A proposito delle spie fasciste in Unione Sovietica
Per decenni la propaganda anticomunista ha individuato uno dei suoi “cavalli di battaglia” preferiti nel teorema dei “comunisti italiani perseguitati da Stalin”.”Fratelli uccidono fratelli”, scriveva Mussolini sull’argomento;[1] da allora fascisti, reazionari e “progressisti” di varia estrazione si sono scambiati, con impressionante convergenza, il testimone dell’anticomunismo.[2]
La storia di quel periodo doveva essere letta attraverso uno schermo ideologico costruito allo scopo di fissare nell’immaginario pubblico la concezione reazionaria del comunismo sovietico, additato come “male assoluto”. Le anime belle della storiografia “democratica” italiana, dal canto loro, scagliavano i loro anatemi contro i comunisti sovietici nella rassicurante certezza di contribuire alla costruzione di una verginità politica a forze politiche (prima il Pci berlingueriano, poi Rifondazione) che si mostravano smaniose di trovare la scorciatoia giusta per l’ingresso nella stanza dei bottoni.
Non potevano che seguire decenni di asfissiante, martellante, meticolosa propaganda anticomunista. A questa propaganda, vuota e storiograficamente inconsistente, rispondiamo con i documenti,[3] mettendo a disposizione dei lettori dati e considerazioni per ragionare su una visione problematica di vicende che portarono tanti “comunisti” pentiti e ravveduti a mettersi al servizio del regime fascista determinando la necessaria (ma purtroppo, come vedremo, assai incompleta) difesa da parte della giustizia rivoluzionaria del Paese dei Soviet tra gli anni’20 e ’40.
Il fascismo al potere si dotò di una ragguardevole rete spionistica, in Italia ed all’estero, che fu determinante nell’individuare e reprimere le organizzazioni antifasciste, ed in primo luogo quella comunista. Nell’ambito della strategia adottata dall’apparato repressivo fascista era indispensabile avvalersi del patrimonio di esperienze e conoscenze maturato dalle spie che provenivano dal Pcd’I.
Il fenomeno delle spie all’interno del partito comunista, in particolare, raggiunse dimensioni ragguardevoli. Sulla stampa comunista venivano assiduamente segnalati nomi di spie scoperte; solo nell’anno 1934 il gruppo dirigente del Pcd’I ne segnalò 505, in un dettagliato elenco che riguardava l’infiltrazione fascista nelle diverse regioni italiane.
Il sistema investigativo-repressivo fascista non trascurò certo la presenza spionistica tra i comunisti in esilio; Germania, Austria, Svizzera, Belgio, Francia e Unione Sovietica rappresentarono i principali centri d’azione della rete spionistica fascista, sempre a caccia di nuovi delatori per raccogliere il maggior numero di informazioni possibili sull’attività dei comunisti italiani, per incunearsi all’interno dell’organizzazione comunista, stringerla all’interno della tenaglia costituita dalla repressione esterna e dalla disgregazione interna.[4]
I risultati dell’inchiesta promossa dal Pcd’I sul “lavoro dei quadri negli anni 1935-1938”, raccolti in un rapporto del settembre 1938, fornirono un quadro drammatico dello stato organizzativo del partito di quel periodo: “nessuna organizzazione poteva considerarsi solida” poiché tutte erano “minate dal lavoro della polizia e della provocazione. L’inchiesta rivelava la fragilità dei canali costituiti dal partito per inviare informazioni (recapiti in Italia, indirizzi all’estero, metodi di lavoro), canali in gran parte conosciuti e controllati dalla polizia”.[5]
In particolare, il lavorio spionistico in Unione Sovietica era di fondamentale importanza per i gerarchi fascisti.
L’URSS costituiva il pericolo più grande per i fascisti al potere, per l’esempio che rappresentava, per il ruolo dell’Internazionale comunista, per l’impossibilità di intervenire tramite le polizie locali in funzione anticomunista, come invece avveniva in altri paesi europei.
È in questo quadro che matura la vicenda della presenza dei comunisti italiani in Unione Sovietica durante il ventennio fascista; si trattava per lo più di militanti sulla cui attività in Italia si erano addensate parecchie ombre. I sospetti nascevano il larga misura da scarcerazioni o evasioni troppo facili che avevano contribuito a formare seri dubbi sull’atteggiamento seguito dal militante o dal dirigente arrestato durante gli interrogatori da parte della polizia fascista.
I sospettati – ha scritto Pajetta – “erano stati mandati in Unione Sovietica perché su di loro pesava qualche sospetto, oppure non davano sufficienti garanzie per essere assunti nell’apparato del partito e ricevere dei compiti nel lavoro clandestino”.[6]
Accanto ad elementi sospetti altri, che avevano alle spalle anni di militanza comunista rivoltarono le energie rivoluzionarie contro i compagni di partito al cui fianco (in apparenza) continuavano ad operare, e diventarono quinte colonne della dittatura fascista.
Quali motivi spinsero comunisti con un curriculum politico più o meno ineccepibile, a trasformarsi in spie al servizio dell’Ambasciata italiana e quindi dei fascisti? All’abietto opportunismo contingente (l’offerta di somme di denaro, la promessa di libertà in alternativa ad anni di galera, la concessione di favori nei confronti di familiari residenti in Italia, la delusione connessa al fatto che molti consideravano l’Unione Sovietica come un esilio dorato dove approfittare del proprio status di rifugiati per poter vivere nell’ozio, senza lavorare,[7] le difficoltà alimentari conseguenti alla carestia che aveva colpito l’URSS all’inizio degli anni ‘30) si sommarono talvolta convincimenti politici (la convinzione, che andava progressivamente consolidandosi, dell’irreversibilità dell’affermazione fascista in Italia oppure l’adesione al trotskismo, che rappresentò un terreno privilegiato per il reclutamento spionistico anticomunista).[8]
Uno dei terreni d’intervento dello spionaggio fascista era sicuramente quello della comunità italiana di Kerc,[9] ma non era certamente il solo. Le informazioni più utili per orientare l’azione repressiva in Italia erano quelle che provenivano dagli ambienti dell’emigrazione politica in URSS.
In una testimonianza di Robotti troviamo conferma del fatto che nelle file dei comunisti immigrati, nel 1932 il pericolo di infiltrazioni fosse drammaticamente reale: “il clima politico nella sezione (il Club degli emigrati politici con sede a Mosca n.d.a.) era, a dir poco, «malsano» e occorreva imprimergli un mutamento al più presto”;[10] la questione venne portata all’attenzione dell’esecutivo allargato dell’Internazionale comunista che decise di affidare la direzione della sezione italiana allo stesso Robotti; la situazione non dovette granché migliorare se è vero che, nel 1935, il Comitato di Mosca del Partito bolscevico sciolse il Club degli emigrati politici.[11]
Queste premesse oggettive non sono state sviluppate da Robotti che ha sempre eluso un interrogativo di fondamentale importanza: poteva un ambiente “malsano” risultare immune dall’infiltrazione di spie?
È proprio l’ostinato silenzio sulla presenza, oggi accertata ed inconfutabilmente documentata, di spie tra i comunisti italiani rifugiatisi in URSS il limite di fondo che ha caratterizzato il ragionamento di Robotti; al consolidamento di quell’impostazione certamente contribuivano l’amore per il partito, ma anche di più l’amor proprio, visto che lui ebbe la responsabilità di dirigere il Club degli emigrati italiani a Mosca.
Quest’impostazione contribuiva a costruire l’immagine di un partito puro, non contaminabile; si trattava di un immagine comodamente agiografica, rassicurante nella sua omologazione al teorema kruscioviano della “violazione della legalità socialista”.[12] Ne conseguiva che, ipso facto, chiunque fosse stato accusato o condannato in quel periodo storico era iscritto d’ufficio nell’albo degli innocenti.
Su quella strada la coerenza alle idee rivoluzionarie veniva sostituita con una coerenza con i gruppi dirigenti di partiti che stavano drammaticamente rompendo con il comunismo, creando i presupposti per quello che avvenne decenni dopo con lo scioglimento del PCI in Italia e la dissoluzione dell’URSS, iniziata all’epoca di Krusciov e completata da Gorbaciov.
Fu l’inizio dell’industria dei riabilitati per decreto, ad opera di Krusciov e di Gorbaciov, a prescindere dall’eventuale innocenza o colpevolezza e senza alcuna revisione giuridica dei processi che li riguardavano. Il furore denigratorio antistaliniano aveva bisogno di martiri sacrificali e questi vennero comodamente individuati in base all’equazione condannato = martire. E’ la storia degli ultimi cinquant’anni, univoca quanto falsificata, che è tempo di smascherare, alla luce dei riscontri documentali, delle palesi contraddizioni, delle evidenti incongruenze che la caratterizzano.
“Vittime innocenti” o delatori? Alcune storie esemplari.
Riteniamo necessario ricostruire i profili biografici dei confidenti e delatori, presenti tra i comunisti italiani in URSS, non tanto per gusto dell’aneddotica spionistica quanto per fornire documentazione inconfutabile sul fatto che la leggenda costruita ed alimentata per decenni sulle tragiche repressioni di “comunisti che sognavano il socialismo” non solo è completamente destituita di fondamento, ma è, soprattutto, un’arma propagandistica al servizio dei più abietti interessi politici: il fascismo, il liberalismo conservatore, il democraticismo borghese.
