Pensare la fase 2 delle lotte: incostituzionalità e contraddizioni giuridiche delle norme anti-covid
L’attività dell’Ordine Nuovo è iniziata nel pieno della pandemia, in un contesto di riduzione dell’attività politica tradizionale e in preparazione di una fase di lotte alle porte. Tra i compiti che ci siamo assegnati c’è quello di contribuire al dibattito fornendo materiali di analisi utili anche sotto un profilo tecnico (sia esso economico, storico, giuridico ecc…) che facciano avanzare parallelamente alla coscienza di classe, le capacità effettive di lotta dei lavoratori e delle organizzazioni di classe. Fornire dunque strumenti e contributi per delineare percorsi di lotta in una fase di grande arretratezza soggettiva e allo stesso tempo di necessaria riorganizzazione dei comunisti e di un fronte di classe.
Il compito di oggi è abbastanza ostico e risponde alle richieste di molti compagni. Abbiamo detto più volte che esiste un punto di incontro tra la responsabilità nell’evitare la diffusione del contagio e la crescita della curva della conflittualità sociale per il carattere di classe delle scelte governative sulla gestione della crisi. In questo contesto diviene fondamentale comprendere quali sono le “forzature” possibili al sistema di chiusura dell’attività politica e in particolare delle manifestazioni. La premessa necessaria quando dall’ambito politico si entra in quello giuridico è che per noi comunisti questi due elementi non comunicano: le categorie del primo non sono quelle del secondo, che non è elemento neutrale, ma espressione degli interessi della classe dominante. Quando si parla del conflitto di classe il diritto è prevalentemente strumento della repressione. Non bisogna quindi cedere all’idea di fare la lotta di classe con le norme, perché questo è semplicemente impossibile.
Altro – e questo è l’ambito in discussione oggi – è interrogarsi su come utilizzare le contraddizioni del diritto borghese, per trovare spazi di maggiore copertura legale del conflitto sociale. In questo ci assistono due elementi: la contraddizione formale tipica di ogni ordinamento liberale che enuncia formalmente dei principi generali per poi tradirli nella sua applicazione pratica, generando con ciò una contraddizione ben nota ai marxisti. La seconda tipica della nostra condizione è la presenza di una Costituzione, fonte gerarchicamente sovraordinata ad ogni legge ordinaria, che seppure rientrante in una visione liberal-democratica, è espressione di rapporti sociali più avanzati di quelli odierni ed ha affermato alcuni principi particolarmente avanzati nel contesto di una società capitalistica, che entrano spesso in contraddizione con le esigenze nazionali e internazionali del capitale nella nostra fase.
Lo scopo dell’analisi è politico: fornire strumenti di lettura per concepire forme di lotta che comportino il minore spazio alla repressione possibile. L’ottica che sarà utilizzata – attenendo a un’analisi di diritto – non è politica, ma necessariamente giuridica e quindi svolta sulla base di categorie tipiche di un sistema di carattere liberal-borghese. In poche parole un’analisi finalizzata a uno scopo di classe, ma svolta sul terreno dell’avversario di classe.
A scanso di equivoci, ciò non esclude la scelta – politica – e consapevole di forme di lotta che oltrepassano i limiti della legalità in questo contesto. Questa è una questione di scelte politiche, che esula da questa trattazione, il cui unico scopo è ragionare su quali “forzature” siano possibili sulla base delle norme costituzionali, delle contraddizioni del sistema delineato dalle norme del Governo per la gestione della pandemia, dando spunti utili per chi voglia promuovere forme di conflitto in una fase iniziale di ritorno alla “normalità” evitando che la scure della repressione possa agire con più forza.
Ovviamente le norme per la pandemia non sono le uniche che incidono sulla limitazione del conflitto sociale: i decreti sicurezza ad esempio restano pienamente in piedi. Quindi tutte le normative precedenti e gli strumenti già ampiamente affinati per il contrasto del conflitto sociale, dovranno essere considerati oltre la riflessione su questo singolo aspetto.
Il sistema delineato dai DPCM non è affetto da incostituzionalità in generale
Molto si è detto circa la presunta incostituzionalità delle norme emanate dal Governo. Il dibattito sta interessando anche autorevoli giuristi ed ex presidenti della Corte Costituzionale tra cui Cassese e Zagrebelsky, ed è ovviamente stato al centro della polemica politica tra maggioranza e opposizioni.
