L’uberizzazione del lavoro: sfruttamento e assenza di diritti
Le città sono in quarantena, ma li vediamo comunque per le strade, cubi in spalla e spesso con mezzi di fortuna. Sono i riders, i lavoratori che giornalmente si occupano di consegnare cibo nelle nostre case, e non solo – a volte fanno pure la spesa, consegnano farmaci e altri beni. Il meccanismo è apparentemente semplice: sei “collaboratore” di una grande multinazionale, che ti vende le dotazioni e ti dà la possibilità di metterti a disposizione per ricevere ordinazioni di ogni tipo.
Nonostante le apparenze, dietro ciò si nasconde un intenso sistema di sfruttamento, che non si preoccupa di nascondere il suo vero volto durante questa pandemia. Le aziende del settore, infatti, non garantirebbero nemmeno le dotazioni minime di sicurezza. È importante conoscere il funzionamento di questo settore, così come le lotte e le rivendicazioni dei riders, che chiedono diritti e sicurezza. Partiamo con ordine.
Un ritorno all‘800: l’uberizzazione del lavoro
La caratteristica principale dei riders è che tecnicamente non si tratta di lavoratori dipendenti, ma vengono considerati collaboratori delle multinazionali per cui lavorano. Per questo motivo, in riferimento al settore viene spesso accostata l’espressione “uberizzazione del lavoro”. Uber è una grande multinazionale che ha completamente rivoluzionato il mondo del trasporto privato: negli Stati Uniti (in cui l’applicazione di Uber è molto utilizzata) non chiami un taxi, hai una mappa digitale che ti segnala l’Uber-driver più vicino a te. Le definizioni in ogni caso si sprecano: c’è chi parla di “gig economy”, chi di “sharing economy” e chi di “platform work”.
La cosiddetta uberizzazione si riferisce, dunque, a un sistema che mette direttamente in relazione un cliente e un fornitore di servizi attraverso un’applicazione o un’altra piattaforma.
Il settore dei taxi è quello più esemplificativo, ma ciò viene ormai applicato anche nell’ambito del food-delivery. Il rider riceve l’ordinazione, la ritira al locale, la consegna al cliente, cedendo una percentuale all’azienda e al ristoratore.
La natura digitale della dinamica, inoltre, ha contribuito al diffondersi di questa tipologia di prestazione lavorativa: in Italia sono 50mila i riders. Molti sono ragazzi che vogliono arrotondare, ma anni e anni di politiche di precarizzazione del lavoro hanno portato anche lavoratori più avanti con l’età, rimasti disoccupati, a ripiegare sulle consegne. Fra i principali colossi nell’ambito troviamo la spagnola Glovo e le inglesi Just Eat e Deliveroo – c’è anche Uber, con Ubereats. In Italia sono tutte riunite in Assodelivery, l’associazione padronale di categoria.
La forma di pagamento è generalmente a cottimo, per cui si viene sostanzialmente pagati per ogni consegna effettuata. Alcune aziende, come Deliveroo, hanno introdotto forme ibride che prevedono una paga minima oraria (che non supera i 4 euro) con l’aggiunta della retribuzione per la consegna – d’altra parte, molti lavorano anche 10 ore al giorno, che è il minimo per poter campare decentemente. Questo ci fa comprendere quanto sia importante il tempo per un rider, anche a costo di mettere a rischio la propria sicurezza.
Spesso i lavoratori non vengono pagati nel tempo di attesa fra una consegna e l’altra, e si trovano dunque a sfrecciare per le strade delle nostre metropoli per fare più consegne possibili, il che ha portato più volte a vere e proprie morti sul lavoro: un esempio sono le storie di Maurizio Cammillini, morto a 29 anni a Pisa, e Alberto Piscopo, 19enne morto a Bari.
Nonostante ciò, le aziende hanno spesso ignorato la questione, incentivando anzi i rider a consegnare anche in condizioni di forte maltempo, promettendo aumenti di un euro (!).
Come se non bastasse, i lavoratori sono gestiti da un algoritmo che seleziona quelli più “efficienti”, attraverso un sistema che viene definito di ranking reputazionale. In base al numero di consegne effettuate e alla frequenza con cui si dà disponibilità, ci sono alcune persone che possono essere totalmente tagliate fuori dall’algoritmo. Di conseguenza, è proprio nel periodo iniziale che bisogna correre di più, per poi mantenersi in un regime di competizione con gli altri rider per avere una buona posizione nella classifica.