Le biografie che seguono sono state ricostruite facendo uscire dall’oblio documentazioni presenti soprattutto nell’Archivio Centrale dello Stato, relativi a spie fasciste.[13] Questo materiale archivistico è stato semplicemente rimosso da sedicenti “storici” che leggono le vicende storiche a pagine alterne e magari si sdegnano per le camere a gas e gli orrori delle SS, ma al tempo stesso precostituiscono le loro amnesie storiografiche sull’attività criminosa delle spie del duce e sulle conseguenze bestiali del loro infame operato che provocò carcere, tortura e morte nelle file dell’antifascismo ed in particolare in quelle comuniste.[14]
Cominciamo da Ottocaro Tlutos: giovane dirigente del Partito comunista a Trieste, dopo essere stato arrestato dall’OVRA, venne “inspiegabilmente” lasciato libero; giunto nell’aprile del 1931 a Parigi ammise di aver fornito informazioni all’OVRA;[15] il partito pensò comunque di concedergli un’altra possibilità. Tlutos venne inviato in Unione Sovietica dove iniziò a lavorare a Novograd in fabbrica; insofferente al lavoro riprese la sua attività spionistica a causa della quale venne arrestato il 4 gennaio 1935. Condannato a tre anni di deportazione, optò, al posto dell’espiazione della pena, per l’espulsione. Giunto in Italia rilasciò lunghe ed articolate confessioni, deciso a riabilitarsi “a qualunque prezzo, animato dai migliori propositi, come ogni onesto cittadino e come ogni suddito fedele del Regno”.[16]
Tra i confidenti dell’apparato spionistico fascista figura Nazareno Scarioli, comunista originario di Genzano, rifugiatosi in URSS, dopo aver ammazzato un fascista, per sfuggire alle ritorsioni del regime. Il 13 settembre 1934 si presentò all’ambasciata italiana a Mosca,[17] come risulta da un telespresso del 27 ottobre di quell’anno,[18] chiedendo di rimpatriare e comunicando di voler fare importanti rivelazioni: “A prova della veridicità delle sue affermazioni e dei suoi sinceri propositi, si è dichiarato pronto a porsi a disposizione della R. Ambasciata e, successivamente, delle RR. Autorità di P.S. per rivelare quanto a sua conoscenza circa i comunisti italiani nell’URSS e la loro attività nel Regno”.
Quanto poi alla condanna per l’uccisione del fascista Scarioli trovò subito la soluzione: accusare altri militanti comunisti della questione in modo da uscirne indenne. Scarioli però serviva a Mosca, così possiamo registrare il rammarico dell’ambasciata italiana per la brusca interruzione della carriera spionistica dello Scarioli a causa del suo arresto “sotto l’accusa di spionaggio. Il provvedimento – precisava l’ambasciata – […] potrebbe essere messo in connessione con le pratiche che lo Scarioli aveva iniziato nel 1934”.[19]
Un altro personaggio destinato a rivestire un ruolo di primo piano tra i delatori al servizio del fascismo fu Mario Imprudenti; giunto in Unione Sovietica nel 1931 già un anno dopo si presentò all’ambasciata di Mosca ed iniziò a raccontare nomi, fatti e situazioni che suscitarono l’immediato interesse del conte Attolico, ambasciatore in carica, che ebbe a definirlo come “un adolescente fuorviato da cattivi compagni”[20] che, affidato alle “attenzioni” del personale dell’ambasciata, “ha affermato di conoscere molte persone e le fila dell’organizzazione clandestina sovversiva esistente in Italia, incaricata di distribuire passaporti falsi (una decina all’anno) e di voler fare rivelazioni alla nostra Polizia, non appena arrivato nel Regno”.[21]
Al suo arrivo in Italia la spia Imprudenti venne interrogato a Bologna dall’ispettore D’Andrea, responsabile dell’OVRA per l’Italia centrale, di fronte al quale si dichiarò “profondamente pentito del mio giovanile traviamento” manifesta “sincere intenzioni di ravvedimento” che si concretizzarono in delazioni estremamente dettagliate: dai verbali dei due interrogatori, tenutisi il 10 e 13 ottobre 1932, emersero i nomi di 138 comunisti ed importanti indicazioni sulla strategia di progressiva penetrazione del Pcd’I in Italia. in particolare, grazie alle informazioni fornite da Impudenti, vennero arrestati decine di comunisti e smantellata l’organizzazione comunista in Toscana e in Puglia.[22]
Imprudenti, oltre a fare nomi di comunisti da lui conosciuti, fornì anche le generalità, corredate di vere e proprie schede biografiche, di possibili “pentiti” disposti a venire a compromessi con il regime. Tra i nominativi indicati da Imprudenti ben tre si presentarono all’ambasciata di Mosca nel gennaio 1933: Angelo Arosio, Angelo Garobioli (Landa) e Vittorio Pace (Bolsci). In un telespresso dell’ambasciata si chiede al Ministero dell’Interno “un congruo fondo” per pagare le spie e provvedere al loro mantenimento in attesa di ottenere il visto in uscita dall’URSS in quanto “è prevedibile […] che le locali Autorità cercheranno di creare intralci trattandosi di comunisti che tornano spontaneamente nel Regno e che prevedibilmente, una volta giunti faranno delle rivelazioni. In altri termini si ripeterà quanto successo pel noto Imprudenti”.[23]
Rimpatriati dopo poco più di un mese, vennero interrogati dai funzionari della polizia politica. Dalla lettura dei verbali d’interrogatorio[24] emerge chiaramente che le tre spie fornirono informazioni utili a ricostruire i nomi dei comunisti che frequentavano la scuola leninista di Mosca, nonché informazioni sull’economia sovietica e sulla produzione bellica.
Un altro complice di Imprudenti, Giusto Mosina, dopo aver svolto il suo lavoro di spia in URSS cominciò ad operare ad inizio del 1934 in Italia nelle file dell’organizzazione clandestina del partito in Venezia Giulia, venne smascherato sulle colonne de “l’Unità” in modo inequivocabile: Giusto Mosina è un traditore e un agente provocatore. Egli è fuggito dal territorio della U.R.S.S. coi mezzi fornitigli dalle autorità consolari italiane e con l’incarico di fare opera di provocazione in Italia”.[25]
Tra le spie che riuscirono a sfuggire alla giustizia sovietica va ricordato anche Giuseppe Romani sul cui conto risulta addirittura una richiesta di assunzione come spia, con conseguente raccomandazione presso l’ambasciatore “perché Ella abbia la bontà di fare le dovute pratiche affinché io possa essere ammesso al servizio della polizia segreta italiana”.[26] Tornato in Italia dopo qualche tempo si mise realmente a disposizione dell’OVRA come delatore sulle attività clandestine dei lavoratori comunisti della fabbrica Scaini di Sesto San Giovanni.
Un altro “ravveduto” al servizio dell’ambasciata italiana a Mosca fu Luigi Tolentino: di lui troviamo ampia documentazione nel carteggio dell’ambasciata con il Ministero dell’interno in cui, tra l’altro, si afferma: “Il Tolentino dichiara di essere ufficialmente legato al partito comunista italiano” e che “ha occupato il posto di comando nella Federazione Provinciale Palermitana” a partire dal 1924.
Tolentino dichiarò di esser diventato fascista (“giungo quasi senza accorgermene a delle conclusioni perfettamente fasciste”) e di voler “lottare attivamente contro il comunismo sia teoricamente che tecnicamente, sia in Italia che all’estero”; a riprova dell’avvenuta conversione al fascismo il Tolentino offrì i propri servigi, che non si limitarono al tradizionale ruolo di delatore ma si estesero fino all’offerta di scrivere libelli anticomunisti.
“Sarò ben lieto – affermò il fascista di nuova acquisizione – se mi riuscirà di mettere a profitto la mia esperienza organizzativa e la mia conoscenza del meccanismo del Partito per ottenere di poterlo rendere inefficace o addirittura distruggerlo”.[27] Tolentino dimostra la propria efficienza al personale dell’ambasciata fornendo una quantità enorme di informazioni che vengono inviate in Italia con titoli assai significativi: “Organizzazione del movimento comunista italiano”, “Propaganda fra gli specialisti italiani a Mosca”, “L’emigrazione politica italiana nell’URSS”, “La colonia italiana a Kerc e l’azione del P.C.”, “Il comunismo in Germania”.[28] Fatto espatriare dall’ambasciata giunse in Italia il 4 agosto, fornendo altre informazioni all’OVRA, e viene utilizzato per il riconoscimento di attivisti comunisti.[29] Segnalato come spia dal Pcd’I clandestino, viene fatto entrare nei ranghi della Marina militare, come riconoscimento per i servigi espletati.
