietica. Le delazioni arrivarono anche a sfiorare gli esponenti più in vista del partito, tra cui lo stesso Togliatti, che fu inviato da Stalin stesso, secondo il racconto di Donini, nel 1937 all’estero, prima a un incontro con la II Internazionale socialista, e poi a Madrid, per salvargli la vita da insinuazioni sempre più minacciose. Lo stesso avvenne, mi disse, per Vittorio Vidali – che diverrà il leggendario comandante Carlos – il quale fu sollecitato a partire, prima che la situazione divenisse insostenibile, dalla compagna Stassova, fidata collaboratrice e segretaria di Stalin.
Mi raccontò anche di un episodio che lo riguardava. Nella primavera del 1938 da Mosca era giunto al Centro di Parigi Giuseppe Berti legato ai servizi segreti e di controspionaggio sovietico. Berti si proponeva di “far pulizia” nel partito. Intendeva scoprire i collaborazionisti che mettevano in continua difficolta l’organizzazione clandestina del partito in Italia. Era convinto che Donini ed Emilio Sereni fossero due spie. La sua convinzione era basata sui seguenti fatti: Donini era figlio di un generale dell’esercito, era stato allievo di Ernesto Buonaiuti, un sacerdote scomunicato dalla curia, e inoltre aveva soggiornato negli Stati Uniti, tempio mondiale del capitalismo. Sereni era ebreo, da giovane era stato sionista, come suo fratello che era un alto dirigente di quel movimento, il quale, forse a causa dei suoi contatti con i menscevichi russi in esilio a Parigi, anch’essi ebrei, era stato ammazzato dai tedeschi con la complicità dei servizi segreti inglesi.
Berti convocò i due sospettati informandoli che sarebbero dovuti andare a Mosca per una importante missione, dove già erano state inviate le loro biografie. Una volta giunti a Mosca ci sarebbe stato inevitabilmente l’arresto per i due e forse una tragica fine, ma l’Ambasciata russa non rilasciò i visti e Donini, nel suo libro di memorie, sostiene che la segreteria della III Internazionale, forse per intervento di Dimitrov, aveva consigliato all’ambasciata di negare ai due il permesso di entrata, facendoli, di fatto, rinunciare al viaggio. Nel nostro colloquio, invece, diede un’altra versione: mi disse che nel ’56, in un suo soggiorno moscovita, incontrò la Stassova che gli rivelò di essere stata lei a inviare un fonogramma all’ambasciata di Parigi affinché non rilasciasse i visti ai due esponenti del PCI. Mi rivelò anche che lui non aveva mai saputo se quella della Stassova fosse stata una sua iniziativa personale o avesse agito su indicazione di Stalin. Donini propendeva, ovviamente, per questa seconda ipotesi. «Una segretaria non può prendere una tale iniziativa in autonomia», commentò.
Concluse la rievocazione di quei drammatici momenti con un’ultima osservazione.
«Se hai visto “Il sospetto”, il film di Citto Maselli con Gianmaria Volonté, puoi avere un’idea della tragedia dei terribili anni ‘30. La storia racconta di un militante, in odore di eresia che viene mandato in missione in Italia solo per verificare che la rete clandestina sia sicura. Lui capisce di aver fatto da cavia solo quando viene arrestato dalla polizia fascista che tenta, informandolo di essere stato cinicamente utilizzato, di ricavare dal suo interrogatorio qualche informazione. Ma lui ripete solo nome e cognome aggiungendo: “Sono un militante comunista, non ho null’altro da dire”. Sì, Sandro, le condizioni in cui operavamo erano terribili e il sospetto era parte della situazione, era un aspetto permanente della nostra militanza politica».
