Musica popolare e militanza di classe: intervista a Giulia Anania
Nel recente – e consigliato – “Gramsci 44”, film che racconta i quarantaquattro giorni di prigionia del segretario del Pcd’I all’Asinara, l’intellettuale torinese rappresentato da un ottimo Peppino Mazzotta decide, insieme agli altri esuli, di fondare una scuola popolare per i prigionieri e per i locali. Riflettendo ad alta voce condivide con gli altri insegnanti una interessante riflessione sull’alfabetizzazione scolastica, capace di essere vissuta persino come un’imposizione delle classi dominanti se viene scaricata su una società in cui il dialetto era più che sufficiente per vivere le proprie dinamiche quotidiane. Un passaggio cruciale, questo, che ci siamo trovati a commentare nell’ambito del colloquio con la nostra intervistata: “L’ho visto eccome quel dialogo di cui mi parli”, mi racconta, “e l’ho trovato commovente. Ho anche letto il libro che raccoglie le lettere inviate da Gramsci in quel periodo, una delle più interessanti letture dell’ultimo anno”.
Giulia Anania, classe 1984, ha all’attivo un album e quattro singoli, più una miriade di collaborazioni anche con grandi nomi della scena pop e una partecipazione al festival di Sanremo. È una cantautrice popolare romana e varrà la pena da subito soffermarsi su questo aggettivo. “La canzone in dialetto”, spiega Anania raggiunta al telefono, “ha dalla sua la bellezza profondamente politica di non far sentire a chi l’ascolta la supponenza. Io credo che la potenza del popolare, che per me unisce Laura Pausini, gli stornelli e il rap, è l’avere un linguaggio che non mette chi lo pronuncia su di uno scalino, che ha la potenza di essere estremamente poetico e di poter arrivare a tutti. È capace di parlare prima agli ultimi e di saper parlare degli ultimi – penso alla canzone popolare romana, fatta di storie di malavita, episodi di coltello, della vicenda della popolana salva il bimbo di una nobile per poi crepare miserrima. Gianni Rodari, Italo Calvino, Gian Maria Volonté: è quello spirito che abbiamo perso negli ultimi anni. Erano delle persone che non si erano mai scollate dalla loro origine e dalla loro parte, erano diventati degli attori da Oscar ma erano rimasti incollati alle persone. Gabriella Ferri era una che incontravi al mercato. non si era allontanata e la gente la chiamava, la incontrava. Questa attitudine serve, è importante prima di tutto per noi, per gli artisti: poter osservare quello che accade e viverlo veramente”.
Da sempre animale da eventi militanti, da concerti in solidarietà, feste politiche e iniziative sociali, per la festa dei lavoratori Anania ha lanciato sui social una catena di sensibilizzazione: “Per il primo maggio” si legge su Facebook, “ giornata dei lavoratori e di chi il lavoro non ce l’ ha, dei precari, degli sfruttati e dei tanti che muoiono di lavoro – voglio fare delle proiezioni diffuse su palazzi e cantieri di questa poesia di mio padre Vincenzo Anania; che da giudice si battè molto per le prime leggi sulle morti bianche. La poesia letta da Federico Pacifici si unisce alla mia canzone, “il Volo”. Il video è già pronto; ed è una chicca; deve solo essere trasmesso da chiunque voglia farsi tramite di questa emergenza”: e decine sono state le “proiezioni corsare”, soprattutto nella città di Roma che Anania vive e conosce in profondità da anni.
“In questi anni la pecca che io ho visto negli ambienti militanti, fra compagni insomma”, racconta, “è stata il trascurare il dibattito non specifico, ovvero pensare che solo con un alto livello di consapevolezza si potesse avere una militanza credibile.
Io rimango invece convinta che prima di tutto conta quello che unisce: la sinistra istituzionale, socialdemocratica si è definitivamente suicidata in vari passaggi, fra cui per me ha spiccato il rinunciare ad investire sulle feste politiche. Riunire le persone, creare una convivialità è invece un atto politico. Questo è quel che io continuo a provare e in questo modo mi accorgo che le persone, soprattutto nelle famose “periferie”, sono molto meno peggio di come ce le vogliono raccontare”.