Al servizio dell’ambasciata fascista a Mosca figuravano anche Francesco Prato e Alberto Randich. Il primo era un operaio torinese, uccise due fascisti in uno scontro a fuoco nel dicembre 1922, emigrò a Mosca e divenne una spia lautamente retribuita dall’ambasciata italiana. In una nota dell’ambasciatore Cerruti, emergono alcuni dettagli del pactum sceleris stipulato tra Prato e l’ambasciata italiana, come il pagamento di 5000 dollari per aver segnalato un infiltrato sovietico nell’ambasciata.[30]
Alberto Randich già arrestato nel 1926 dalla polizia fascista e accusato di comunismo espatriò recandosi in Unione Sovietica dove, per lunghi anni, fu informatore dell’ambasciata; scoperto venne espulso dall’URSS nel 1937; in un telespresso del 14 maggio 1937 l’ambasciatore Augusto Rosso ebbe a scrivere: “Il connazionale Alberto Randich, già oggetto di precorsa corrispondenza […] è stato testè invitato dalla polizia politica sovietica a lasciare il territorio dell’URSS entro il 21 maggio corrente […]. Poiché negli ultimi anni ha reso utili servizi a questa Regia Ambasciata, si prega codesto regio Ministero di voler compiacersi esaminare l’opportunità di disporre che non abbia ad essergli fatto in Italia ciò che, dati i suoi precedenti politici, ebbe a subire nel settembre 1926”.[31]
Un servizio longevo e proficuo al servizio dell’ambasciata di Mosca lo svolse anche Guglielmo Jonna, ex dirigente di Soccorso Rosso. Temendo di essere scoperto, Jonna tornò precipitosamente in Italia dove si avvalse della protezione dell’ispettore Nudi,[32] che intervenne a favore della spia presso il Ministero degli Interni, per neutralizzare i procedimenti penali che pendevano su Jonna a causa dei suoi trascorsi politici giovanili.[33] L’intervento della spia, purtroppo sfuggita alla giustizia sovietica, fu decisivo per l’identificazione, dopo l’arresto di due dirigenti del Pcd’I, Bruno Tosin e Camilla Ravera.[34]
Lo stesso arresto dei due dirigenti comunisti era stato provocato dalle notizie fornite da un altro informatore: Eros Vecchi, “un giovane dirigente di apparente solidità ideologica, che si era formato politicamente nel corso di una lunga permanenza in URSS”.[35] Già durante questa permanenza in URSS, durata diversi anni, Vecchi passò al servizio dell’ambasciata italiana; successivamente venne inviato dal Pcd’I in Francia e in Belgio, dove rafforzò la propria attività delatoria fornendo informazioni estremamente importanti sulla struttura estera del Pcd’I. [36]
Un altro caso emblematico è quello di Alfonso Petrini, prima anarchico e poi comunista, fuggito dall’Italia perché accusato di complicità nell’uccisione di un maresciallo dei carabinieri; in Unione Sovietica venne condannato a dieci anni di carcere, per usare la terminologia di Guelfo Zaccaria, con “la ridicola accusa di essere «una spia fascista»”.[37]
Ad un riscontro documentale l’accusa non sembra per niente “ridicola”: al personale dell’ambasciata italiana a Mosca Petrini “ha fatto sapere che qualora gli fosse rinnovato il processo e gli fossero date garanzie di libertà e possibilità di difesa sarebbe disposto a mettersi al servizio del Regio Governo”.[38]
La spia Petrini chiese anche soldi precisando di voler essere pagato “a mezzo di una banca che abbia una filiale in Ancona. Il sussidio dovrebbe sembrare inviato da persona anonima e dovrebbe essere indirizzato a Petrini Iride nata Dondini”, cioè alla moglie.[39]
Nel mare magnum di personaggi al soldo dell’ambasciata fascista ci si imbatte anche in una figura di primo piano come Ersilio Ambrogi. Deputato socialista nel 1919, Ambrogi divenne, un anno più tardi, sindaco di Cecina. Incarcerato per l’uccisione di un fascista, avvenuta a Cecina nel febbraio 1921, Ambrogi venne liberato nel maggio successivo, dopo l’elezione nel Parlamento nelle liste comuniste; successivamente assunse incarichi di rilievo nel partito, tra cui quello di rappresentante del Pcd’I nell’Internazionale a Mosca. Schieratosi con Bordiga e Trotskij fu espulso dal partito nel 1929. Nel 1934 sembrò mutare le sue posizioni; scrisse un documento Per l’unità del Partito e sembrò aver mutato i suoi convincimenti dissociandosi apertamente dalle posizioni di Trotskij.
In realtà si trattava soltanto di un’operazione di facciata, in quanto risulta documentato che, sin dal 1928, Ambrogi fu zelante informatore dell’ambasciata italiana; in particolare una lettera inviata dall’ambasciatore di Mosca ci fornisce preziosi dettagli: “Nel ’28 cominciarono i contatti con Ambrogi che si facea chiamare Arcadieff. […] Scambio di informazioni. Contatti settimanali all’incirca in tre abitazioni. Retribuzioni 250 dollari mensili”.[40]
Temendo di essere scoperto Ambrogi chiese all’ambasciata italiana di poter lasciare l’URSS sottolineando che “la sua intenzione era […] quella di dedicare il resto della sua vita a un’accanita lotta contro l’Internazionale comunista, e per questo propose di essere aiutato nella creazione di una rivista che potesse servire a questo scopo negli ambienti dell’emigrazione italiana”. Le autorità fasciste agevolarono quindi la partenza del fido collaboratore Ambrogi dall’Unione Sovietica, consentendogli di raggiungere il Belgio e di stabilirsi a Bruxelles.[41]
L’ambasciata italiana mostrò costantemente uno spiccato interesse verso i connazionali di orientamento trotskista; ad essa si rivolsero, alcuni stretti collaboratori di Ambrogi: Giuseppe Sensi e Plinio Trovatelli.
Il Sensi, si mise a disposizione dell’ambasciata, divenendone un confidente. Ad un certo momento fu la stessa ambasciata che segnalò l’opportunità di fargli proseguire la sua attività all’estero, negli ambienti dell’emigrazione antifascista, sostenendo in particolare che “una volta all’estero, si unirebbe al gruppo degli ex comunisti italiani residenti in Belgio nella lotta contro la III-a Internazionale”.[42] Sensi venne scoperto ed arrestato alla fine di marzo dello stesso anno.
Trovatelli si recò all’Ambasciata affermando di professare “idee diametralmente opposte a quelle del passato” e sostenendo di voler “raggiungere Bruxelles anche allo scopo di riunirsi al gruppo summenzionato (il riferimento è ai trotskisti che si trovavano in Belgio n.d.a.) e a coadiuvarli nella lotta contro la III-a Internazionale di Mosca”.[43] L’attività dei trotskisti stava molto a cuore all’ambasciatore italiano che gli fece avere rapidamente il visto, consentendogli di svolgere la propria attività anticomunista nella capitale belga.
Proseguiamo occupandoci di Ignazio Sportelli, già collaboratore de “l’Unità” e successivamente segretario interregionale per la riorganizzazione clandestina del Pcd’I; dopo essere stato arrestato il 2 luglio 1927 accettò le offerte della polizia fascista e si trasformò in informatore. Trasferitosi in Unione Sovietica nel 1929 prese rapidamente contatto con l’ambasciata e divenne fonte di preziose informazioni sull’attività dei comunisti italiani in URSS; nel corso di una deposizione resa in ambasciata affermò che “gli insegnamenti del passato e la mia situazione presente fa sì che io riveda le mie convinzioni”.[44] Sportelli fu espulso dall’URSS nel 1936 dopo, diversi anni di intensa attività spionistica.
L’operato di Sportelli è confermato,[45] tra l’altro, dalla più famosa spia, proveniente dalle file del Pcd’I, che ebbe modo di operare in URSS: Ignazio Silone, che fu membro del comitato centrale e dell’ufficio politico del partito nonché delegato all’VIII Plenum dell’Internazionale comunista a Mosca.L’attività di questo servitore della polizia fascista è ampiamente e dettagliatamente documentata in diversi lavori;[46] lo spione Silone era particolarmente attivo nel documentare l’attività svolta dal partito per smascherare gli informatori al soldo di fascisti..
Un altro personaggio di spicco dello spionaggio fascista fu Girolamo Peduzzi: nato all’estero da genitori italiani, si iscrisse al partito comunista in Lussemburgo; condannato per aver partecipato a scontri di piazza, si recò in URSS nel luglio 1933. Nel 1936 Peduzzi entrò a far parte della rete di collaboratori dell’ambasciata italiana. Per avvalorare il suo “ravvedimento” Peduzzi affermò di essersi “reso responsabile” di fatti che “risalgono a tempi ed idee che, più che a convinzioni profonde, erano dovuti ad illusioni ed alla inesperienza della vita, nonché ad altre circostanze che mi facevano stare in balìa degli uomini e delle cose”.[47] Colto con le mani nel sacco Peduzzi viene condannato all’espulsione dall’URSS. Grazie all’intervento dell’ambasciata italiana raggiunge gli Stati Uniti e da lì il Nicaragua da dove, riconoscente verso i fascisti, scrisse: “Dopo tante perepezie riconosco i miei errori ed ho rinunziate a tutte le idee marziste, con la idea che il Governo Italiano prenda in considerazione il mio grande sbagli lo prego per mezzo di questo Regio consolo a voler perdonarmi tutto il mio passato sottomettendomi alle leggi italiane […] Percio ho l’intenzione di mettermi a disposizione del Governo Fascista per fare tutto quello che io possa fare per raccontare le mie memorie sopra la demagogia bolcevicha […] e così anche a fare proppaganda della giustizia che eziste in Governo Fascista che tanto si preoccupa per i suoi lavoratori”.[48] L’uso incerto della lingua italiana da parte di Peduzzi si combina con la cinica determinazione a svolgere il suo ruolo di spia, successivamente evolutosi in quello di denigratore professionale del socialismo, al servizio dei fascisti.
La propaganda fascista dimostrò di avere particolarmente a cuore le sorti degli “oppositori” della direzione bolscevica dell’Unione Sovietica e così non c’è da meravigliarsi se lo stesso Mussolini, con un corsivo pubblicato sul “Popolo d’Italia”,[49] prese le difese di una figura chiave dello spionaggio fascista in URSS: Luigi Calligaris, ancor oggi definito dalla propaganda anticomunista, impudica ed indecente, “combattente generoso ed altruista, […] comunista impegnato nella difesa dei deboli, […] comunista leale”.[50]
Ebbene, Mussolini raccontava con toni pietistici la vicenda di Calligaris ed usando le parole contenute in un articolo pubblicato pochi giorni prima dal giornale bordighiano “Prometeo”,[51] lo definiva “un controrivoluzionario di marca speciale, un controrivoluzionario di sinistra, cioè un lebbroso politico che sarà espulso dal partito e che sarà messo al bando da ogni vita politica. Calligaris allora domanda di partire, ma gli si rifiuterà il permesso di uscire dalla Russia. che cosa avverrà allora di Calligaris?” Mussolini diede la risposta all’interrogativo posto dai bordighiani: “a questa angosciosa domanda solo la GPU può rispondere, nell’attesa il compagno Calligaris penserà, probabilmente, che si stava meglio quando si stava peggio”.