D’altronde anche Togliatti, come ho accennato, venne nel ’40 sottoposto a un’inchiesta e fu escluso dalle questioni riservate del Komintern. Nel ’41 addirittura fu arrestato dai sovietici per qualche giorno. È una falsità storica la presunta corresponsabilità di Togliatti sullo scioglimento del PC polacco e della liquidazione del suo gruppo dirigente. È ampiamente documentato che egli nel ’37 era in Spagna a dirigere le brigate internazionali e solo nel ’38 andò a Mosca per una sola volta. In quell’occasione avallò lo scioglimento del partito polacco prendendone semplicemente atto. Ma erano passati sei mesi dalla decisione assunta da Stalin nel dicembre del ’37. Del resto, a Davide Lajolo che gli pose la domanda se avesse potuto schierarsi contro i processi del periodo staliniano rispose: «Se lo avessi fatto mi avrebbero ucciso. La storia dirà se era meglio morire o vivere per salvare il partito». Il colloquio è ricordato da Giuseppe Boffa. Ma pochi rammentano che anche Gramsci, nel suo periodo presso il Komintern, ebbe un atteggiamento che Spriano ha definito “anguilleggiante”. In una lettera a Togliatti Gramsci soddisfatto scriveva: «Mi sono guadagnato la fama di una volpe dall’astuzia infernale» giacché doveva essere, si giustificava, molto guardingo su problemi e cose su cui egli era scarsamente informato.
Ma forse l’episodio più divertente fu quando per tre anni di seguito Togliatti fu inviato al Congresso del PC mongolo a rappresentare l’Internazionale. E ogni volta era latore di una elaborata lettera di saluto e di augurio di un vecchio e valoroso comunista mongolo trasferitosi in URSS. Togliatti rimase molto male quando occasionalmente apprese che il carismatico comunista era morto da diversi anni e che le missive erano costruite come pretesto per allontanarlo per un po’ di tempo da Mosca. Togliatti conosceva bene l’ambiente moscovita. Principalmente, proprio per questa sua profonda conoscenza dell’ambiente si oppose energicamente, nel dopo guerra, al tentativo di Stalin di rimuoverlo come Segretario del PCI con il pretesto di designarlo a capo del Cominform. L’operazione fu portata avanti con la complicità di Secchia e D’Onofrio. Tutta la Direzione del partito, con il solo voto contrario di Terracini e l’astensione di Longo, votò la proposta di Stalin, mentre Togliatti era a Mosca per curarsi, dopo una post-operazione alla testa per un ematoma. Togliatti era furibondo. Una volta guarito tornò in Italia, ma nessuno della Direzione tornò sul voto. L’incidente era chiuso, ma da lì la frattura con Secchia si approfondirà, fino a divenire insanabile.
Donini, dopo avermi raccontato alcuni episodi della sua militanza politica da esule (ogni volta che andavo a trovarlo spesso si soffermava a narrarmi significativi momenti della sua lunghissima militanza politica e storie ai più sconosciute del PCI), mi invitò a passare alla Città di Roma per abbracciare da parte sua il povero Robotti in fin di vita e per ritirare la copia del manoscritto destinata a lui. Feci però l’imperdonabile errore di andare a trovare Robotti due giorni dopo, quando la copia di Donini era stata ingenuamente consegnata dallo stesso Robotti a Napoleone, che si era però impegnato con lui a consegnarla al destinatario.
Io, Giampieri e lo stesso Donini inseguimmo per un mese Napoleone tempestandolo di telefonate per entrare in possesso della copia, ma non fu possibile convincerlo. Intanto Robotti era morto. Allora Napoleone rilasciò una dichiarazione alla stampa annunciando che il manoscritto di Robotti era nelle sue mani. Aveva già un accordo con il PCI: avrebbe rotto con Interstampa in cambio di garanzie per la sua attività di editore e, come segno di buona volontà, consegnò originale e copia del manoscritto di Robotti alla Presidenza della Commissione centrale di controllo. Non so che fine abbiano fatto, non so se siano state archiviate o distrutte. Forse è un bene che la vicenda sia andata in questo modo. Quello che è certo è che ci lasciammo con Napoleone in pessimo modo.
Via Chinotto non era più agibile e quindi dovevamo subito trovare una sede per Interstampa e per il Centro culturale che intendevamo costituire. Trovammo dei locali belli e spaziosi in Via Settembrini, vicino a Piazza Mazzini, ma occorrevano soldi e tanti. Cossutta e Donini si dovevano vedere segretamente, ma l’incontro saltò giacché all’anziano storico delle religioni era venuta l’influenza. Allora Laudati mi chiamò al telefono. Mi disse poche parole: «Vediamoci domani alle 10,30 al solito posto. Mi raccomando Sandro, puntualità. Ciao». Il giorno dopo giunse al Portico d’Ottavia con una busta grande, una di quelle per documenti.
