La scuola e i bisogni dell’economia: i limiti dell’istruzione piegata alle imprese (1/2)
Nell’odierno dibattito sull’istruzione italiana, il tema del finanziamento pubblico assume una rilevanza centrale. Nell’ambito delle democrazie borghesi del secondo Novecento, le riforme sulla scuola, grazie alla presenza delle forze comuniste in campo, hanno assunto una posizione “progressista” facendo avanzare il diritto all’istruzione universale. Nonostante i limiti di quel riformismo, che comunque non eliminava del tutto il carattere classista della scuola italiana, il progressismo di queste riforme ha potuto garantire una formazione di eccellenza a intere generazioni. Questo tipo di istruzione è stato compromesso negli ultimi decenni da una massiccia intromissione dei settori privati nella scuola pubblica, snaturandone le finalità educative. Altresì, questa inversione di rotta, non solo non è osteggiata, ma viene favorita dalle politiche UE, che sin dall’introduzione del Trattato di Maastricht, evidenziano la necessità di stringere legami sempre più stretti tra istruzione ed economia.
Lo stato dell’arte sulla scuola italiana
Sono note pressoché ai più le riforme che, a partire dalla Moratti sino ad arrivare alle recenti Buona Scuola e Decreti firmati Lega-5Stelle, hanno progressivamente contribuito a smantellare un sistema, come quello italiano, d’avanguardia nel mondo. Meno noto è, invece, come queste riforme abbiano inciso, e lo stiano tuttora facendo, sull’apprendimento degli studenti italiani, in particolar modo di quelli delle fasce popolari. Se ormai tutti, dai genitori vecchio stampo ai docenti insoddisfatti, lamentano un drastico abbassamento del livello di istruzione delle nuove generazioni – la così detta inflazione dei titoli di studio (Brint, 2004) -, spesso il tema della qualità della docenza è relegato a un dibattito superficiale, che non riesce mai ad intercettare in modo organico il nesso tra economica capitalistica, taglio della spesa pubblica ed esito educativo. Si dice spesso che la scuola non forma più come una volta, vero, ma chi vorrebbe mai tornare a quel modello gentiliano intriso di classismo liberale che ha solcato le menti della gioventù operaia del secondo Novecento?
Sebbene nell’affermazione che spesso ci sentiamo ripetere, la scuola non forma più come una volta, possiamo ritrovare un fondo di verità, perché è sotto gli occhi di tutti la perdita culturale progressiva che la scuola e la società stanno determinando nelle nuove generazioni, non è possibile limitarsi ad un nostalgico richiamo ad un passato idilliaco che mai c’è stato. La scuola del Novecento è stata innanzitutto una scuola funzionale al modello liberale di quel secolo, una scuola connotata da un autoritarismo pervasivo, di prevaricazione e umiliazione.
La scuola gentiliana, in linea con l’ideologia fascista, aveva come obiettivo primario la suddivisione e cristallizzazione delle classi sociali, il che, trasposto nell’organizzazione scolastica, implicava una fittizia, ma netta, separazione tra le discipline umanistiche e tecniche, relegando l’insegnamento di queste ultime al proletariato.
Allo stesso modo, schiere di nuovi pedagogisti, o presunti tali, strenui difensori delle nuove pratiche didattiche impartite a colpi di webinar – i nuovi seminari online che stanno letteralmente impazzando in epoca di quarantena, spesso attaccano gli insegnanti più reticenti additandoli, nel migliore dei casi, di conservatorismo tradizionale, nel peggiore, di dilettante incomprensione delle nuove frontiere dell’educazione. Al contrario della prima categoria, costoro attribuiscono il fallimento della scuola di oggi a un mancato aggiornamento da parte del personale docente, che sarebbe rimasto ancorato a pratiche vetuste, ormai superate e non più adatte a preparare i giovani al complesso mondo della globalizzazione. Così, spesso, tra i principali fautori dello smantellamento del sistema pubblico attraverso la penetrazione di piattaforme ed enti privati al suo interno, che legittimano di fatto lo Stato a deresponsabilizzarsi del suo ruolo, troviamo proprio insegnanti e dirigenti, in prima linea a sponsorizzare le nuove tecnologie e ad annunciare che la panacea a tutti i mali della scuola è stata finalmente trovata.
