L’esperienza di «Interstampa»: alcune riflessioni (1/2)
Riceviamo e pubblichiamo la prima parte del contributo di Antonio Catalfamo al dibattito su Interstampa avviato sul nostro sito il 2 maggio scorso con la pubblicazione dell’articolo «Ambrogio Donini, Interstampa e lo “strappo”» di Sandro Valentini.
___________________________________
Leggo su «L’Ordine Nuovo», rassegna online di politica e cultura comunista, la testimonianza di Sandro Valentini sull’esperienza di «Interstampa», rivista che riunì, soprattutto dal 1981 in poi, in seguito agli avvenimenti polacchi, i «filosovietici» italiani, impropriamente definiti «cossuttiani». Valentini ‒ com’egli stesso ricorda ‒ fece da tramite tra Armando Cossutta e il gruppo di «Interstampa», autorevolmente guidato da Ambrogio Donini, e poi ebbe un ruolo di rilievo nell’organizzazione della rivista, girando, fra l’altro, l’Italia per costituire redazioni e per allargare l’area dei lettori e dei diffusori.
Personalmente, ho incrociato di sfuggita Valentini allorquando venne in Sicilia, nell’ambito di questa sua attività, e, diretto a Catania, mi telefonò per uno scambio di vedute, in quanto io avevo scritto alcuni articoli pubblicati su «Interstampa» ed ero attivo come diffusore a Barcellona Pozzo di Gotto (provincia di Messina), dove c’erano una trentina di abbonati. All’inizio ‒ ricordo ‒ l’abbonamento annuale costava 10.000 lire.
Credo che la testimonianza di Valentini meriti alcune brevi riflessioni.
Innanzitutto, da essa emerge finalmente che il capo dei «filosovietici» italiani era Ambrogio Donini, non Armando Cossutta. Fu Donini a riunire attorno ad «Interstampa» tutti coloro che, a vari livelli, dai grandi intellettuali (lo stesso Donini, Ludovico Geymonat, Enzo Santarelli, Alfonso M. di Nola, Aldo Bernardini, Mario Alinei, Ruggero Spesso) ai veterani dei comunismo (Paolo Robotti, Alessandro Vaia), ai semplici militanti, consideravano l’Unione Sovietica come un punto di riferimento ideologico e politico dal quale non era possibile prescindere e che, perciò, andava difeso, seppur da un punto di vista critico. Senza l’autorità politico-culturale di Donini questo non sarebbe stato possibile.
E qui mi permetto di aggiungere alcuni particolari. Contro la posizione assunta dal gruppo dirigente del Partito comunista italiano, Ambrogio Donini approva gli interventi dell’Armata Rossa sovietica in Cecoslovacchia, nel 1968, e in Afghanistan, nel 1979. Dissente dalla politica del «compromesso storico» avviata dal segretario nazionale, Enrico Berlinguer, a metà degli anni Settanta. Donini è, dunque, un coerente sostenitore dell’Unione Sovietica e delle sue scelte politiche.
Armando Cossutta ottiene un’accelerazione della sua carriera politica a partire dalla fase della «destalinizzazione», con l’elezione a segretario della Federazione di Milano nel 1958, in contrapposizione ai gruppi di stalinisti impenitenti raccolti a Milano e in Lombardia intorno a Pietro Secchia e a Giuseppe Alberganti, raggiungendo il culmine come coordinatore della segreteria nazionale del partito, sotto le ali protettive di Luigi Longo, del quale condivide senza riserve la scelta di condannare l’intervento sovietico in Cecoslovacchia. Si schiera anche contro la decisione brezneviana di intervenire militarmente in Afghanistan. Non manifesta alcuna ostilità nei confronti della politica del «compromesso storico», anzi, come responsabile degli enti locali a livello nazionale, benedice il patto di fine legislatura sottoscritto in Sicilia da Dc e Pci.