Senza dubbio l’esecutivo ha svolto una funzione accentratrice in questa fase, sotto un profilo politico, comunicativo e anche giuridico. Non è questa la sede per un giudizio politico su questo aspetto, ma di interrogarsi sulla validità giuridica delle scelte del governo nel nostro ordinamento, quindi da un’ottica interna. È essenziale farlo perché se davvero l’intero sistema messo in piedi dal Governo attraverso l’art. 16 della Costituzione, i decreti legge, i DPCM e i decreti ministeriali fosse tout court incostituzionale, ogni singola previsione contenuta nei decreti sarebbe viziata a monte. A parere di chi scrive non è così, mentre è assai possibile che singole norme contenute finiscano per eccedere rispetto ai poteri attribuiti e attribuibili all’esecutivo, generando eccessi di discrezionalità nel bilanciamento dei diritti costituzionali non ammissibili nel nostro ordinamento.
Ma andiamo per ordine. È vero che la libertà di circolazione è un principio costituzionalmente riconosciuto e tutelato dall’articolo 16 della Costituzione. È però altrettanto vero che lo stesso articolo 16 prevede che la libertà di circolazione possa essere limitata «in via generale per motivi di sanità o di sicurezza». Questa possibilità di derogare a diritti costituzionali, anche di rango primario come la libertà di circolazione, è spesso prevista sia dalle norme costituzionali che dai Trattati Europei – che hanno carattere di norme costituzionali interposte nel nostro ordinamento – quando sussista la necessità di proteggere diritti, anch’essi costituzionalmente riconosciuti e di rango ancora più elevato. Il diritto alla salute collettiva e alla vita deve essere considerato formalmente[1] all’apice assoluto della piramide dei diritti costituzionali, quindi la temporanea limitazione di un diritto costituzionale può ben essere giustificata, nel nostro ordinamento, dalla necessità di tutelare questo diritto superiore.
L’articolo 16 prevede però quella che in gergo tecnico viene definita riserva di legge[2] e cioè che la limitazione possa avvenire solo ed esclusivamente attraverso una legge – o un atto avente forza di legge (decreto legge, decreto legislativo) – con ciò sottraendo a semplici atti amministrativi, o fonti normative secondarie la possibilità di limitare libertà costituzionali. Su questo punto si è generato un equivoco dovuto alla prevalenza dell’utilizzo da parte del Governo di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) e Decreti Ministeriali (DM) dei Ministeri interessati (Salute, Giustizia, Interno..). Si discute in dottrina se tali decreti siano da considerarsi fonti normative secondarie o atti amministrativi: quel che è certo è che i DPCM e i DM non rientrano nel concetto di “legge”, non sono fonti normative primarie e come tali non possono derogare norme costituzionali. Su questa verità oggettiva si è costruita l’ipotesi di una incostituzionalità delle previsioni contenute nei decreti proprio perché fonti secondarie e quindi non idonee a limitare diritti costituzionali.
Il Governo Conte, prima di agire con DPCM e DM, ha emanato all’inizio dell’emergenza un decreto legge[3] (DL) successivamente convertito in legge, che costituisce una copertura di legge, costituzionalmente valida dell’operato dell’esecutivo. Il decreto legge rientra infatti nell’ampio concetto di legge previsto dall’art. 16 della Costituzione: sebbene adottato per ragioni d’urgenza dal Governo – mai come in questo caso realmente sussistenti – il DL è soggetto alla successiva approvazione da parte del Parlamento da effettuarsi entro i 60 gg successivi. È pertanto a tutti gli effetti una legge. Le accuse di quanti si concentrano sull’utilizzo di DL e non di leggi ordinarie sono davvero prive di consistenza. È noto a tutti gli operatori del diritto l’utilizzo strumentale dei decreti legge avvenuto in questi anni e generalmente ammesso anche in assenza di ragioni di straordinarietà ed urgenza, che invece ben sono presenti in questa fase. Se astrattamente esiste un momento per emanare decreti legge nel nostro ordinamento, oggettivamente si tratta proprio di questo. Quindi una tale critica è oggettivamente priva di fondamento giuridico e priva di riscontro nella prassi di questi anni.
Tornando al contenuto, il decreto era stato concepito inizialmente per le zone colpite ma prevedeva già una possibilità di estensione generale. L’articolo 1 prevedeva un ampio ventaglio di misure limitative nei comuni nei quali fosse certificato almeno un contagio. Il successivo articolo 2 stabiliva «Le autorità’ competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da COVID-19 anche fuori dai casi di cui all’articolo 1, comma». Erano poi già presenti nell’ordinamento leggi previgenti come l’articolo 117 del decreto legislativo n. 112 del 1998 che afferma: «In caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco. Negli altri casi l’adozione dei provvedimenti d’urgenza, ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle Regioni in ragione della dimensione dell’emergenza».