“Prometeo” tracciava il curriculum apparentemente irreprensibile di Calligaris che “prende parte alla difesa dell’organo del partito a Trieste e viene chiamato alla direzione del «Lavoratore» nelle difficili condizioni di terrore che i proletari tutti conoscono”. Senza minimamente interrogarsi sulle cause che spingevano il Calligaris a preferire un improvviso ed inaspettato rimpatrio in Italia, cioè in un paese sottoposto alla dittatura fascista, “Prometeo” esibiva il santino di Calligaris elevando a simbolo dell’opposizione alla “politica nuova che è stata imposta ai partiti comunisti e alla Russia Sovietista”.[52] Con involontaria ironia il periodico bordighiano affermava che Calligaris “non per questo tace”. In effetti parlò, e con grande profusione di dettagli, all’ambasciata italiana a Mosca.
L’ambasciatore fascista a Mosca, Attolico, in un telespresso del 9 novembre 1932 informava Roma delle “disillusioni del Calligaris e di un suo processo di ravvedimento in corso”.[53] Cosa intendesse l’ambasciatore di Mussolini per “ravvedimento” è fin troppo chiaro: un passaggio al servizio del fascismo. Lo stesso Calligaris, in una lettera del 13 febbraio 1933, scrisse ad un altro aspirante collaborazionista, Vittorio Pace: “anche io mi trovo nelle stesse condizioni e sto brigando per andare all’estero”.[54] Brigava, il Calligaris, e, visto che l’ambasciata di Mosca non si muoveva senza contropartita è intuibile quali fossero i servigi da rendere in cambio del rimpatrio e dell’impunità!
In un prezioso documento dell’ambasciata italiana del 1937 viene data notizia dell’arresto di un complice di Calligaris, “il connazionale Giovanni Belussich”. L’ambasciatore, nella sua comunicazione, fornisce dettagliate notizie di un altro losco personaggio, Maris Baldini; secondo un copione già recitato da altre spie, il Baldini “ammise, infatti, di essere […] in cuor suo, avversario del bolscevismo sovietico. […] In conclusione il Baldini pregò questa Regia Ambasciata di munirlo di passaporto e di facilitargli l’uscita dall’Urss protestando che, appena all’estero, avrebbe iniziato una lotta accanita contro l’URSS”.[55]
Proseguiamo occupandoci di Rossi Angelo, iscritto al Pcd’I dal 1924, che emigrò in URSS nel 1931. Lavorò in una fabbrica di automobili a Gor’kij e divenne abituale confidente dell’ambasciata fascista. In un telespresso dell’ambasciata di Mosca al Ministero dell’Interno si diede notizia che il Rossi, “durante la sua breve permanenza presso l’Ambasciata ha fornito informazioni su fuorusciti italiani da lui conosciuti che sembrano attendibili, avendo risposto esattamente anche ad alcuni quesiti positivi a titolo di controllo”;[56] l’ambasciata ebbe ad esprimere parere favorevole alla richiesta di rimpatrio ribadendo “il parere, già espresso in altre circostanze, che il ritorno in Italia di connazionali […] non può che essere utile ai fini della propaganda anticomunista”.[57] Scoperto, Rossi venne condannato a tre anni di reclusione per spionaggio.
La fece franca, invece, Casimiro Mussunich che, nell’aprile del 1930, avendo fiutato il pericolo di essere smascherato, pensò bene di partire alla volta di Brindisi dove fornì un dettagliato elenco di nomi ed episodi ritenuti utili dallo spionaggio fascista;[58] Silvio Maranghi, arruolatosi anch’egli nella folta schiera degli informatori dell’ambasciata italiana, venne espulso dall’URSS ed il rimpatrio fu accompagnato dalle encomiastiche considerazioni dell’ambasciatore in persona che scrisse: “Il Maranghi che ho motivo di ritenere pentito dei passati trascorsi, ha fornito e sta fornendo notizie assai utili alla identificazione dei fuorusciti italiani di cui si ignorava la presenza nell’URSS”.[59]
Molto interessante è la vicenda di Emilio Guarnaschelli, un’altro losco personaggio sul cui presunto “martirio si sono sprecati fiumi d’inchiostro.[60] Eppure chi fosse Guarnaschelli era chiaro già negli anni trenta: “l’Unità” clandestina pubblicò, a proposito del fratello Mario, un articolo in cui si affermava: «È da molto tempo che sul conto del Guarnaschelli Mario gravano dei sospetti. questi sospetti si sono maggiormente accentuati quando, tra l’altro tentò di intrufolare suo fratello Emilio, raccomandandolo vivamente perché fosse mandato in URSS. Fallito il tentativo di recarvisi munito di una nostra raccomandazione, l’Emilio Guarnaschelli, fratello di Mario, raggiunse illegalmente l’URSS, dove svolse dell’azione controrivoluzionaria. Arrestato e condannato alla deportazione per tale sua azione, il Guarnaschelli Mario intervenne in difesa del fratello tentando di scagionarlo, e il “Popolo d’Italia” a sua volta in un trafiletto pubblicato nel numero del 17 maggio u.s., assunse la difesa del Guarnaschelli Emilio e di altri controrivoluzionari arrestati e condannati nelle stesse circostanze».[61]
Quanto denunciato dal giornale comunista trova puntuale conferma nelle fonti archivistiche che abbiamo esaminato.
In un telespresso dell’8 gennaio 1934, diretto al Ministero degli Affari Esteri l’ambasciatore scrisse: “Onoromi informare l’E.V. che Guarnaschelli Emilio si è presentato oggi a questa Regia Ambasciata per chiedere il rinnovo del passaporto e possibilmente per estenderne la validità in Belgio. Ho approfittato di tale circostanza per interrogarlo circa i suoi precedenti, specie in linea politica. Il Guarnaschelli ha dichiarato di non aver appartenuto in Italia ad alcun partito e di non aver svolto nessuna attività contraria al Regime”.[62]
Guarnaschelli era un assiduo frequentatore dell’ambasciata italiana: il 5 settembre dell’anno precedente vi si era recato facendo una dettagliata relazione sulla sua attività in Unione Sovietica ed “ha chiuso la sua deposizione col dichiarare che, essendo profondamente deluso dei sistemi sovietici e della vita dell’URSS, ha un solo desiderio: quello di poter al più presto far ritorno in patria”.[63]
La “patria” a cui si riferiva Guarnaschelli era l’Italia fascista che dimostrava di “aver imparato ad amare”.[64] L’ambasciata rilevava positivamente il lessico filofascista usato da Guarnaschelli nelle sue comunicazioni all’ambasciatore del genere “Italianamente la ossequio” oppure “salutarla italianamente e con tutta sincerità”[65] che dimostrano l’avvenuta conversione del figliol prodigo Guarnachelli all’ideologia mussoliniana.
Oltre all’ambasciata di Mosca, un altro centro di reclutamento di spie e collaborazionisti del fascismo fu attivo nella città di Odessa dove la vicinanza del porto e la presenza di navi italiane facilitava notevolmente il lavoro spionistico di reclutamento, raccolta e trasmissione di informazioni.
In quella città operò il vercellese Giulio Jon Scotta; già attivista del Soccorso rosso internazionale, emigrato nel 1922 in Unione Sovietica, Scotta divenne confidente assai apprezzato del console italiano di Odessa che vantava anche il “contatto”, cioè l’arruolamento, di altre spie.
Il console di Odessa comunicò l’avvenuto arruolamento della spia vantandosene in un telegramma inviato al Ministro dell’Interno: “Riuscii finalmente a persuaderlo a darmi informazioni sull’attività dei fuoriusciti nell’URSS, e in breve egli divenne confidente sicuro e informato. Non solo, ma per mezzo suo ho potuto essere in contatto di sovversivi di qualche rilievo come il Gherbovaz Eugenio, il Serpo Dante ed altri, dei quali mi sono già servito e più mi servirò in avvenire.
Mi corre l’obbligo di dichiarare all’E.V. che nel rendere questi servigi al rappresentante del Governo Fascista, lo Scotta non si mostrò animato da basso desiderio di lucro, né dal timore delle punizioni che potrebbero attenderlo in Italia. Al contrario si dichiarò convertito dall’esperienza fatta a proprie spese, e animato dalla volontà di redimersi. Dati i servigi ch’egli ha resi al Consolato, talvolta con documentato rischio personale, non ho ragione di dubitare della sincerità dei suoi sentimenti. […] Quanto alla colpa di appartenere al partito comunista, essa è quella che pone lo Scotta in grado di fornire al Governo notevoli informazioni, non solo sull’attività dei fuoriusciti italiani nell’URSS, ma anche sulla propaganda del Comintern all’estero”.[66]
Da questa testimonianza diretta si evince che Scotta fu determinante per il potenziamento della rete spionistica in Unione Sovietica;[67] i due complici che Scotta aveva reclutato, Gherbovaz e Serpo, colti con le mani nel sacco, vennero arrestati nel giugno 1928, condannati per spionaggio, in base al codice penale sovietico, a dieci anni di carcere.
Un ruolo di primo piano nell’apparato spionistico fascista era svolto da Vladimiro Aulich; su di lui esiste una preziosa testimonianza del console Toncker che scrisse al Ministero dell’Interno informando di avergli procurato “una macchina fotografica e spero al suo ritorno di essere in grado di fornire dettagliate notizie circa tutti gli italiani addetti alla propaganda e di poter inviare le loro fotografie. […] Finora gli ho corrisposto piccole somme in proporzione ai servizi resi, ritirando da lui ricevute o iscrivendo l’ammontare sulla contabilità trimestrale citando il solo numero di autorizzazione”.[68] La carriera di Aulich venne bruscamente interrotta dall’arresto della spia, avvenuto nel mese di giugno 1927.
