Padova, specializzandi in sciopero contro accuse su diffusione Covid
Piuttosto curiosa la teoria recentemente espressa da Daniele Donato, direttore sanitario dell’Azienda ospedaliera di Padova, secondo cui gli specializzandi avrebbero favorito la diffusione del contagio da Coronavirus “nei momenti di socializzazione al di fuori dell’area assistenziale”: il dirigente, parlando durante un webinar riferito alla chirurgia plastica in libera professione – dunque che nulla aveva a che fare con l’attuale situazione epidemica – ha inteso definire gli interns dell’ospedale patavino “i soggetti che nel momento in cui si inseriscono nell’ospedale creano maggior pericolo”.
Luca Zaia, Presidente della Regione Veneto, ha detto che tali parole potevano forse essere state causate “da fretta, da stanchezza, da tempeste mentali ad alta voce”, ritenendo comunque necessarie delle pubbliche scuse che sono arrivate da parte del direttore Donato, dopo le proteste dell’Ordine dei medici e delle associazioni degli specializzandi; ci chiediamo, invece, se affermazioni del genere non servano a coprire altri “buchi” nella sicurezza dell’ambiente ospedaliero, che sono magari dipesi da tutt’altro genere di necessità: in ogni caso gli specializzandi padovani, che a partire da domani hanno annunciato uno sciopero delle prestazioni non essenziali, le hanno definite “patetiche e insufficienti”.
L’Ordine Nuovo hapotuto parlare con i lavoratori dell’ospedale di Padova. I medici ci raccontano che dallo scoppio dell’epidemia a fine febbraio le attività ordinarie sono continuate per una settimana abbondante seguendo le procedure standard, in attesa di disposizioni da parte dei vertici dell’azienda ospedaliera – compreso dunque il mancato spostamento di tutti gli interventi non urgenti. In quei giorni le “procedure standard” presumevano fino a prova contraria che i pazienti (tranne, ovviamente, quelli ricoverati nel reparto di malattie infettive o in rianimazione) non fossero infetti, e che quindi per assisterli non si prevedesse la distribuzione di DPI al personale preposto: questo pur sapendo che molte delle attività ordinarie (spesso eseguite direttamente dagli specializzandi) fossero fin da quei giorni a rischio di creazione di aerosol (le “droplets”, o goccioline, individuate come principale veicolo del contagio da Coronavirus).
Gli specializzandi di Padova, impiegati nello svolgimento delle attività ospedaliere ordinarie, sono stati potenzialmente esposti al rischio di contagio senza DPI per più di una settimana, in attesa che i vertici dell’AO padovana interrompessero il flusso ordinario di attività sanitaria.
Quando poi sono stati modificati i protocolli e inseriti i “reparti Covid” molti specializzandi hanno scelto di prestarvi servizio su base volontaria, favoriti anche dalla riduzione delle attività ordinarie – ad esempio, specializzandi di pediatria o di medicina interna sono stati dirottati verso le malattie infettive. Sono stati comunque assunti specializzandi ulteriori con contratti a tempo determinato, per sopperire alla carenza di specialisti: grazie alla presenza di questi giovani medici l’azienda ha potuto evitare di assumere ex novo un gran numero di specialisti. Ancora: le quantità di DPI distribuite sono state insufficienti per tutto il personale, soprattutto per i sanitari che operavano con pazienti non Covid e che però eseguivano comunque procedure ad alto rischio; e ciò ha sottoposto medici e personale sanitario al pericolo di non essere sufficientemente tutelati dall’infezione. Non serve accennare allo stress a cui specializzandi e medici erano già comunque caricati grazie ai turni lunghissimi a cui erano tutti sottoposti, senza interruzioni di sorta per mangiare o per andare in bagno, in quanto liberarsi della “bardatura” di protezione prevede la sostituzione integrale della stessa, impensabile in mancanza di scorte sufficienti.
In sostanza, gli specializzandi di Padova, come in molte altre aziende ospedaliere del paese, sono di norma trattati come le ultime ruote del carro. Se la dirigenza ospedaliera è tanto preoccupata degli spazi comuni in cui gli specializzandi “socializzerebbero in maniera indebita” potrebbe preoccuparsi di dotarli di apposite e ampie stanze per mangiare nel rispetto delle distanze di sicurezza, visto che gli specializzandi, come d’altronde gli strutturati, spesso si prendono qualche minuto di pausa in spazi molto piccoli e a contatto ravvicinato.
Il tutto ovviamente si inserisce in in una situazione già compromessa dal punto di vista del personale.
In un quadro nazionale in cui dal 2009 al 2016 abbiamo perso 9 mila medici, e in cui entro il 2028 perderemo oltre 47mila specialisti, di cui mille chirurghi entro il solo 2020, il SSN poggia pesantemente sulle spalle degli specializzandi, che in molti casi (e Padova non fa eccezione) garantiscono il funzionamento di interi reparti, spesso sostenendo orari che vanno ben aldilà delle 38 ore – didattica inclusa – previste dal contratto di formazione specialistica secondo l’art. 37 del Dlgs 368/99: non è raro che si arrivi al doppio della cifra indicata.
Questo surplus di ore, senza tralasciare il sovraccarico di stress cui sottopone gli specializzandi, da un punto di vista economico non viene valutato come “straordinario”, non essendo questo contemplato in un contratto con caratteristiche tipiche della borsa di studio. Inoltre, Toscana ed Emilia Romagna sono ad oggi le uniche regioni in cui gli specializzandi sono stati inclusi nel contributo economico previsto per gli operatori sanitari coinvolti nell’emergenza Coronavirus. In tutte le altre regioni – Veneto compreso – gli specializzandi risultano ad oggi esclusi, sebbene si trovino in prima linea a fianco degli altri operatori sanitari.
In questo bel contesto, insomma, i giovani medici vengono pure bollati come pericolosi per l’ospedale che, senza di loro, non durerebbe un giorno. In una situazione di sfruttamento, precarietà, pericolo di contagio e mancato riconoscimento economico dei propri sforzi, nonostante la professionalità e l’impegno profuso da questi ragazzi è inaccettabile che essi vengano addirittura bollati di assumere atteggiamenti infantili e pericolosi per i colleghi e per le strutture sanitarie in cui essi operano, soprattutto se tali accuse servono a individuare il capro espiatorio utile a distogliere l’attenzione da responsabilità di ben altro spessore.