Stesso dicasi per il lato penalistico, poi ridotto dal Governo con esplicita deroga all’applicazione dell’art. 650 c.p. e delle norme di tutela sanitaria, sostituite in larga parte con un sistema di sanzioni amministrative dal successivo Decreto Legge 69/2020. Nonostante la successione di leggi e decreti, con abrogazioni e revisioni anche nel processo di conversione in legge dei DL, il quadro complessivo che si delinea gode di copertura costituzionale. Pertanto la pretesa avanzata da alcuni settori di considerare tout court incostituzionale l’impianto legislativo delineato dal Governo tramite decreti legge e successivi decreti ministeriali o DPCM – a parere di chi scrive – non è giuridicamente fondata. Non lo è neppure la critica per l’utilizzo dei DPCM al posto dei decreti dei singoli ministri, perché se è vero che il primo ministro è un primus inter pares è altrettanto vero che al premier spetta una funzione di coordinamento della direzione dell’esecutivo, e che l’utilizzo del DPCM consente di emanare norme che coinvolgono più settori dell’esecutivo (salute, difesa, istruzione ecc). Tutti i DPCM sono poi controfirmati dal Ministro della Salute. Quindi anche questa critica formale, risulta poco fondata.
Le misure emanate con i DPCM da Conte, si inseriscono nell’ambito della normale delega che fonti primarie concedono a fonti secondarie e atti amministrativi per precisare ambiti e modalità di applicazione delle misure stabilite dalle norme di legge.
Si delinea così un sistema di deroghe e deleghe in cui la legge – anche in forma di DL – deroga a un diritto costituzionale in nome della difesa di un diritto costituzionale prevalente come previsto dalla Costituzione, e allo stesso tempo delega le autorità predisposte all’emanazione di provvedimenti attuativi che nei limiti stabiliti dalla legge stessa, dispongono le modalità di attuazione delle misure astrattamente previste.
Questo sistema è costituzionalmente previsto fintanto che questa catena di deroghe e deleghe non oltrepassa i limiti stabiliti tanto dal dettato costituzionale, quanto dalle previsioni di legge.
Insistere quindi sulla presunta incostituzionalità dell’intero sistema delineato dal Governo è seguire una strada che, a parere di chi scrive, conduce in un vicolo cieco, perché priva di fondamento giuridico e perché insiste su aspetti prettamente formali-interi, per lo più sul piano della gerarchia delle fonti che non risultano lesi nel complesso. Su questo il parere espresso da Zagrebelskj appare condivisibile, più di quanto sostenuto da altri pure importanti giuristi.
Infine è certo che anche per ragioni di politica generale e tenuta del sistema nel complesso – e qui usciamo dal campo giuridico, per andare in quello dei rapporti sostanziali – la Corte Costituzionale non potrebbe mai in conseguenza di un evento come quello della pandemia mettere in discussione il sistema di decreti nel suo complesso. Le conseguenze di una scelta del genere sarebbero devastanti per il Paese. Quindi la carta dell’incostituzionalità generale dell’insieme delle norme, è una strada da scartare a priori sia per ragioni giuridiche, sia per evidenti questioni politiche.
La questione dell’applicazione delle singole norme in concreto
Spostandosi dal piano meramente formale e sistematico a quello più sostanziale e, se vogliamo, parziale dell’applicazione in concreto, si possono invece argomentare ragionamenti più utili alla nostra indagine. La questione è infatti quella di valutare in concreto la sussistenza delle ragioni che sono a monte delle limitazioni dei diritti costituzionali e che giustificano l’adozione delle misure di restrizione. Ogni limitazione di diritti costituzionali è frutto di un bilanciamento di interessi contrapposti tutti meritevoli di protezione, ma a diverso livello: un interesse può essere prevalente – come in questo caso il diritto alla salute – o equiparato, o subordinato – come in questo caso avviene per la libertà di circolazione. Ma in ogni caso, all’origine di questo bilanciamento, quando ad essere subordinato è un interesse di rango primario, devono sussistere ragioni concretamente apprezzabili nel caso in specie.