Due visioni di scuola apparentemente opposte, eppure estremamente simili tra loro, entrambe frutto dell’asservimento del sistema d’istruzione alle esigenze economiche nazionali e internazionali. Non è la prima volta, d’altronde, che il dibattito politico si polarizza intorno a questioni che, con un linguaggio differente, nascondono le medesime politiche antipopolari. Parlare di educazione e didattica oggi significa innanzitutto oltrepassare le categorie dialettiche tradizione-innovazione per sviluppare un’analisi di classe.
A partire da documenti UE, lo smantellamento della scuola pubblica
Le recenti riforme in fatto di scuola sono il prodotto di direttive europee. Se, infatti, l’Unione Europea non ha il potere di intervenire direttamente sulle politiche scolastiche dei Paesi membri, certo è che nel suo mandato si prefigge il compito di indirizzarne le scelte come viene precisato nel documento il cui obiettivo è “coadiuvare e integrare l’azione degli stati membri ” (Consiglio Europeo, 2006). Nel documento si legge quanto segue:
“L’istruzione nel suo duplice ruolo — sociale ed economico — è un elemento determinante per assicurare che i cittadini europei acquisiscano le competenze chiave necessarie per adattarsi con flessibilità a siffatti cambiamenti […]”
Sin dalle premesse si può facilmente individuare la finalità generale del documento, nel quale si profila un’istruzione funzionale al sistema economico nel quale viviamo, in cui le competenze costituirebbero la chiave di volta per “nuove strategie di competitività”.
Le Conclusioni del Consiglio del 12 maggio 2009 su un quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione («ET 2020») (2009) dedicano ampio spazio al raccordo scuola-impresa:
“Oltre a contribuire alla realizzazione personale, la creatività costituisce una fonte primaria dell’innovazione, che a sua volta è riconosciuta come uno dei motori principali dello sviluppo economico sostenibile. La creatività e l’innovazione sono fondamentali per la creazione di imprese e la capacità dell’Europa di competere a livello internazionale. La prima posta in gioco consiste nel promuovere l’acquisizione da parte di tutti i cittadini di competenze trasversali fondamentali: in particolare le competenze digitali, «imparare ad imparare», lo spirito d’iniziativa e lo spirito imprenditoriale, e la sensibilizzazione ai temi culturali. […]. I partenariati tra il mondo imprenditoriale e i vari livelli e settori dell’istruzione, della formazione e della ricerca possono contribuire a garantire una migliore concentrazione sulle capacità e competenze richieste nel mercato del lavoro sviluppando l’innovazione e l’imprenditorialità in tutte le forme d’insegnamento. Dovrebbero essere promosse comunità di insegnamento più ampie, comprendenti rappresentanti della società civile e altre parti interessate, al fine di creare un clima propizio alla creatività e di meglio conciliare esigenze professionali e sociali, nonché benessere degli individui.”
Il rapporto Eurydice del 2016 dedica un’intera riflessione sull’Educazione all’imprenditorialità a scuola, (Europeo, Rapporto Eurydice, 2016) ribadendo in ogni ordine di scuola la necessità di promuovere lo spirito imprenditoriale in quanto obiettivo strategico fondamentale per i paesi membri. Nelle Conclusioni del Consiglio relative allo sviluppo della scuola e all’eccellenza nell’insegnamento dell’8 Dicembre 2017 (2017), viene inoltre ribadito l’invito agli stati membri di incoraggiare l’insegnamento nelle discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche, (artistiche) e matematiche (discipline STE(A)M) promuovendo le buone prassi, rafforzando la cooperazione delle scuole con i settori dell’istruzione superiore, della ricerca e dell’impresa a livello di UE, e affrontando con efficacia i divari di genere e gli stereotipi.