Sempre ad Odessa agì Angelo Cardamone. Iscritto al partito comunista di Teramo sin dalla sua fondazione, Cardamone fu colpito da mandato di cattura e nel giugno dello stesso anno emigrò in Unione Sovietica; insofferente al lavoro mutò spesso professione e residenza fino ad impiegarsi come conduttore di trattori ad Odessa nel 1926, mettendosi ben presto sul libro paga dell’ambasciata in cambio della promessa del rimpatrio e dell’immunità. Nel memoriale che egli stesso inviò a Mussolini, il 3 febbraio 1931 ebbe modo di scrivere: “Mi recai al R. Consolato italiano a Odessa per ottenere il passaporto, lo tenni subito informato di quanto ero venuto a conoscenza durante i miei 5 anni di residenza in Russia […]. Finito in Italia, senza perder tempo mi misi in contatto con la R. Questura di Teramo lavorando sempre come informatore”. [69]
Un complice di Cardamone, Otello Gaggi, non riuscì a farla franca. Un telespresso dell’ambasciata di Mosca informa che il Gaggi “si era amaramente pentito dei suoi trascorsi sovversivi in Italia. Questi suoi rammarichi, trapelati fra i compagni, gli avevano valso l’espulsione dal p.c.i.”;[70] di lì a poco iniziò a fare il delatore ma venne scoperto e condannato.[71]
Vittorio Flego, scaricatore al porto di Trieste aderì ad una cellula clandestina del Partito comunista nel 1927; successivamente espatriò in Jugoslavia, poi in Francia e da lì si stabilì in Svizzera da dove dovette fuggire a seguito del tentato omicidio di una spia, Dante Venzi. Giunto in Unione Sovietica con la convinzione di poter oziare a suo piacimento nella Casa degli emigrati politici, nell’inverno 1933-34 venne assegnato alla fabbrica di attrezzi agricoli “Rivoluzione d’Ottobre”. Lì Flego si rese conto che la vita agiata e piena di privilegi che si aspettava era inipotizzabile; nel paese dei Soviet tutti, ed a maggior ragione i comunisti dovevano dare il loro contributo. Flego decise allora di trovare una fonte facile e redditizia di guadagno rappresentato dalla vendita di informazioni e servizi all’ambasciata italiana; si recò al consolato di Odessa dicendosi pentito delle sue scelte passate e stipulò un «compromesso» che ratificava il suo pentimento per le scelte passate e schiudeva le porte alla sua nuova, e remunerativa, attività.[72]
La spia si recò anche nell’ambasciata di Mosca per fornire le sue dettagliate rivelazioni. Arrestato e condannato venne successivamente espulso dall’Unione Sovietica. Rientrato in Italia si presentò alla questura di Trieste. In quell’interrogatorio, avvenuto il 19 settembre 1939, fece i nomi dei comunisti che conosceva e aggiunse di svolgere la sua azione assieme ad un suo degno compare, “De Lazzer Giacomo il quale condivise pienamente le mie idee. Pertanto io e il De Lazzer ci presentammo al Consolato d’Italia di Odessa chiedendo il passaporto per la Francia. […] Ritengo che i motivi del mio arresto furono determinati dal fatto di essere ritenuto fiduciario del Consolato italiano, al quale portavo dei giornali comunisti, e nello stesso tempo fornivo informazioni circa l’attività dei fuoriusciti italiani residenti ad Odessa. Mi risulta che anche il De Lazzer si recava spesso al Consolato per la stessa ragione. Ritengo che i motivi del mio arresto furono determinati dal fatto di essere ritenuto fiduciario del Consolato italiano, e perché sospettato di svolgere propaganda anticomunista”.[73] Particolarmente rilevante è la sua testimonianza rispetto ad un altro cavallo di battaglia della propaganda anticomunista, quello delle presunte torture. Al riguardo la spia Flego affermava: “Durante la mia detenzione nelle carceri sovietiche, sia durante il processo e sia dopo la condanna, non ebbi a subire alcun maltrattamento, degno di rilievo”.[74]
Completiamo il nostro excursus tra gli ex comunisti, passati al servizio del regime fascista, con Libero Giacinto Serrati, nipote dell’ex deputato socialista Giacinto Menotti Serrati, informatore registrato al n. 568 dell’elenco dei confidenti dell’OVRA. Serrati venne lautamente retribuito per i suoi infami servizi dal consolato italiano di Novorossijsk; successivamente contribuì alla raccolta di informazioni sull’organizzazione comunista in Francia; una volta smascherato fu rimpatriato grazie all’intervento del capo della Divisione polizia politica che scrisse: “In questi tempi si è completamente ravveduto orientandosi verso il Regime, ha reso importanti servizi (di ciò si dà notizia in via strettamente segreta) dando così prova certa della sincerità del suo ravvedimento.”[75]
Spie fasciste accusavano: i casi Sereni e Robotti
“Il compito primario dei fiduciari [..] era di seminare sospetti su tutti a piene mani”, ha scritto recentemente lo storico Canali.[76] In effetti i servizi spionistici fascisti programmarono meticolosamente la diffusione di menzogne e calunnie allo scopo di gettare fango e sospetti su comunisti in buona fede.
Le conseguenze, nei piani fascisti, erano certamente devastanti. Cosa poteva esserci di più distruttivo dell’accusa rivolta ad un innocente? Quest’aspetto viene puntualmente rimosso dalla storiografia dominante ed invece di fondamentale importanza per capire che, nello scontro a livello mondiale tra il comunismo e le forze reazionarie, il lavoro sporco fatto dagli agenti fascisti rivestiva un’importanza straordinaria.
L’invenzione di false accuse da parte di spie fasciste riguardò anche dirigenti di primo piano del partito comunista come Sereni e Robotti.
I comunisti sovietici, ma nel caso specifico anche i comunisti italiani in esilio, dovettero affrontare un nemico di cui non si conosceva la strategia e che si era dimostrato di riuscire a penetrare, ai vari livelli, nelle diverse strutture di partito. Divenne indispensabile elevare il livello della vigilanza rivoluzionaria, non trascurare comportamenti e fatti che potevano contribuire a smantellare la rete spionistica con cui il nemico di classe si proponeva di arrivare al completo annientamento delle organizzazioni comuniste e del Paese dei Soviet.
In questo quadro certamente non può meravigliare la lettura di una testimonianza di Amendola che ci riferisce delle accuse infondate costruite da una spia fascista contro Emilio Sereni: “Vennero fatte riunioni anche tra i membri degli apparati funzionanti legalmente nell’emigrazione (La voce degli italiani, l’unione popolare, la casa editrice, ecc.) […]. In una di queste riunioni fu sottoposta a un esame spietato anche la condotta di Sereni. […] Uno dei più inflessibili accusatori di Sereni in tale riunione fu Albo (Eugenio Bianco) che doveva rivelarsi poco tempo dopo una spia dell’OVRA infiltrata nel centro del partito”.[77]
Anche Paolo Robotti venne denunciato da spie fasciste e, dopo alcuni mesi di carcere, fu riconosciuto innocente e pienamente riabilitato.
La tecnica adottata, da parte delle spie scoperte (ma, a maggior ragione, da parte di quelle che riuscirono a mascherare la loro squallida attività) fu quella di accusare innocenti per distruggere la fiducia nel partito, nel potere sovietico e nel comunismo.
Un famoso dissidente sovietico come Medvedev ha scritto, a proposito dei complici di Bucharin, che il biologo Slepkov denunciò 150 comunisti assolutamente innocenti, mentre Sokol’nikov diede indicazione di “denunciare” “tutti coloro che stavano aiutando Stalin, gli apparatciki di partito, i funzionari della NKVD”.[78]
“C’erano altri, numerosi – scrisse Robotti – […] che invece sostenevano doversi firmare qualsiasi accusa e qualsiasi confessione, anche la più infamante, pur di tirare dentro più gente possibile, confondere le carte il più possibile per determinare, infine, un intervento del partito e danneggiare al massimo l’apparato politico e amministrativo”. [79]
Come ben si vede la strategia della calunnia anticomunista non era un accidens che riguardava un caso specifico nè, tantomeno, era limitato solo agli ambienti dell’emigrazione italiana in URSS.
Nonostante questo si può dire che la vigilanza rivoluzionaria dei comunisti italiani, in collaborazione con la giustizia sovietica, riuscì a contenere l’azione distruttiva delle spie presenti nel territorio sovietico, e contribuì allo sviluppo di formidabili organizzazioni comuniste nel mondo e all’edificazione del socialismo in URSS.
Le “torture staliniane”: un’aberrante leggenda
In quest’articolo abbiamo letto la testimonianza della spia fascista Flego che, tornato al sicuro in Italia, affermò di non essere stato torturato; anche Dante Corneli diede atto di non essere stato sottoposto ad alcuna violenza fisica;[80] persino Nenni non potè fare a meno di affermare: “restano le confessioni che per venire in alcuni casi da uomini i quali fino all’estremo minuto hanno battagliato aspramente con l’accusatore pubblico, non ammettendo che ciò che volevano ammettere, hanno un carattere di veridicità difficilmente contestabile”;[81] più di recente Medvedev, a proposito del processo a Bucharin, ha riconosciuto che non risulta che sia stato sottoposto a torture. Comincia ad emergere, con difficoltà, controcorrente rispetto ai luoghi comuni consolidati per decenni, l’assoluta fragilità ed inconsistenza della leggenda delle “torture staliniane”.