Molto interessante è stata a riguardo la presa di posizione di un gruppo di giudici di Aosta. Interessante sia per le considerazioni svolte in punto di diritto – per certi versi di carattere politico seppur in senso lato – sia per il fatto che riflessioni del genere provengono da settori della magistratura, ossia da chi sarà poi chiamato a valutare nel concreto, sanzionando o eventualmente assolvendo per le condotte incriminate.
Scrivono i magistrati aostani: «Con estremo sconforto – soprattutto morale – abbiamo assistito – ed ancora assistiamo – ad ampi dispiegamenti di mezzi per perseguire illeciti che non esistono, poiché è manifestamente insussistente qualsiasi offesa all’interesse giuridico (e sociale) protetto»
Il primo punto che evidenziano è quindi il principio di offensività per cui non esiste una lesione concreta – soprattutto nell’ambito dei cd. Reati di pericolo[4], come quelli relativi alla diffusione di epidemia – se un atteggiamento, astrattamente previsto da norme come vietato sia idoneo a ledere in concreto l’interesse protetto, cioè se dalla violazione sussista o meno un pericolo reale. Farsi una passeggiata nei boschi, in modo isolato – dicono i giudici – non costituisce alcun pericolo concreto.
Ricordando che l’impianto delle misure emanate dal Governo pone limitazioni a diritti costituzionali primari, i magistrati sostengono che «le norme che vengano ad incidere e sacrificare diritti costituzionalmente garantiti, anche a tutela di altri diritti di pari rango che vengano a confliggervi, sono comunque sempre soggette a stretta interpretazione e perdono ogni legittimazione laddove le condotte sanzionate siano prive di lesività per il bene preminente salvaguardato»
Nella lettera[5] – di cui consiglio la lettura – i giudici concludono esprimendo preoccupazioni per l’impatto politico dell’impianto repressivo messo in atto che rischia di «lasciare sul tappeto libertà fondamentali e diritti primari di libertà che oggi vengono seriamente posti a rischio da condotte repressive non adeguate rispetto ai fini perseguiti».
Seguendo questo, che è il ragionamento giusto per delineare i margini legali – e le possibili “forzature” connesse – dell’azione politica e di lotta in tempi di coronavirus il ragionamento si sposta quindi sul piano sostanziale del dettato costituzionale, che è anche per certi versi espressione di un ragionamento politico insito nell’ordinamento, fortunatamente prodotto di rapporti sociali più avanzati che hanno cristallizzato nella nostra Costituzione alcuni principi che oggi capitalisti e governanti si guarderebbero bene dal concedere e che fanno di tutto per limitare nella reale applicazione.
In primis dunque difficilmente potranno essere considerate condotte idonee a generare pericolo in concreto quelle condotte che prevedano un distanziamento e l’utilizzo di presidi di protezione (mascherine, guanti). Mano a mano che la riapertura di tutti i settori produttivi avverrà sarà più complesso giustificare la differenza di trattamento tra interessi economici e diritti costituzionali di rango primario, come la libertà di manifestazione.
Se è vero che gli assembramenti sono certamente condotte idonee a generare un pericolo di diffusione del virus, è altrettanto vero che la disparità di trattamento con quanto previsto all’interno dei settori produttivi non può non porre a lungo andare un problema di violazione di diritti costituzionali. Nel concedere la riapertura a tutto il settore manifatturiero e ad alcune attività lavorative – e quindi uscendo dalla logica, invero molto derogata, dei settori “necessari” – restano in vigore le norme che prevedono addirittura deroghe per luoghi di lavoro dove non si riesca a rispettare la distanza interpersonale di un metro, configurando le mascherine chirurgiche come dispositivi di protezione individuale idonei. Perché la stessa logica non dovrebbe avvenire per un sit-in, dove peraltro sarebbe assai più facile assicurare il rispetto della distanza? Quale pericolo in concreto costituirebbe una protesta con una forma di distanziamento disciplinato da parte dei partecipanti, superiore a quella di lavoratori costretti per esigenze produttive anche di settori non necessari a non poter mantenere tale distanziamento? In questo esiste una oggettiva contraddizione, su cui è possibile ipotizzare delle apparenti “forzature” di quello che sembra un quadro cristallizzato. Senza dubbio proprio nei luoghi di lavoro è possibile “forzare”: come si può colpire uno sciopero e sit in, manifestazioni, effettuate con distanziamento se lo stesso distanziamento non è neppure sempre attuato in fabbrica o in magazzino?