«Guarda Sandro – mi informò – dentro ci sono un sacco di soldi, fai attenzione. Ci sono tre buste. Una è per la sede, il Centro culturale e la rivista, che devi consegnare a Donini; la seconda è un fondo per le redazioni locali che dovrai gestire tu; la terza è un contributo per te che copre anche i rimborsi per la tua attività per i prossimi tre mesi. Pianifica bene l’utilizzo di questi soldi perché prima di tre mesi non ne avrai altri».
Immaginavo da dove arrivavano quei finanziamenti ma non dissi niente. Solo qualche anno dopo ebbi la conferma di ciò che avevo intuito vedendo all’opera il Tesoriere della nostra area: Guido Cappelloni.
Con quel bel pacchetto di soldi il divorzio di Napoleone da Interstampa veniva risolto alla grande. Si ponevano le basi per un rilancio della rivista come strumento di organizzazione della nascente area cossuttiana. Interstampa dunque fu fondata su iniziativa di un gruppo di dirigenti storici del PCI e di intellettuali, quasi un anno prima che esplodesse il “caso Cossutta”. Un gruppo di personalità tutt’altro che legate a Cossutta.
Un ruolo importante lo svolse il gruppo milanese e lombardo di Interstampa che ha confermato, nel corso degli anni, di avere una sua autonomia politica da Cossutta. L’area cossuttiana a Milano solo formalmente ha avuto come leader Cossutta, nella sostanza ha sempre avuto come punto di riferimento questo gruppo della “sinistra storica” del PCI. Quella che per anni è stata considerata la Federazione e roccaforte di Cossutta in realtà ha sempre avuto una propria identità, pur sostenendo con grande impegno e lealtà le posizioni e le battaglie del “capo”.
Occorre anche dire che Interstampa era in qualche misura figlia, come più volte mi narrava Donini, di un progetto, che rimase sulla carta, elaborato molti anni prima e che aveva come principali animatori figure leggendarie del PCI: Pietro Secchia, Edoardo D’Onofrio, Paolo Robotti e lui stesso. Si trattava di dar vita a una rivista in competizione con Il Manifesto, soprattutto se i suoi promotori non fosse stato radiati dal PCI.
Una parte di quel progetto fu realizzato dal gruppo lombardo che diede vita successivamente insieme a Donini a Interstampa. Nell’ottobre del 1979 esce il volume della Cooperativa Editrice Aurora, Cina, Viet Nam, Cambogia all’origine dei conflitti, il primo di una lunga serie di fascicoli. La cooperativa, composta prevalentemente da soci militanti del PCI in dissenso con le sue scelte di politica estera, fu il primo passo visibile e pubblico di quel lungo processo politico di aggregazione dell’area. La Cooperativa Editrice Aurora sarà poi, con il trasferimento di Interstampa a Milano, l’editore della rivista.
La radiazione del gruppo che aveva dato vita alla rivista Il Manifesto fu determinata pertanto anche dalla valutazione – come ha ricordato Rossana Rossanda – che a questa “iniziativa editoriale” potesse seguirne un’altra, promossa dalla “sinistra storica”, filo sovietica, allora molto forte nel Comitato Centrale. Il gruppo dirigente del PCI preoccupato che si potesse minare l’unità del partito ammettendo con la pubblicazione di più riviste – di fatto – le correnti, maturò la decisione, dopo sei mesi dall’uscita del primo numero della rivista, di radiare il gruppo de Il Manifesto. Aveva, nel frattempo, acquisito due importanti obiettivi: la presa di distanza di Ingrao da Il Manifesto e la garanzia di Secchia, D’Onofrio, Robotti e Donini che non avrebbero dato vita ad un’altra pubblicazione se Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda fossero stati radiati dal PCI.