Ancora oggi autorevoli specialisti dell’anticomunismo, che si pretende di elevare al rango di storia, scrivono: gli arrestati venivano “seviziati, torturati, picchiati a sangue”[82] ed aggiungono che “i verbali di interrogatorio vanno letti ricordando che le dichiarazioni in essi riportate furono estorte sotto tortura”.[83] Questa tesi viene presentata come una verità incontestabile, talmente ovvia da non meritare alcuna documentazione. Nessuno studio, ma neanche la più rozza propaganda, ha fornito una qualche documentazione di questa “verità”. Eppure gli archivi sovietici sono a disposizione di tutti, gestiti da governi anticomunisti ed aperti ad avventurieri della storia che ne possono disporre a loro piacimento.[84]
C’è anche chi, con grave superficialità, ha pensato bene di fare riferimento ad un (presunto) principio d’autorità: il teorema della “tortura staliniana” – tanto pubblicizzato quanto indimostrato – sarebbe vero in quanto conforme a quanto scrivevano due pseudo-studiosi, F. Beck e W. Godin.[85] Sembra un inestricabile labirinto dove la documentazione sfugge costantemente: “possiamo affermare con assoluta fiducia – hanno scritto questi due luminari – che la stragrande maggioranza dei detenuti si sentiva […] innocente”.[86] Alla fine si arriva al capolinea: o si ha fede, “assoluta fiducia”, nelle tesi maccartiste diffuse agli inizi degli anni ’50 (una fiducia, è facile comprendere, che può trovare il proprio fondamento solo in sedimentati pregiudizi ideologici) oppure la costruzione propagandistica delle “torture” crolla miseramente.
Senza temere il ridicolo il team di professionisti dell’anticomunismo insiste ancora, fornendo un’ultima, “decisiva”, prova: “il fatto che gli inquirenti ricorressero alla tortura è evidente anche dai verbali del dossier Citterio”; la “tortura” consisteva nel fatto che “Citterio fu interrogato ripetutamente dal 17 giugno al 27 agosto 1940, quasi sempre di notte, com’era nella pratica dell’NKVD”.[87]
Nell’epoca in cui le moderne democrazie occidentali si caratterizzano per esempi di “legalità” che si concretizzano nelle bestiali torture di Abu Ghraib o Guantanamo, c’è da restare allibiti a leggere questo miserevole scoop propagandistico che porta ad “inconfutabile prova” di torture l’orario notturno degli interrogatori!
Eccoli, i miserevoli risultati di tali “studiosi”: dopo aver setacciato gli archivi sovietici selezionando accuratamente il “materiale” da pubblicare, usufruendo anche di finanziamenti governativi,[88] si arrampicano sugli specchi; è la storia, ma non quella dei fatti. E’ la storia della propaganda politica, la più becera, che ci riporta indietro al tempo delle fandonie con cui Scelba e De Gasperi riempivano i loro comizi nell’immediato dopoguerra.
Alcune considerazioni conclusive
Concludiamo rispondendo ad un interrogativo che non riguarda solo la situazione dei comunisti italiani in URSS ma che può essere esteso anche ai processi che smantellarono la rete spionistica presente in URSS negli anni ‘30: furono fatti errori? È possibile che vennero condannati comunisti innocenti? Certamente è possibile. Ma non spetta alle forze reazionarie, agli anticomunisti rivendicare quei fatti, ricordare eventuali condanne ingiuste; i reazionari che oggi li ricordano non fanno altro che infangarne il nome e la memoria. Se vi furono delle vittime innocenti, nello scontro inedito e durissimo tra il comunismo e le forze reazionarie nel secolo scorso, queste sono da annoverare a pieno titolo tra i caduti del proletariato nella lotta per la propria emancipazione. È possibile, in una guerra di classe che, tra i prezzi da pagare, a causa dello sporco lavorio del nemico, si possano provocare vittime nelle proprie file, ma in nessun caso esse possono essere ricordate dai corifei del sistema capitalistico in tutte le sue varianti, passate e presenti, siano esse “democratiche” o fasciste. Anteriormente all’avvento della prima società socialista la storia del genere umano era stata esclusivamente storia di assassini, torture, massacri, sfruttamento bestiale ai danni degli oppressi da parte degli oppressori; nel secolo scorso, per la prima volta, gli oppressi hanno ripreso possesso del loro destino ed hanno combattuto, senza precedenti esperienze e sotto la minaccia dell’annientamento, una guerra di classe per edificare una nuova civiltà. Inorridire di fronte alla moralità della violenza rivoluzionaria è moralismo dell’anima bella, conservatore del capitalismo imperialista.
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[1] Cfr. Il caso Calligaris, in “Il popolo d’Italia”, 08/12/1933, e pubblicato anche in E. Susmel – D. Susmel, Opera omnia di Benito Mussolini. Appendice I. Scritti (1907-1945), Volpe, Roma, 1978, pp. 412-413.
[2] Ultima perla in ordine di tempo il volume di G. Lehner – F. Bigazzi, Carnefici e vittime. I crimini del Pci in Unione Sovietica, Mondadori, Milano, 2006, dove i due “storici” hanno “assurto a imperativo morale, principio e valore” del loro libro “l’anticomunismo” (p. 4). E non si tratta certo dell’unico caso di dichiarata propaganda politica presentata come ricerca storica.
[3] Per i documenti consultati e riportati in quest’articolo vengono utilizzate le seguenti abbreviazioni: ACS (Archivio Centrale dello Stato), ASDMAE (Archivio del Ministero degli Esteri), AGR (Affari Generali e Riservati), CPC (Casellario Politico Centrale), PS (Pubblica Sicurezza), b. (busta), f. (fascicolo).
[4] Il ruolo fondamentale rivestito dallo spionaggio in funzione anticomunista nel territorio dell’Unione Sovietica è sottolineato in uno scritto di Paolo Robotti, uno dei più importanti dirigenti del Pcd’I, negli anni dell’esilio in Urss, che puntualizzava: “L’avanzare della reazione in Italia, Ungheria, Jugoslavia, Austria e Germania aveva frantumato le organizzazioni di sinistra dei lavoratori. Ce n’era abbastanza per arrivare a comprendere che nell’Urss erano stati inviati agenti provocatori, spie, sabotatori per colpire e agire in ogni campo, per corrompere ed incoraggiare elementi deboli delle passate opposizioni” (P. Robotti, Scelto dalla vita, Napoleone, Roma, 1980, p. 286).
[5] In G. Amendola, Storia
del Partito comunista italiano 1921-1943, Editori Riuniti, Roma, 1978, p. 358.
[6] In R. Caccavale, I comunisti italiani in Unione Sovietica, Mursia, Milano, 1995, p. 18. A conferma delle affermazioni di Pajetta, Paolo Robotti scriveva. “Gli arresti di emigrati politici in Urss avevano come presupposto “l’invio a Mosca come «accompagnamento» del compagno emigrato di una brutta nota «caratteristica». Da quelle caratteristiche partirono le […] istruttorie degli inquirenti” (P. Robotti, Scelto dalla vita, cit., p. 355).
[7] Il lavoro non era certo una passeggiata. Ricordava Robotti: “Foschi […] di fronte alle difficili condizioni non seppe resistere al lavoro che doveva essere fatto e piantò in asso il colcos. […] Cito il fatto perché si comprenda quanti erano allora i sacrifici che bisognava sopportare nelle campagne ancor di più che nelle città” (P. Robotti Scelto dalla vita, cit., p. 263).
[8] “Chi […] collaborò – lamenta lo storico Canali – non ha purtroppo lasciato una testimonianza onesta della sua esperienza, poichè evidentemente nessuno se la sentì di tornare con la memoria nell’inferno delatorio, e magari decidere liberamente di liberarsene raccontandolo” (in M. Canali, Spie del regime, il Mulino, Bologna, 2004, p. 153).
[9] “In Crimea, a Kerc, vi erano circa 2000 emigrati italiani di lunga data. Erano famiglie di vecchi emigranti della provincia di Bari alle quali il console fascista di Odessa, a mezzo di un sacerdote della locale chiesa cattolica, dedicava molte cure perché, diceva lui, «quella gente non perdesse la propria italianità». In concreto però, in nome della italianità o in nome di questa fede cattolica, quei due personaggi e i loro agenti svolgevano attività di propaganda antisovietica e anche di sabotaggio del «colcos» che quegli italiani avevano costituito anche con grossi appezzamenti di terra loro assegnati, gratuitamente, dal Soviet locale in aggiunta della terra che già possedevano, in proprio, prima della Rivoluzione” (P. Robotti, Scelto dalla vita, cit., p. 254).
[10] Ibidem, p. 252.
[11] Ma per Robotti andava tutto bene “si erano affiatati i compagni, eliminando gli elementi di pettegolezzo, anche politico, preesistenti; […] si erano ridotti al silenzio certi «brontoloni» sulle difficoltà transitorie di quel periodo; […] fra gli italiani di Odessa avevamo bloccato ogni attività fascista del Consolato italiano” (P. Robotti, Scelto dalla vita, cit., p. 275).
[12] Robotti ebbe a scrivere di aver concordato con “alcuni membri responsabili dell’apparato del C.C che lo approvarono senza osservazioni” (del PCUS kruscioviano, n.d.a.) un suo scritto sulle “illegali repressioni” (P. Robotti, Scelto dalla vita, cit., p.356). E’ la dimostrazione più netta dell’uso politico della storia di quegli anni, che doveva essere letta alla luce delle “verità” di Krusciov.
[13] Purtroppo mancano i fascicoli personali delle spie depositati presso l’ambasciata italiana di Mosca e distrutti, nel giugno 1941, dal personale diplomatico della stessa ambasciata (ne parla l’ambasciatore Augusto Rosso nel suo diario pubblicato da M. Toscano, L’intervento dell’Italia contro l’Unione Sovietica del 1941, visto dalla nostra Ambasciata a Mosca, II, in “Nuova Antologia”, aprile 1962, pp. 449-450).