Gli scioperi e le dimostrazioni attuate sul luogo di lavoro non potranno essere punite in presenza di una eventuale disparità di trattamento rispetto alla quotidianità di ciò che è richiesto nello stesso luogo ai lavoratori. Neanche a dirlo che azioni e condotte individuali, prive di pericolosità in concreto non saranno sanzionabili per le misure covid.
Un punto problematico – anche se in apparente contraddizione – è la scelta del Governo di sostituire le sanzioni penali con sanzioni di carattere amministrativo (la comune multa), avvenuta a partire dal DL 19/2020. Un passaggio del genere – evidentemente giustificato da ragioni sistematiche tanto quanto di tenuta del sistema giudiziario penale – in realtà inserisce uno strumento molto più efficace per sanzionare condotte di violazione delle norme anti-covid, di quanto l’ingolfamento dei tribunali e l’applicazione dei principi penalistici avrebbe comportato in sede penale. Il Governo era ben cosciente dell’inevitabile prescrizione della gran parte delle sanzioni; era altrettanto cosciente dell’insostenibilità sociale di un sistema in cui ogni violazione fosse sanzionata penalmente; ha apprestato nei fatti una tutela più snella e effettiva, non soggetta al rigore dei principi penalistici che facilmente avrebbero escluso la rilevanza penale di gran parte delle violazioni. Paradossalmente infatti, nel sistema delineato dalla legge 689/81 che regola le sanzioni amministrative non esiste un principio di offensività, giustificato nel sistema penalistico dal carattere residuale dell’area del penalmente rilevante. Decine di multe da centinaia di euro sono un peso in concreto maggiore della prospettiva di un processo penale dall’esito scontato.
Il diritto di manifestazione nella fase 2 alla luce del DPCM 26 aprile
In realtà le maggiori contraddizioni sono emerse nero su bianco nelle norme che riguardano la c.d. Fase 2, andando ad acuire quel trattamento differenziato di diritti costituzionali che era già evidente nei primi decreti e che a mano a mano diventa sempre più difficile da giustificare anche sotto il profilo giuridico. In questo senso se non è incostituzionale il sistema complessivo, problemi di costituzionalità possono sorgere sulla base delle scelte discrezionali prese dal Governo, specialmente dove creino disparità di trattamento a parità di condizioni di “pericolosità” nella diffusione del virus.
L’art. 1 lettera i) del DPCM del 26 aprile, ha confermato la “sospensione” delle manifestazioni organizzate, già disposto su tutto il territorio nazionale dal DPCM del 4 marzo e successivamente confermato in tutti i decreti. In un sistema improntato ancora alla chiusura, l’esecutivo ha tuttavia previsto una serie di deroghe: la prima relativa ai luoghi di culto la seconda relativa alla celebrazione dei funerali. Si legge testualmente: «l’apertura dei luoghi di culto è condizionata all’adozione di misure tali da evitare assembramenti di persone […] tali da garantire ai frequentatori la possibilità di distanza tra loro di almeno un metro». Il concetto è replicato nelle misure relative ai funerali che dovranno svolgersi con la partecipazione di «massimo quindici persone, con funzione da svolgersi preferibilmente all’aperto, indossando protezioni delle vie respiratorie e rispettando rigorosamente la distanza di sicurezza interpersonale di un metro».
Queste previsioni, che riguardano due aspetti particolari, uno dei quali strettamente connesso con la libertà di culto che è diritto costituzionalmente garantito, insieme alle disposizioni sui luoghi di lavoro, sui trasporti e sulle riaperture degli esercizi commerciali delineano chiaramente un sistema coerente in cui il criterio di limitazione della libertà di circolazione viene ancorato al rispetto di una serie di dati oggettivi: distanza interpersonale che evita forme di assembramento, utilizzo di dispositivi di protezione individuale, maggiore flessibilità per le attività condotte all’esterno rispetto a quelle interne. I maggiori dubbi di costituzionalità dell’insieme delle norme varate dal Governo risiedono – a parere di chi scrive – proprio nella scelta operata attraverso il DPCM di consentire l’esercizio di alcune attività, spesso legate a diritti costituzionali primari, continuando a negarne formalmente altre, legate anch’esse a diritti costituzionali, con disparità di valutazione e trattamento che non è ammissibile, in quanto non giustificata da differenti condizioni oggettive.