Le rivendicazioni dei riders ai tempi del Covid-19
È evidente che siamo davanti a un sistema di sfruttamento al limite della distopia, attraverso cui i padroni del settore scaricano il rischio d’impresa sui lavoratori, garantendosi enormi profitti. Questa situazione è ancora di più evidente in piena pandemia, con le aziende che non garantiscono le misure minime di sicurezza.
L’Ordine Nuovo ha potuto parlare con Lorenzo, di Riders Union, assemblea autoconvocata di riders che ha svolto il ruolo di vero e proprio soggetto di riferimento per questa categoria di lavoratori. Lorenzo in particolare lavora a Bologna.
– Ciao Lorenzo. In che modo questa emergenza ha impattato su di te e i tuoi colleghi?
Quando in Italia sono iniziate le misure di contenimento sociale, io, come molti ragazzi, non abbiamo preso sul serio la questione, complice la noncuranza dell’azienda. All’inizio ci sembrava una scusa per trattarci un po’ di merda, praticamente eravamo considerati degli untori. D’altra parte, per il lavoro che facciamo siamo molto esposti al contagio, se sprovvisti di adeguate protezioni. Quando la situazione si è aggravata, abbiamo lanciato una campagna social per premere sul tema del reddito di quarantena anche per noi. Gli ordini non erano sufficienti, non si guadagnava abbastanza per vivere. Tuttavia, la campagna si è arenata, visto anche il mezzo social che da solo ha i suoi ovvi limiti.
– E le dotazioni di sicurezza minime? Le aziende non vi hanno fornito nulla?
Per quanto riguarda le dotazioni, in un certo senso c’è stato un tira e molla. All’inizio eravamo costretti a comprare tutto noi, poi, dopo aver fatto pressioni, ci hanno detto “compratele voi che vi rimborsiamo”. Il problema è che per legge il rimborso massimo che è possibile fare in questi casi è di 25 euro, quindi si sono dovuti rendere disponibili a spedire le dotazioni, ma in quantità insufficienti. Sostanzialmente, sono arrivate delle buste contenenti una mascherina e un paio di guanti. Nella pratica, quindi, continuiamo a proteggerci di tasca nostra. La questione è di primaria importanza, perché ultimamente c’è stato un boom di ordini. Ultimamente consegniamo davvero di tutto, non solo cibo.
– Spostandoci un attimo da questa questione, ci puoi raccontare come siete organizzati?
Qui a Bologna c’è Riders Union, poi ci sono altre esperienze simili a Milano, Roma e altre grandi città, e ne sono sorte altre che operano più che altro nella sfera dei sindacati confederali, soprattutto a Firenze e Napoli. Per quanto riguarda Riders Union, che esiste dall’ottobre/novembre 2017, siamo un’assemblea autoconvocata di riders, quindi non siamo un vero e proprio soggetto sindacale. In ogni caso, nei limiti della nostra parzialità, noi il nostro abbiamo provato a farlo, in alcuni casi riuscendoci.
– Ad esempio? Quali sono le conquiste che siete riusciti a ottenere?
Oltre ad aver aperto percorsi di mobilitazione fra i lavoratori della nostra categoria, fra i risultati contiamo la Carta dei diritti del lavoro digitale di Bologna, che è un regolamento metropolitano che sancisce una serie di diritti minimi agli operatori del food delivery, ma anche in generale per chi lavora tramite piattaforma. Fra le varie cose, c’è il divieto di cottimo, a favore di un salario minimo agganciato ai contratti collettivi nazionali di categoria (che nel nostro caso sono quelli della logistica); un’assicurazione infortunistica; divieto di ranking e una serie di diritti sindacali, fra cui il diritto ad avere un’assemblea retribuita da parte dell’azienda.
– Ai tempi siete stati chiamati pure dal Ministero del Lavoro.
Sì, dopo pochi giorni che è stata firmata la Carta di Bologna siamo stati chiamati dal Ministero del Lavoro per discutere di una possibile legge che garantisse il riconoscimento del lavoro dipendente per i riders. Da quel famoso incontro, nonostante le rocambolesche dichiarazioni iniziali del Ministro, siamo riusciti a ottenere soltanto una piccola conquista, ovvero l’estensione dell’art. 2 del decreto legislativo 81/2015, che riconosce ai collaboratori etero-organizzati, cioè a tutte quelle forme di lavoro subordinato “nascoste”, i diritti del lavoro dipendente.
– Quali prospettive avete in vista della cosiddetta fase 2?
Non essendoci mai fermati, le prospettive sono le stesse che avevamo durante la fase 1, ovvero lottare per garantire sicurezza sul lavoro. Per il resto, quando i decreti lo permetteranno, organizzarci quanto prima in assemblea per continuare la lotta.
Ignazio Terrana