La Raccomandazione del Consiglio del 22 maggio 2018 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente riconferma questa linea sottolineando nuovamente la necessità di sviluppare nuove competenze imprenditoriali in quanto le competenze richieste oggi sono cambiate: più posti di lavoro sono automatizzati, le tecnologie svolgono un ruolo maggiore in tutti gli ambiti del lavoro e della vita quotidiana e le competenze imprenditoriali, sociali e civiche diventano più importanti per assicurare resilienza e capacità di adattarsi ai cambiamenti.
In un siffatto contesto i documenti presentati precedentemente possono dirsi l’espressione formale del fenomeno neoliberista che vede nell’istruzione l’agente principale della società capitalista, in quanto in grado di far agire e far pensare secondo i nuovi dettami. Dunque, mentre appaiono ormai chiare le sue finalità, è ancora difficile comprendere in che misura l’economia abbia interferito nella didattica scolastica (Grant, 2009, p. ix). Hirtt (2009) nella sua analisi sostiene come i cambiamenti economici abbiano mutato considerevolmente il ruolo della scuola, facendola transitare dall’istruzione di massa alla “mercificazione dell’educazione” (marketization of education) (Hartley, 2003), in quanto istituzione atta ad adattarsi e a meglio sostenere le esigenze della competizione economica attraverso una triplice azione: formazione della forza lavoro, formazione dell’individuo consumatore e formazione dell’individuo competitor. Tali obiettivi, secondo l’autore, sono in grado di coinvolgere ogni aspetto legato all’istruzione quali l’organizzazione, la gestione, le metodologie e addirittura i curricula e i principi pedagogici. Kumar e Hill (2009, p. 1), inoltre, mostrano l’avvento del così detto edubusiness da parte della classe capitalista, la cui agenda si porrebbe le seguenti finalità: un’agenda per l’educazione, risiedente nella forza lavoro, un’agenda nell’educazione, creando un libero mercato scolastico e un’agenda per i privati esterni alla scuola.
Il concetto di competenza e la scuola italiana
Come si può notare, negli ultimi anni si è fatta sempre più avanti una nuova corrente pedagogico-didattica, fondata sul concetto di competenza. Attorno a questo nome si sono costruite le più variopinte teorie e le si sono attribuiti significati spesso contraddittori fra loro.
Le istanze espresse nella Raccomandazione europea sembrano incarnare fedelmente la situazione appena dipinta, in particolar modo per quel che concerne il tema delle competenze.
La definizione di tale concetto è tutt’ora dibattuta e controversa e fatica a conciliare all’unanimità gli studiosi. Pellerey (2004) definisce la competenza come la “capacità di far fronte ad un compito, o ad un insieme di compiti, riuscendo a mettere in moto e ad orchestrare le proprie risorse interne, cognitive, affettive e volitive, e a utilizzare quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo”, mentre per Rosario Drago (2000) essa “è essenzialmente ciò che una persona dimostra di saper fare (anche intellettualmente) in modo efficace, in relazione ad un determinato obbiettivo, compito o attività in un determinato ambito disciplinare o professionale. Il risultato dimostrabile ed osservabile di questo comportamento competente è la prestazione o la performance”. In ultimo, si può fare riferimento alla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio sul Quadro europeo delle qualifiche e dei titoli per l’apprendimento permanente (23 aprile 2008) in cui le competenze “indicano la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale. Nel Quadro europeo delle qualifiche e dei titoli le competenze sono descritte in termini di “responsabilità e autonomia”.
È innanzitutto necessario chiarire una cosa: sin dal primo pedagogista della storia, Quintiliano, e, andando ancora più indietro ai filosofi socratici, l’educazione e la formazione dell’uomo hanno costituito un elemento imprescindibile per la riflessione filosofica. Tutti i più grandi intellettuali hanno, più o meno organicamente, elaborato teorie su quale potesse essere la formazione per eccellenza del fanciullo. Così all’interno della parola competenza si ritrovano tutti i presupposti più lodevoli: la costruzione sociale della conoscenza, la varietà delle metodologie da utilizzare, la visione attiva del fanciullo, la valutazione formativa, la personalizzazione opposta all’omologazione coatta e soprattutto l’idea di allontanarsi da quell’apprendimento nozionistico memore della così tanto vituperata scuola tradizionale. Insomma, principi che qualunque insegnante cerca di sviluppare nella sua pratica a scuola.