Se è comprensibile che il Governo non possa autorizzare oggi una manifestazione di massa che si svolga nelle modalità tradizionali, che costituendo una forma di assembramento sarebbe veicolo idoneo di diffusione del virus, non lo è – e costituisce al contempo una forma di discriminazione – la mancata previsione della possibilità di esercitare ogni diritto costituzionalmente riconosciuto, tra cui quello di riunione, in forme tali da consentire il mantenimento del distanziamento interpersonale ed evitare forme di assembramento, al pari di quanto concesso per la libertà di culto. Se viene riconosciuta la differenza tra celebrare una messa con centinaia di fedeli stipati in una chiesa, e garantire il culto dei fedeli con distanziamento idoneo alle caratteristiche del luogo, per quale ragione lo stesso criterio non può essere utilizzato per una manifestazione organizzata? E ancora, se possiamo andare a lavoro, recarci in locali commerciali, utilizzare i mezzi di trasporto pubblico, mantenendo il distanziamento e utilizzando dispositivi di protezione, se molte attività sono possibili addirittura anche quando non sia possibile garantire tale distanziamento, per quale ragione ciò non può essere previsto lo stesso per le manifestazioni pubbliche, che continuano ad essere vietate?
Questa incoerenza del sistema creato dal DPCM 26 aprile, crea nei fatti una forma di discriminazione che non è idonea a rimuovere di per sé il divieto previsto e a impedire le eventuali sanzioni, ma può costituire una base giuridica valida per ottenere l’annullamento in sede giudiziaria delle sanzioni comminate, facendo leva proprio sulla disparità di trattamento nella compressione di diritti costituzionali a parità di condizioni oggettive, scelta che entra in un campo di discrezionalità che sfocia nell’arbitrarietà, risultando quindi potenzialmente incostituzionale.
La deroga a un diritto costituzionale è ammessa in virtù di un bilanciamento effettivo tra diritti, che deve essere ancorato ai medesimi criteri oggettivi, oltre i quali la compressione di un diritto costituzionalmente riconosciuto e di rango primario non può essere ammessa.
Una manifestazione condotta nelle forme utilizzate dal Pame in Grecia (nella foto in alto), per intenderci, con distanziamento dei partecipanti, utilizzo di dispositivi di protezione come guanti e mascherine, magari inizialmente limitata nel numero degli stessi, seppure vietata dalle norme in vigore e potenzialmente idonea a essere sanzionata, potrebbe non resistere facilmente a un successivo passaggio in sede giudiziaria. A fare da ombrello sarebbe la carenza di offensività rispetto all’interesse tutelato – evitare la diffusione del virus – e la ingiustificata differenza di trattamento rispetto a quanto previsto in altri ambiti e per diritti costituzionali spesso di grado addirittura inferiore a quello della libertà di manifestazione del pensiero e di riunione, che il Governo per evidenti ragioni di opportunità politica di gestione del conflitto sociale, ancora oggi intende negare.
Certo ciò che è possibile ottenere con questo ragionamento è pco più che simbolico: affermare una presenza. Ma in questo momento non è un fattore scontato, anzi è una tappa necessaria per riabituarci collettivamente a una dimensione diversa da quella della bolla informatica in cui siamo precipitati. Certo, il piano reale del conflitto sociale, quando esploderà nella sua forza, meriterà altre valutazioni.
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[1] Formalmente perché nei fatti l’ordinamento borghese deroga quotidianamente a questo diritto, non appena il dato formale lascia spazio a quello sostanziale della società capitalistica, nella quale il profitto privato dei grandi monopoli è la legge fondamentale. Ma questo giudizio di carattere politico, non muta il ragionamento svolto in termini formali e giuridici, rispetto ai principi dell’ordinamento.
[2] Il principio della riserva di legge rappresenta una garanzia liberale con la quale si sottopone al legislatore (ossia al Parlamento) un controllo politico delle limitazioni ai diritti costituzionali, impedendo che ciò possa accadere attraverso semplici atti autoritativi, ponendo così un limite formale a poteri arbitrati in relazione alla limitazione di diritti e libertà fondamentali.
[3] Si tratta del DL 6/2020 entrato in vigore il 23/02/2020 convertito con modificazioni dalla L. 5 marzo 2020, n. 13 (in G.U. 09/03/2020, n. 61).
[4] Tralascio per ragioni di sintesi la differenza tra reati di pericolo cd concreto o astratto, anche se utile a un approfondimento maggiore.
[5] Testo riportato dall’Ansa: https://www.ansa.it/valledaosta/notizie/2020/04/21/coronavirus-magistrati-aosta-passeggiate-non-sono-illeciti_57cfbed6-37c8-48b9-939f-208bb03fcced.html