“Ci sono degli spazi lasciati liberi, c’è una trincea che arretra”, continua: “Prima i centri sociali erano una risorsa interessante, ora sono segregati nei loro tic e nei loro micromondi: principalmente vedo che si tramutano in locali, fanno più che altro feste o non fanno niente; non voglio poi generalizzare ma vedo la droga tornare protagonista anche in quegli ambienti. Poi c’è tutta una corrente pseudomilitante, una serie di compagni che prima ti chiamavano – “Giulia suoni per me in questa iniziativa, vieni qua, vieni là” – e che adesso vedo invece molto…ben abituati, come dire; li vedo pretendere da parte dell’artista “amico”, “di area”, una serie di favori, salvo poi chiamare il super Vip che fa biglietto quando saltano fuori due soldi.
Questa deriva va di pari passo con una tendenza che riscontro anche nelle mie strette conoscenze, in una serie di miei amici storicamente militanti che hanno iniziato ad autoescludersi, a rifugiarsi nel nichilismo e in uno stadio pre-politico dove l’attività prevalente è il vedere le serie tv. Continuando io invece a fare spettacoli mi accorgo che il mondo che abbiamo lì fuori non è così perso. Ti accorgi che la nostra gente è stata abbandonata lì, nei quartieri; e se noi non stiamo lì, quella gente non guidata e lasciata senza sogni è ovvio che si affiderà ad altri, ad esempio ai fascisti che si impadroniscono di certi temi a noi cari. Se le cose vanno così noi rimarremo ancora a lungo noi in un mondo di merda e io non questo non lo voglio”.
Sarebbe però necessario un soggetto, una forza trainante che si faccia promotrice di questa azione mirata; i tanti che cercano di tenere alte le bandiere lo fanno, spiega l’artista, “a titolo personale, pieni di buone intenzioni ma senza riferimenti, disorganizzati. A oggi io non posso dire che ci sia un committente, una forza credibile, un centro a cui fare riferimento per coordinare le battaglie che dobbiamo fare. Le mie parole d’ordine rimangono certamente l’antifascismo, l’antirazzismo e la ferma volontà di non abbandonare in nessun luogo i nostri temi importanti, dal centro alle periferie”.
A una mancanza di organizzazione non può non collegarsi il problema reale, stringente e urgente, del concreto lavorare per chi fa cultura: “Il mondo dello spettacolo è il mondo dei precari, come tanti altri mondi”, spiega l’artista che ha calcato centinaia di palchi nella sua vita: ”I volti che piacciono alle Tv dal loro attico ci spiegano che è importante “rimanere a casa per il Coronavirus” mentre una massa di lavoratori che non ha albi, non ha riconoscimenti, non ha giustificativi perde entrate e potere di acquisto. Io dovevo andare per lavoro in un certo posto ma non sono andata, se al posto di blocco mi avessero fermato le forze dell’ordine non avrei saputo cosa scrivere sul foglio. I tecnici, gli attrezzisti, i lavoratori dei palchi sono lievemente più tutelati ma tutta la comunità dei lavoratori dello spettacolo vive di impieghi intermittenti, per cui tu lavori come un matto magari per tre mesi e per i successivi cinque non fai niente. Servirebbe una possibilità di sostegno salariale per questa intermittenza, come in altri paesi pure è prevista”.
In questa situazione prossima al ricatto per chi lavora nella musica e produce cultura, spiega Anania, qualsiasi linea di impegno anche vagamente sociale tende a venir completamente espulsa dal discorso dell’arte mainstream, con fortissimi incentivi anche all’autocensura: “Ti racconto questo: dovevo suonare al primo maggio qualche anno fa, e dovevo portare proprio questa canzone, Il Volo, che parla di morti sul lavoro, di morti bianche: appena è stato letto il testo, seccata, seccata immediatamente. Non male per essere il concerto della festa dei lavoratori direi. Io poi scrivo per molti artisti e spesso può capitare che se propongo un tema, per così dire, impegnato, ci sia un fortissimo timore di essere attaccati; a volte insieme con l’artista decidiamo di scardinare questa paura, ma in generale diventa sempre più raro e difficile essere artisti che vogliono comunicarsi rimanendo integri e radicali, senza cedere a compromessi. La chiave mi sembra allora il tenerci vicini fra di noi, formare una rete molto consapevole e organizzata e rifiutare la competizione interna all’ecosistema artistico – che è fortissima. Suonare negli studi medici, nelle botteghe dei fornai e nei cantieri, per i muratori”.