Il “nucleo storico” di Interstampa viene dunque da “lontano”, da un’opposizione sotterranea ma dura alle scelte internazionali del gruppo dirigente del PCI, almeno dalla fine degli anni ‘70 in poi. Tra i fondatori della rivista, oltre ad Ambrogio Donini, Alessandro Vaia e Arnaldo Bera, vi sono: Giuseppe Angelini, Adelio Albarello, Alfio Caponi, Giulio Cerreti, Paolo Cinanni, Otello Nannuzzi e Paolo Robotti. Aderiscono alla rivista intellettuali di prestigio come: Aldo Bernardini, Ettore Biocca, Alfonso Di Nola e Ludovico Geymonat e personalità come Nino Pasti. In seguito, dopo il divorzio con l’editore Roberto Napoleone, aderiscono: Renato Scionti, Ruggero Spesso e Giovanbattista Gianquinto; e un altro gruppo di intellettuali: Umberto Carpi, Alessandro Mazzone Giovanni Bacciardi ed Enzo Santarelli. Direttori della rivista, in questo periodo, sono Sirio Sebastianelli (partigiano ed ex giornalista de L’Unità) prima e Giacomo Adduci (che era stato dirigente nazionale della CGIL) dopo. Proprietario della rivista è l’indipendente Nicodemo Boccia, e l’amministratore Armando Giampieri. Sono nomi pesanti che esprimono, con la nascita di Interstampa, la loro aperta e pubblica opposizione a Berlinguer. L’incontro e l’intesa con Cossutta sono nelle cose. Egli ha bisogno infatti di costruire una “rete organizzativa” per condurre la sua battaglia. Nel Comitato Centrale ha il sostegno solo di Guido Cappelloni e di Luigi Ciofi Degli Atti e di Domenico D’Onchia nella Commissione Centrale di Controllo e di pochi dirigenti periferici. Troppo poco per affrontare un durissimo scontro politico in vista del Congresso, per passare nelle maglie strettissime del “centralismo democratico”.
È questa una fase poco nota della vita della galassia cossuttiana e di Interstampa, composta da secchiani, da amendoliani, da “vecchi stalinisti” e militanti delle formazioni m.l. legati tutti ai valori della rivoluzione d’Ottobre e al filo-sovietismo. Ovviamente non era ancora un’area politica, lo diventerà col tempo, più avanti, con l’Associazione Culturale Marxista e con ‘adesione alla stessa di intellettuali di valore, come Gian Mario Cazzaniga e Luigi Pestalozza. Quello dei primi anni di vita di Intertampa è un periodo di incontri segreti e di riunioni clandestine, di documenti e appunti riservati. Nella maglia disciplinare del PCI, con l’accusa di frazionismo, cadono Fausto Sorini, dirigente della Federazione di Cremona e l’ex parlamentare di Verona Adelio Albarello, dirigente storico del movimento operaio del Veneto, prima del PSIUP e poi del PCI. Tutti e due, a norma dell’articolo 54 dello Statuto, furono rimossi dai Comitati Federali e subirono una sospensione del partito di sei mesi. Occorreva perciò la massima vigilanza e cautela. Chi scrive, giovane comunista vicinissimo a Cossutta, fu inviato da questo a collaborare con Interstampa e a divenire il “braccio destro” di Donini per garantire un collegamento tra l’anziano leader, e lo stesso Cossutta.
Non è esatto dire, come altri hanno scritto che Interstampa fu soprattutto espressione del gruppo milanese e lombardo. Questa ricostruzione è parziale. Certamente, il ruolo di Alessandro Vaia e Giuseppe Sacchi a Milano e di Arnaldo Bera a Cremona fu molto importante. Inoltre, nel capoluogo lombardo, proprio sotto la direzione di Giuseppe Sacchi, operava un gruppo numeroso di quadri operai fortemente radicati sia nella CGIL e sia nella Federazione del PCI, come Saverio Nigretti, Aurelio Crippa, Graziella Mascia, Ione Bagnoli, Bruno Casati, Enzo Jorfida e Sergio Ricaldone; questo gruppo era un punto di forza dell’area cossuttiana. È errato però sottovalutare il ruolo di Donini, una delle figure di intellettuale e di dirigente del PCI di maggiore spicco, che tra l’altro aveva anche notevole esperienza internazionale.