[14] Ancora oggi, in scritti recenti, si ripropone ancora la logora menzogna delle “immaginarie organizzazioni spionistiche” fasciste in Urss (così E. Dundovich – F. Gori, Italiani nei lager di Stalin, Laterza, Roma-Bari, 2006, p.24).
[15] “Stato Operaio” descriveva così il comportamento di Tlutos: “Ha accettato di discutere con gli agenti dell’Ovra, ha spiegato il comunismo agli ovristi (!!) ha fatto delle ammissioni su questo o quel punto, ha condotto a spasso per Bologna, Milano e Trieste gli agenti dell’Ovra «per ingannarli» ma in realtà ha dato all’Ovra qualche cosa.” (Come lavora l’Ovra, in “Stato Operaio”, marzo 1933, p. 154).
[16] Dal verbale dell’interrogatorio di Tlutos datato 20/2/1937 e svoltosi presso la questura di Trieste (in ACS, CPC, b. 954, f. Calligaris Luigi. Tlutos non era intestatario di un fascicolo personale al CPC in quanto cittadino cecoslovacco).
[17] L’ambasciata fascista non rientrava certo tra le abituali frequentazioni dei comunisti in esilio. Come scrive, in una sua testimonianza, un dirigente del partito dell’epoca i comunisti “non passavano mai nei pressi dell’ambasciata italiana. Durante 16 mesi di mia permanenza a Mosca non ho mai saputo in quale via si trovasse l’ambasciata”, W. Schiapparelli, in I compagni. Scritti e testimonianze a cura di E. Rava, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 457.
[18] ACS, Min. Int. PS, AGR, CPC, b. 4668, f. 48008. Scarioli Nazareno.
[19] Ibidem, Dispaccio del 12 ottobre 1938. La spia Scarioli, fu al centro di uno dei più eclatanti casi da campagna di propaganda anticomunista degli anni ’70. A quest’ anima innocente perseguitata dagli stalinisti Ronchey dedicò un articolo (A. Ronchey, La disputa su Togliatti. Chi vuole parlare di Nazareno Scarioli?, “La Stampa”, 30/3/1973) in cui la spia si lamentava del fatto che “venivano e t’arrestavano, senza dire niente”.
[20] Telespresso dell’Ambasciata di Mosca al Ministero degli Esteri e al Ministero dell’Interno, 27/8/1933, significativamente intitolato “L’organizzazione comunista italiana a Mosca”, in ACS, Min. Int., PS, AGR, CPC, b. 2631, f. 99980 Imprudenti Mario.
[21] Ivi.
[22] Si veda al riguardo ACS, min. Int., PS, AGR, 1936, b. 33, f. K1B Partito comunista, rivelazioni Imprudenti 1934-1935-1936.
[23] In ACS, Min. It. PS, AGR, CPC, b. 3634, f. 99952 Pace Vittorio.
[24] Arosio, Garobioli e Pace vennero interrogati dalla polizia fascista tra il 12 e il 14 febbraio 1933. Negli archivi sono reperibili i verbali di Arosio e Garobioli in ACS, Min Int., PS, AGR, CPC, b. 198, f. 97663 Arosio Angelo e b. 2291, f. 97382 Garobioli Angelo.
[25] Cfr. Un traditore, in “l’Unità”, n. 1, 1934.
[26] In ACS, Min. Int., PS, AGR, CPC, b. 4089, f. 32313.
[27] Le citazioni che si riferiscono a Tolentino sono tratte dal telespresso del 25 maggio 1933, inviato dall’Ambasciata di Mosca al Ministero dell’Interno (in ACS, Min. Int., PS, AGR, CPC, b. 5122, f. 19311 Tolentino Luigi n. 39969).
[28] In ACS, Min. It., PS, AGR, sez. 1, b. 27, f. Russia.
[29] Cfr. al riguardo ACS, MIN. Int., PS, AGR, 1934, b. 51, f. K1B Parigi Partito Comunista Italiano.
[30] Lettera dell’ambasciatore a Dino Grandi, Ministro degli Affari Esteri, 27/9/1929, in ACS, Atti diversi, 1898-1943, b. 4, f. 27.
[31] ACS, Min. Int.. PS, AGR, CPC, b. 4223, f. 12661, Randich Alberto. Si trattava di una spia “di lungo corso” visto che in un altro telespresso del 21 aprile 1928 si può leggere: “Dietro istruzioni impartitegli il nostro fiduciario Randich, ha, lunedì scorso, visto il prof. Verdato. Questi lo accolse cordialmente nella sua camera dell’Hotel Lux nella quale il fiduciario notò solo un lettino da scapolo, molti libri e giornali sparsi dappertutto”, in ACS, Min Int. AGR, CPC, b. 2343, f. 17371 Germanetto Giovanni.
[32] Francesco Nudi fu un dirigente di primo piano dell’Ovra negli anni ’30.
[33] ACS, Min. Int. PS, KR OVRA, b. 2, f. Partito comunista. Servizio organo centrale, sf. II. Cfr. anche “Un provocatore. Guglielmo Jonna”, “l’Unità”, n. 1, gennaio 1929.
[34] Si veda, al riguardo, B. Tosin, Con Gramsci. Ricordi di uno della vecchia guardia, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 82 e C. Ravera, Diario di trent’anni. 1913-1943, Editori Riuniti, Roma, 1970, p. 515.
[35] Così lo definisce M. Canali, Spie del regime, cit., p. 465.
[36] Cfr., al riguardo, ACS, PS, OVRA, b. 2-bis e C. Pillon, I comunisti nella storia d’Italia, Il calendario del popolo, s.d., vol. 1, p. 366.
[37] La citazione è contenuta in G. Zaccaria, A Mosca senza ritorno, Sugarco, Milano, 1983, p. 90.
[38] Il telespresso dell’ambasciata è contenuto in ACS, Min. Int., PS, AGR, CPC, b. 3967, f. 11924 Petrini Alfonso.
[39] La richiesta venne favorevolmente accolta; a margine del telespresso dell’ambasciatore Cerruti è, infatti, annotato: “per ciò che riguarda il sussidio come d’accordo col cav. Di Stefano provvede la Div. Polizia Pol.”, in ACS. Min. Int., PS, AGR, 1927, b. 164, f. J4, Movimento sovversivo estero. Russia.
[40] In ACS, Min Int., PS, AGR, Atti diversi, 1898-1943, b. 4, f. 27. Persino un anticomunista come Dante Corneli, non potè fare a meno di definirlo: “spia fascista che aveva fornito alla polizia italiana importanti notizie sull’attività clandestina che il partito svolgeva in Italia (in Lo stalinismo in Italia e nell’emigrazione antifascista, s.e., Tivoli, 1979, vol. 3, p. 32).
[41] Cfr. la voce Ambrogi in F. Andreucci – T. Detti, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, Editori Riuniti, Roma, 1975, p. 60.
[42] Telespresso del 16 marzo 1937, in ACS, Min. Int., PS, AGR, CPC, b. 4748, f. 81194, Sensi Giuseppe.
[43] Telespresso del 18 dicembre 1936 in ACS, Min. Int. PS, AGR, CPC, b. 5231, f. 25488, Trovatelli Plinio.
[44] In ACS, Min. Int.. PS, AGR, CPC, b.4922. Un’importante testimonianza sulle conseguenze che il tradimento di Sportelli ebbe sulla rete organizzativa del partito a Brescia è contenuta in P. Corsini – G. Porta, Avversi al regime. Una famiglia comunista negli anni del fascismo, Editori Riuniti, Roma, 1992, pp. 148 e 321-23.
[45] Silone parla del “collega” Sportelli in una nota firmata con il suo pseudonimo, “Silvestri”, priva di data, ma molto probabilmente risalente alla seconda metà del 1928 (in ACS, Pp Materia, b. 95).
[46] Si veda, a tal proposito, D. Biocca, Ignazio Silone e la polizia politica. Storia di un «informatore», (in “Nuova Storia Contemporanea”, n. 3, maggio-giugno 1998, pp. 67-90), M. Canali, Il fiduciario «Silvestri». Ignazio Silone, i comunisti e la Polizia politica fascista, (in “Nuova Storia Contemporanea”, n. 1, gennaio-febbraio 1999, pp. 61-80).
[47] La richiesta. datata 24/12/1936, si trova in ACS, CPC, b. 3813.
[48] Nello stesso riferimento archivistico indicato nella nota precedente è possibile leggere la lettera citata, inviata da Managua il 19 settembre 1938.
[49] Cfr. Il caso Calligaris, in “Il Popolo d’Italia”, 8 dicembre 1933, cit.
[50] In G. Lehner – F. Bigazzi, Carnefici e vittime. I crimini del Pci in Unione Sovietica, cit., pp. 122-123.
[51] Si veda Il caso del comp. Calligaris in Russia in “Prometeo”, n. 96, 26 novembre 1933.
[52] Eppure i redattori di “Prometeo” conoscevano bene la presenza di spie e sabotatori all’interno dell’Unione Sovietica se è vero che essi stessi scrivevano: “Esistono controrivoluzionari che […] sono al servizio dei governi capitalisti e che partecipano attivamente all’opera di sabotaggio industriale, si fanno impresari di imprese di spionaggio, preconizzano il ritorno delle classi spodestate nell’Ottobre 1917 e che hanno ben altre condizioni di vita. Presi in flagrante delitto di spionaggio, al servizio di un governo imperialista, questi figuri sono colpiti, per tutta condanna, dal bombardamento di minacce”.