Parrebbe strano che nessuno prima dell’OCSE si sia mai preoccupato di far progredire intellettualmente i propri studenti e si sia sempre limitato al solo apprendimento mnemonico.
Anna Angelucci (2019) nella sua critica alla nuova pedagogia del terzo millennio, prendendo a prestito il concetto gramsciano di egemonia culturale secondo il quale la lingua pone una più vasta questione politica di dominio sociale, mette in luce quanto il termine ‘competenze’ non sia affatto neutro e non ideologico, ma che per comprendere le finalità di questo progetto sovranazionale, occorre analizzare gli ambiti extrascolastici dalla quale la definizione giunga e la modalità con la quale questi significati si radichino nel senso comune, ricreando un’asimmetria tra i creatori del significato e i riceventi che, per passività, inconsapevolezza, mancanza d’informazione o perché inseriti in una ricerca scientifica condizionata da interessi economici e politici, spesso ne subiscono acriticamente l’influenza. Angelucci definisce gli attuali cambiamenti didattici come:
“La risemantizzazione in chiave pedagogica di una parola d’importazione, fatta oggetto di una risignificazione eteronoma rispetto al suo significato originale e pervasivamente imposta a milioni tra insegnanti e studenti con una finalità del tutto estranea alla tradizionale dimensione formativa educativa. La didattica per competenze non ha alcun fondamento teorico, scientifico, epistemologico. Orienta lo scenario educativo internazionale perché alimentata da una spinta politico-economica tesa all’omologazione globale dei processi formativi funzionale ai processi produttivi del terzo millennio e dunque alla creazione di un nuovo idealtipo di studente, futuro cittadino e lavoratore. Per questo serviva una nuova pedagogia, che non esito a definire capitalista: una pedagogia che si fonda sulla naturalizzazione di questa nuova ontologia imprenditoriale, immanente e contingente. Sradicate dalla scuola e dalla società, storia, memoria, ermeneutica, interpretazione vengono spazzate via dall’orizzonte mentale delle nuove generazioni.”
D’altronde, è proprio del sistema culturale della classe dominante appropriarsi di pensieri rivoluzionari, snaturarli del loro contenuto e riutilizzarli in forma strumentale.
È quello che è avvenuto anche alla pedagogia del Novecento che, da avanguardia educativa si è ridotta a ricettrice passiva. Allo stesso modo, la genericità con la quale queste definizioni vengono formulate, l’assenza completa di riferimenti storico-filosofici, che da sempre hanno nutrito la riflessione pedagogica, mettono bene in risalto il passaggio da una formazione come fenomeno esistenziale, inteso come continuo processo di ricerca e interpretazione della realtà – operazione di significazione -, a fenomeno operativo, inteso come processo di adattamento alla realtà. Se è vero, da una parte, come dice Gramsci (2004), che ogni educazione è una forma coercizione, ossia un processo di adattamento del bambino alla realtà storico-sociale, tradizionalmente la scuola italiana, memore delle influenze progressiste provenienti dai partiti comunisti e socialisti, seppur con le limitazioni di classe descritte poc’anzi, si poneva l’obiettivo di una formazione culturale estesa ad ampie fasce della popolazione.
A partire dagli anni ’60 il dibattito pedagogico italiano si fece poi acceso, gli insegnanti più progressisti di quegli anni promossero via via l’idea che la scuola dovesse diventare, attraverso il lavoro culturale, un avamposto di messa in discussione e ribaltamento della società.