Senza Donini Interstampa sarebbe stato un fenomeno prevalentemente milanese. Senza il suo apporto, intellettuali come Geymonat, Biocca e Di Nola o personalità come Pasti, o dirigenti leggendari del PCI, come Robotti, non avrebbero aderito alla rivista. Questa opinione l’ho espressa con forza nel libro La Vecchia talpa e l’araba fenice che suscitò, quando uscì, alcune critiche. Di questa opinione ne ero convinto allora e ne sono ancora più convinto oggi. Il ruolo di Donini fu decisivo. Senza il suo formidabile impegno non si sarebbero stabiliti da subito collegamenti con gruppi di militanti un po’ in tutta Italia e non si sarebbero attivate, ad esempio, a sostegno della diffusione di Interstampa una serie di segretari di Sezioni importanti della Associazione Italia-Urss, come Gian Carlo Carena a Genova, Carlo Pellegrini a Udine, Luigi Marino a Napoli e Giacomo Lucarelli a Bari, Segretati spesso che non erano di formazione secchiana. Certamente il centro romano non era organizzato come quello milanese, ma non si può ridurre tutto a un fatto organizzativo; l’influenza di Ambrogio Donini, per storia, cultura e prestigio fu fondamentale su tutto il movimento che ruotava nazionalmete attorno alla rivista.
Il centro romano di Interstampa, costituito sia dalla Redazione Nazionale della rivista e sia dal “Centro Culturale Interstampa”, coordinato da Enzo Santarelli, in via Luigi Settembrini, non fu organizzato e strutturato come quello di Milano. Riuscì però, tra tanti limiti politici ed organizzativi, a dare un impulso importante alla costruzione di una rete nazionale intorno alla rivista. Redazioni regionali di Interstampa, con tanto di sedi, furono costituite un po’ ovunque: Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Campania, Puglia, Calabria; redazioni che erano dirette da un gruppo di giovani: Mauro Gemma, Luca Corsi, Gilberto Gambelli, Enzo Pernigotti, Dario Marini, Giuseppe Turturo, Leonardo Masella, Claudio Grassi, Alessandro Leoni, Saverio Fortunato, Fosco Giannini, Franco Iachini, Fabio Grieco, Vincenzo Siniscalchi, Sergio Manes, Rodolfo Vaccarelli e Alessandra Romeo. La rivista, con l’ingresso di queste nuove energie, divenne rapidamente un piccolo laboratorio politico. Si discuteva molto sul destino del PCI, sull’attualità del leninismo, sul che fare.
Attorno ad Interstampa si ramificò un’area culturale-politica che sarebbe sbagliato ridurre a componente del PCI. Intanto perché nel PCI le correnti non erano ammesse e quindi per non essere considerati “frazionisti” e non incorrere in provvedimenti disciplinari, le riunioni e le iniziative della rivista o le assemblee locali degli abbonati erano aperte anche ai non iscritti al PCI.
La presenza, tra l’altro, nella Direzione della rivista, di intellettuali e personalità non aderenti al PCI garantiva proprio questa impostazione. Importante, in questo senso, fu il contributo di alcuni giovani non iscritti al PCI, alcuni dei quali provenienti dall’esperienza di Ottobre (quotidiano vicino al PCd’I) come Antonello Obino a Milano, Ruggero Giacomini ad Ancona, Sergio Manes a Napoli e Maurizio Nocera a Brindisi.
Interstampa nacque dunque non come espressione di un’area culturale e politica e si trasformò negli anni come componente leninista del PCI sotto l’impulso politico di Cossutta e l’autorevolezza culturale di Donini. E proprio nel corso di questa trasformazione da area di resistenza culturale, contro la deriva del PCI e la sua mutazione genetica, a soggetto politico che nasceranno i problemi che porteranno poi, nel corso del tempo, a modeste scissioni, oggi dimenticate dalla storia. Ma questo è un altro capitolo. E questo movimento, prima di resistenza culturale e poi come soggetto politico, sarà la parte decisiva di quella che in seguito si trasformò in area cossuttiana del PCI, che condurrà la battaglia contro la svolta della Bolognina e fu decisiva per la nascita del PRC. Se Armando Cossutta, per un lungo periodo, è stato il leader indiscusso di questa area, Ambrogio Donini ne è stato il padre nobile, anche se oggi, sono pochi a rammentarlo, poiché purtroppo morì poco dopo la nascita del Movimento per la rifondazione comunista, pienamente soddisfatto di aver dato il suo contributo, da intellettuale rivoluzionario, al costituente partito in fieri.
di Sandro Valentini