[53] In ACS, Min. It., PS. AGR, CPC, b. 3634, f. 99932, Pace Vittorio.
[54] Ibidem.
[55] ACS, Min. Int., PS, AGR, CPC, b. 471, f. 130788 Bellusich Giovanni.
[56] Telespresso del 12/6/1940, in ACS, CPC, b. 4431.
[57] Telespresso dell’ambasciata italiana a Mosca, indirizzato al Ministero degli interni e, per conoscenza, al Ministero degli esteri. del 10/6/1940 in ACS, CPC, b. 4431.
[58] Il verbale dell’interrogatorio di Mussunich, redatto dall’ispettore Nudi, è inserito nel fascicolo di Francesco Prato (ACS, Min. Int. PS, AGR, CPC, b. 4115, f. 10816, Prato Francesco). Di Mussunich si occupò anche “l’Unità” che segnalò l’attività della spia sulle colonne del giornale pubblicato clandestinamente (n. 5, 20 aprile 1930).
[59] In ACS, Min. It., PS, AGR, CPC, b. 3013, f. 21015 Maranghi Silvio.
[60] Una fiorente letteratura anticomunista si è consolidata, nel corso degli anni su Guarnaschelli: ricordiamo, tra gli altri: A. Venturi, “Compagni, ci siamo sbagliati, coraggio”, in “La Stampa” 21 marzo 1979; C. Granata, Quel ragazzo vittima di Stalin, in “La Stampa”, 30 marzo 1979; ed ancora, articolo non firmato, Guarnaschelli. la cupa ombra del passato stalinista, in “Avanti!”; 11-12 febbraio 1990, R. Mieli, Togliatti 1937, Rizzoli, Milano, 1964, p. 96; P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Einaudi, Torino, 1970, vol. III pp. 243-244.
[61] “l’Unità”, n. 3, 1936.
[62] In ASDMAE, Affari Politici, 1934, p. 13, fasc. L’assassinio di Kirov.
[63] ACS, Min. dell’Interno, PS, AGR, CPC, b. 2560, f. 93373 Guarnaschelli Emilio, sf. 1.
[64] Telespresso del 19 aprile 1945.
[65] Il riferimento è a due lettere di Guarnaschelli del 5 aprile 1935, inviate dopo il suo arresto all’ambasciatore, con le quali chiedeva un suo intervento per ottenere la liberazione ed il ritorno in Italia.
[66] Telespresso del console Francesco Mariano al Ministero dell’Interno, 26/6/1928, oggetto: Servizio informazioni Odessa in ACS, CPC, b. 2643, f. Jon Scotta Giulio.
[67] “Sul prosieguo della carriera spionistica di scotta ci fornisce preziose informazioni lo storico Canali. “Era rimpatriato dalla Russia alla fine del luglio 1928 e s’era messo a disposizione della POLPOL, che già dal settembre successivo lo prese ad utilizzare, inviandolo in missione tra i centri comunisti all’estero. Viaggiò, tra settembre e dicembre 1928, da Marsiglia a Bruxelles, dal Lussemburgo a Berlino, per cercare d’introdursi di nuovo nel PCD’I, con l’incarico specifico d’individuare i «corrieri» comunisti per l’Italia” (M. Canali, Spie del regime, cit., p. 336).
[68] In ACS, Min. Int., PS, AGR, 1927, b. 164, f. J4, Movimento sovversivo estero, Russia. Stessa fine fece un complice di Aulich, Alessandro Viti, classificato come “socialista” al CPC e condannato a morte in Italia per diserzione. Un telespresso dell’ambasciata di Mosca si comunica in questi termini l’arresto della spia: “Il Viti Alessandro che era confidente di quel R. Consolato (l’ambasciata si riferisce al consolato di Odessa n.d.a.) sarebbe stato condannato in via amministrativa per spionaggio ed attività controrivoluzionaria a dieci anni di deportazione”, in ACS, Min. Int. PS, AGR, CPC, b. 5452, f. 3706.
[69] In ACS, CPC, b. 1071, f. Cardamone Angelo. Isolato in Italia dai suoi vecchi compagni e non potendo più profittare della sua attività di spia, Cardamone diventò dichiaratamente fascista e partecipò, come volontario, alla campagna d’Abissinia nel 1° reggimento granatieri “Savoia”. Il nome di Cardamone è inserito nell’Elenco nominativo dei confidenti dell’O.V.R.A. (in Gazzetta Ufficiale 2/7/1946, p. 4).
[70] Telespresso del 19 settembre 1935, ACS, Min. Int., PS, AGR, CPC, b. 2221, f.31542, Gaggi Otello.
[71] In una lettera del 2 maggio 1935, trascritta dalla Prefettura di Teramo, il Gaggi scrisse alla spia Cardamone: “Tu Angelo […] che fosti un lottatore per il giusto e per il bello, spero che non vorrai ricusare il tuo aiuto al fratello che ti stende la mano”, (ACS, Min. Int., PS, AGR, CPC, b. 2221, f.31542 Gaggi Otello).
[72] Nell’istanza Flego scrisse testualmente: “Io sotto schritto Flego Vittorio […] desidero ritornare nella mia Patria in seno ai famigliari. Partito clandestinamente da Trieste nell’anno 1929 in un attimo di esaltazione dimenticai i miei doveri di cittadino italiano. Mi dichiaro pentito di aver percorso una falsa strada […] e dichiaro fermamente che un giorno entrato nel mio paese non mi occuperò mai più di politica ma dai miei doveri da buon cittadino e della mia famiglia”. (Istanza al Console Generale d’Italia, Odessa, 18/3/1935, in ACS, CPC, f. Flego Vittorio).
[73] Per anni Flego e De Lazzer sono state le icone del dogma delle “persecuzioni staliniane” Vogliamo citare, al riguardo, per il particolare rilievo che assume la testimonianza di Pia Piccioni, moglie di un altro individuo condannato per spionaggio, Vincenzo Baccalà: “Ma perché li hanno arrestati? Flego e De Lazar (è scritto proprio così, n.d.a.) stavano facendo le pratiche per tornare in Italia: non erano liberi di farlo? Flego era cittadino italiano, padrone, secondo me, di andarsene dalla Russia. De Lazer era cittadino russo. Aveva firmato un documento senza conoscere il russo, quindi il documento era senza valore” (P. Piccioni, Compagno silenzio, a cura di Arrigo Petacco, Leonardo, Milano, 1989, p. 110). Lasciamo decidere ai nostri lettori se si tratta di semplice ignoranza o di malafede.
[74] Il verbale dell’interrogatorio di Vittorio Flego, da cui sono tratte le affermazioni che abbiamo citato, è pubblicato in M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 602-609.
[75] Rapporto di Di Stefano, 7/3/1934, in ACS, CPC, b. 4770, f. Serrati Libero Giacinto. Il rapporto continuava disponendo alcune garanzie a tutela dell’informatore n. 568: “Intende stabilirsi ad Imperia […]. Sarà bene disporre nei primi tempi una assai discreta vigilanza non molesta, ad evitare qualche incidente qualora fascisti considerino il Serrati tuttora antifascista o credano che si trovi nel Regno illegalmente”.
[76] M. Canali, Spie del regime, p. 159.
[77] In G. Amendola, Storia del Partito comunista italiano 1921-1943, cit., p. 359.
[78] R.A. Medvedev, Lo stalinismo, Mondadori, Milano, 1972, vol. 2, p. 436.
[79] P. Robotti, Scelto dalla vita, cit., pp. 364-365.
[80] D. Corneli, Il redivivo tiburtino, La Pietra, Milano, 1977, p. 64.
[81] P. Nenni, Luci e ombre del Congresso di Mosca, in XX Congresso del PCUS,Edizioni Avanti!, Milano-Roma, 1956, p. 90.
[82] E. Dandovich – F. Gori, Italiani nei lager di Stalin, Laterza, Roma-Bari, 2006. p. 47.
[83] E. Dandovich – F. Gori – E. Guercetti, Reflections of the gulag, Feltrinelli Editore, Milano, 2003, p. 304.
[84] Al punto che nel 1992 lo “storico” Andreucci alterò alcune documentazioni presenti negli archivi del Komintern. Andreucci venne clamorosamente smascherato da “La Repubblica” (si veda Clamorosa sorpresa negli archivi del Komintern. “Giallo a Mosca manipolata la lettera di Togliatti, 14/2/1992, pp. 1-13); le sue “rivelazioni”, furono esaltate,con involontaria ironia, da F. Bigazzi che le presentò come la “verità sul comunismo” (si veda Migliore o peggiore?, “Panorama”, n. 1348, 16/2/1992, pp. 40 e sgg.). Resta aperto l’interrogativo: quanti Andreucci ci sono in circolazione e si dedicano all’ignobile attività di falsari?
[85] E’ la tesi sostenuta da E. Dandovich – F. Gori – E. Guercetti, Reflections of the gulag, cit., p. 304.
[86] F. Beck, W. Godin, Confessioni e processi nella Russia Sovietica, Firenze, La Nuova Italia, 1953, p. 206.
[87] Sono ancora Dandovich, Gori e Guercetti a scrivere queste amenità nel già citato Reflections of the gulag, p. 304.
[88] Le autrici infatti precisano: “In questa Appendice sono raccolti i risultati di una ricerca sulle vittime italiane delle repressioni in Urss avviata nel 2000 grazie a un finanziamento del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica” (E. Dandovich – F. Gori – E. Guercetti, Reflections of the gulag, cit., p. 301). Nella stessa pagina spiegano, a testimonianza dell’impronta propagandistica di questo lavoro che esso è stato condotto “in collaborazione con l’Associazione Memorial di Mosca”, un’organizzazione che da tempo si distingue per il suo anticomunismo viscerale.