Mario Lodi, Bruno Ciari, Gianni Rodari, giusto per citare i più famosi, hanno lasciato agli insegnanti una eredità copiosa fatta di elaborati teorici e sperimentazioni nelle classi nell’ottica della creazione di una pedagogia socialista. Gianni Rodari, nella sua Grammatica della fantasia, si addentra nell’affascinante mondo della sovversione dell’ordine proprio della società italiana post-fascismo attraverso l’infrazione delle norme linguistiche (vi abbiamo fatto cenno qui). Cosa è rimasto di quell’enorme mole di lavori che hanno contribuito a formare generazioni di italiani? Oggi, questi lavori, che hanno rappresentato la punta di diamante pratica e teorica della pedagogia progressista, sono stati dimenticati in favore di un’accozzaglia di veri e propri precetti pedagogici – rappresentati, appunto, dalla didattica per competenze – completamente disorganici, incapaci di toccare i nodi salienti che riguardano l’uomo e il suo rapporto con la società, incapaci, dunque, si porsi in un orizzonte di senso compiuto.
Gli effetti delle competenze: reazioni dal mondo scolastico italiano
Non stupisce affatto quest’opera di scardinamento dei fondamenti educativi progressisti attraverso una sempre maggiore superficialità di riflessione educativa, la quale si inserisce nel processo di arretramento dei principi di matrice comunista e progressista all’interno delle democrazie borghesi, così come avviene con i diritti dei lavoratori.
Tra i docenti è rimasta con il tempo egemone l’idea di una scuola come presidio culturale: questo l’ha, in parte, immunizzata dalle recenti riforme e ha creato un’embrionale forma di resistenza a quest’opera di innovazione didattica.
Se, da una parte, ciò ha spesso frenato questo processo di sempre maggiore aziendalizzazione scolastica, dall’altra, ha spesso sviluppato negli insegnanti un atteggiamento di ostinato conservatorismo. La scuola di oggi, mai così frammentata, a causa dei tagli all’istruzione pubblica e degli attacchi al sapere di per se stesso, si ritrova in una condizione in cui, per un verso, si è ritrovata costretta a ridurre il carico di studio dei suoi studenti, con un conseguente abbassamento del livello di istruzione e, dall’altro, si è mantenuta pressoché inalterata nelle metodologie didattiche, arretrando addirittura in quegli ordini di scuola, come la scuola primaria e dell’infanzia, in cui grazie al progressismo pedagogico degli anni Settanta, si erano verificate delle vere e proprie sperimentazioni di educazione socialista. È possibile constatare come nel momento in cui sono scomparse le forze politiche comuniste, che erano riuscite ad ottenere nell’ambito della democrazia borghese gentiliana delle riforme realmente progressiste, la scuola ha subito un tracollo educativo ripercossosi nella qualità della didattica. Il dibattito si è poi spostato da un piano di analisi di classe ad una fittizia diacronia, che ad oggi vede coinvolti i tradizionalisti gentiliani e gli innovatori fideisti delle nuove politiche UE, entrambe facce di un’educazione borghese e classista.
Autonomia e libertà in educazione: il pensiero Gramsciano
Negli appena citati anni Settanta si sentiva stretta la vicinanza tra politica ed educazione, nella convinzione che quest’ultima potesse costituirsi come il contributo per un cambiamento della società. La riflessione pedagogica era ben consapevole che qualunque prassi didattico-educativa non poteva prescindere dalla messa in discussione delle basi materiali della società, come già Gramsci affermava nei suoi Quaderni del Carcere:
“Se educare l’uomo vuol dire formare l’uomo adulto durante il lungo periodo della sua adolescenza, se l’uomo adulto può essere inteso essenzialmente come produttore di beni, “spirituali” e “materiali”, se questa produzione (come anche il consumo, del resto) può avvenire soltanto nella comunità degli uomini e se perciò l’uomo è produttore in quanto è cittadino, cioè quell’”animale politico” di cui parlava Aristotele, ebbene, quale scienza mai, più che la pedagogica, potrà apparire connessa con la politica?” (Gramsci, 2012, p. 15)
Allo stesso modo, Margiotta (2014) denuncia l’assenza di un’approfondita riflessione sull’educazione, che ad oggi si limita ad una sorta di misto tra psicologismo e procedure adottate per il miglioramento del problem solving:
“La vera emergenza contemporanea? L’educazione, ridotta nei migliori dei casi a una forma minore di psicologia e nel peggiore a una questione di procedure. Se il progresso scientifico fosse l’unico metro per misurare la crescita e lo sviluppo di una società, potremmo ridurre il problema dell’educazione a una questione molto semplice, almeno sulla carta: formare tecnici competenti, burocrati affidabili, professori brillanti (ibidem, p. 33).”