Più che l’«uomo di Mosca» in Italia, come è stato impropriamente definito, è l’uomo del Pci e, in particolare, di Luigi Longo che si occupa dei rapporti con il Pcus, nei suoi molteplici aspetti. Scopre tardivamente il suo «filosovietismo» nel 1981, di fronte agli avvenimenti polacchi, perché ormai, per limiti d’età, è destinato ad essere defenestrato dal gruppo dirigente del Pci.
Eppure a tutt’oggi Ambrogio Donini è rimasto completamente dimenticato, mentre Armando Cossutta vanta tanti estimatori.
Tutti questi elementi della storia personale di Cossutta non vanno trascurati ai fini di un giudizio su di lui che è molto importante per i riverberi che ha sul presente e sul futuro. Se non si libera l’armadio dagli scheletri che vi rimangono nascosti, se non si procede con estrema decisione nell’analisi del passato e nella denuncia dei comportamenti compromissori tenuti da personaggi come Cossutta, culminati, nell’ultima fase della sua vita, nella dichiarazione di voto per il Partito democratico, non potrà nascere un coerente Partito comunista. Se non si va in fondo nell’analisi, vuol dire che non si vuol procedere con linearità e serietà alla costruzione di una forza autenticamente ispirata ai principi del marxismo-leninismo. Vuol dire che s’intende proseguire con i compromessi deteriori, che hanno progressivamente trasformato il Pci da formazione politica totalmente alternativa al sistema capitalistico a «coscienza critica» di esso e, infine, a sua componente fondamentale, assieme agli altri partiti di regime.
Sandro Valentini ci presenta la storia della corrente cossuttiana all’interno del Pci come una «spy story», circondata da un clima di semiclandestinità, caratterizzato da tutta una serie di cautele, incontri segreti, doppiezze. Quello che potrebbe apparire come un punto di forza, in realtà è un punto di debolezza.
Già a metà degli anni Settanta del secolo scorso i tempi erano maturi per la scissione all’interno del Pci, ormai comunista solo di nome, da parte della componente marxista-leninista, per la costituzione di un altro partito. Ma mancò il tempismo, che in politica è decisivo, pur in uomini come Donini.
Ricordo ch’egli, anche in dichiarazioni pubbliche, si appigliava a questioni formali, chiedeva al gruppo dirigente del Pci di esplicitare il proprio abbandono del marxismo-leninismo. Solo dopo si poteva fare la scissione. Non si rendeva conto che il tempo giocava a favore dei suoi avversari e che essi avrebbero deciso di “staccare la spina” quando il processo di mutazione genetica del partito sarebbe stato maturo ed irreversibile.
Cossutta peccò di opportunismo, puntando alla scissione nel momento a lui più utile dal punto di vista personale, Donini di indecisione. Probabilmente anche a Mosca, nella sezione esteri del Pcus, esistevano posizioni differenti e paralizzanti. I vari Ponomariov, Zagladin non avevano le idee chiare o puntavano ad obiettivi diversi. D’altra parte, i risultati del logoramento interno al gruppo dirigente del Pcus sono sotto gli occhi di tutti.
Per quanto riguarda, infine, le rivelazioni relative a buste piene di soldi che arrivavano, Valentini se ne assume le responsabilità. Io ero, al pari di tanti altri, un semplice diffusore e collaboratore volontario della rivista, per cui non so se tutto questo sia vero o meno. Ricordo solo che tutti noi pagavamo regolarmente l’abbonamento, che la rivista era abbastanza diffusa e che intorno ad essa c’era un clima di entusiasmo, non solo negli ambienti intellettuali, ma anche nella base del partito, compresi quelli che operavano all’interno delle fabbriche e dei posti di lavoro. Forse circolava poco tra i giovani, allora lontani perlopiù dal «filosovietismo». Oggi, dopo che l’Urss è crollata, probabilmente le giovani generazioni hanno maggiore consapevolezza di quello che era il suo ruolo di contrappeso rispetto al capitalismo, che attualmente agisce quasi indisturbato, mettendo in discussione tutti i diritti fondamentali conquistati in decenni di lotte durissime.
Antonio Catalfamo
Docente universitario
Barcellona Pozzo di Gotto (Messina)