Senz’anche voler analizzare la scuola secondo un rapporto di dipendenza dalla struttura economica, pare lampante come le categorie pedagogiche utilizzate all’interno dei documenti citati in precedenza siano del tutto non neutrali e insufficienti nell’analizzare la funzione educativa della scuola attualmente: lo sviluppo dell’autonomia, della libertà, delle competenze linguistiche, matematiche e creative sono ben lungi dal costituire quei processi emancipativi di coscientizzazione e soggettivazione marxisticamente intesi.
Già Gramsci, nella sua analisi pedagogica sul concetto di autonomia e libertà, riscontrava i possibili fraintendimenti nel quale l’educatore può cadere, dimostrando ancora una volta la lungimiranza e l’attualità delle sue teorie.
Per Gramsci l’elemento ideologico-culturale è fondante ogni tipo di educazione, che agisce secondo un preciso progetto intenzionalmente premeditato:
“Penso che l’uomo è tutta una formazione storica, ottenuta con la coercizione (intesa non solo nel senso brutale e di violenza esterna) e solo questo penso: che altrimenti si cadrebbe in una forma di trascendenza o di immanenza” (Pagano, 2014)
Il principio di autorità si rivela essere un concetto chiave nella costruzione dell’egemonia gramsciana: “Ogni generazione educa la nuova generazione, cioè la forma, e l’educazione è una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche elementari, una lotta contro la natura, per dominarla e creare l’uomo “attuale” della sua epoca” (in Chiosso, 2012, p. 143). Gramsci (2012) sostiene dunque che rapporto di “egemonia” e rapporto pedagogico coincidano e si formino non solo internamente ad una nazione, ma nel complesso delle interazioni tra locale e globale, poiché “la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come ‘dominio’ e come ‘direzione intellettuale e morale’” (La Porta e Prestipino, 2014, p. 144).
Se in apparenza sembra impossibile far riemergere le ceneri della concezione pedagogica gramsciana sull’autonomia, in realtà, come osserva Chiosso (2012) il principio di autorità non si sovrappone alla bieca sottomissione, ma è il mezzo indispensabile per la formazione di una coscienza solida che non si lasci manipolare dalle forze esterne e che sia in grado di operare attivamente nel contesto storico nel quale il soggetto è inserito. Da qui il rifiuto di ogni forma di spontaneismo e la critica aspra all’attivismo pedagogico nato in ambito anglosassone in quegli stessi anni che faceva coincidere la spontaneità con la libertà, ammonendo queste forme di “involuzioni spontaneistiche” (Manacorda, 2012, p. 167): “questo modo di concepire l’educazione come sgomitolamento di un filo preesistente” non significherebbe altro che “rinunziare a formare il bambino” e “permettere che la sua personalità si sviluppi accogliendo caoticamente dall’ambiente generale tutti i motivi di vita” (Pagano, 2014). Come ha egregiamente mostrato Chiosso (2012), per Gramsci “la cultura è sforzo, ordine, chiarezza intellettuale, frutto di un impegno serio, costante disciplinato […]: libertà è ‘responsabilità’ e soltanto la coercizione è ‘arbitrio’. L’attualità dell’approccio storicistico gramsciano può aiutare a ridefinire le “pedine” in campo nell’ambito della pedagogia critica in un momento in cui la sua forza sembra essersi esaurita e ritornare ad intavolare una discussione sul concetto di “autonomia” decantato nei nuovi curriculi pseudo progressisti.
Sara Mattiello e Giulia Guzzo
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