George Floyd, quando la violenza della polizia è oppressione di classe
È diventato ormai virale il video della morte di George Floyd, afroamericano fermato il 25 maggio dalla polizia di Minneapolis e bloccato a terra dal poliziotto Derek Chauvin. Secondo le iniziali dichiarazioni rilasciate alle otto di sera dello stesso giorno dal dipartimento di polizia locale, una pattuglia era intervenuta per un presunto uso di documenti falsi in un vicino negozio di alimentari. Secondo gli agenti in servizio, Floyd era in macchina e sembrava sotto effetto di stupefacenti: dopo avergli ordinato di uscire dal veicolo, Floyd ha opposto resistenza, al che i poliziotti sono stati costretti a utilizzare la forza.
È un resoconto che fa acqua da tutte le parti, specie di fronte ai video delle telecamere presenti in zona e ai video registrati da alcuni passanti, che mostrano chiaramente come Floyd non abbia opposto alcuna resistenza e sia stato insensatamente bloccato a terra con un ginocchio sulla carotide. Dopo aver ripetutamente dichiarato di non riuscire a respirare e senza che l’agente allentasse la presa, ha perso coscienza ed è stato portato con un’ambulanza all’Hennepin County Medical Center, dove è stato dichiarato deceduto.
Il 26 maggio, per reclamare giustizia contro la violenza della polizia, sono montate le proteste a Minnepolis allo slogan di “I can’t breath”, ultime parole dell’afroamericano ucciso. Nel frattempo, i quattro poliziotti sono stati licenziati dal dipartimento – di questi, Derek Chauvin era tra l’altro noto per aver collezionato, in diciannove anni di carriera, numerose denunce per eccesso di forza e una per violazione di diritti costituzionali federali di un prigioniero1.
Si tratta di una situazione che ricorda molto l’omicidio di Eric Garner, altro caso di violenza da parte della polizia: accusato di presunta vendita illegale di sigarette, Garner è stato immobilizzato dalla polizia ed è soffocato dopo aver ripetuto undici volte “I can’t breathe”. Non si tratta purtroppo di due casi isolati, bensì dell’espressione di un uso diffuso della violenza da parte della polizia statunitense, le cui denunce per violenze fisiche e psicologiche, fino a casi di omicidio come i due suddetti, rappresentano una lista lunga. Per limitarsi ai soli omicidi, il Washington Post ha stilato una classifica dei casi di omicidi dal 2015 ad oggi causati dalla polizia2: solo l’anno scorso ne sono stati registrati 1014.
Sbaglieremmo a pensare che siano omicidi “generici”: a guardare nei dettagli – e considerando le percentuali negli USA di popolazione nera, ispanica e bianca – si scopre che, dati alla mano, una persona di colore nero ha circa 2 volte e mezzo più possibilità rispetto a un bianco di essere ucciso, mentre un ispanico “solo” il doppio di possibilità. La violenza della polizia si carica di tinte razziste, in aggiunta al fatto che, in maggioranza, chi subisce le violenze proviene dalla working-class, non certo da posizioni socialmente altolocate.
Come ha affermato una donna di colore che abita a quattro isolati di distanza dalla casa di Floyd:
«Non si stratta solo di neri uccisi. Si tratta di persone provenienti dalla classe operaia e non c’è solo George. Ci sono migliaia e migliaia di persone che non sono state filmate mentre venivano uccise. Mi sento come se nel capitalismo la scelta sia fra la morte e la morte»3.
È un’affermazione importante, che evidenzia un problema non relativo a singole mele marce, ma sistemico. Certamente da un lato bisogna porre attenzione sulla componente razzista o, in generale, di discriminazione maggiore verso determinate fasce di popolazione, dall’altra però non va dimenticato che spesso la repressione poliziesca si esprime nei confronti di quelle fasce di popolazione economicamente più deboli, fortemente soggette a segregazione nelle periferie americane. Dove il problema della criminalità diviene risposta sociale endemica ad una totale mancanza di prospettive di vita, dove disoccupazione, precarietà e malessere sociale sono all’ordine del giorno. In questi contesti la repressione poliziesca è l’unica risposta coerente che il sistema capitalistico può mettere in campo. Le condizioni di sfruttamento e di mancanza di prospettive tra le classi popolari, infatti, sono caratteristiche del sistema stesso e non possono essere corrette senza mettere in discussione l’impianto economico generale su cui il capitalismo si regge. In questi contesti emerge con maggior forza il ruolo repressivo e di contenimento sociale delle forze dell’ordine, scevro da facili retoriche.
Si tratta di un problema che, essendo legato ad un determinato sistema economico, non riguarda solo gli Stati Uniti: basti pensare al report dell’Unione Europea per cui, in suolo continentale, una violenza razzista su dieci avviene per mano della polizia4; o si pensi ai casi in cui gli “ultimi della società” – come Stefano Cucchi – non hanno nessuna tutela contro gli abusi della polizia (senza dimenticare la “fortuna” per Cucchi, a differenza di molte migliaia di persone come lui, di avere avuto una sorella che ha lottato perché la verità sull’omicidio uscisse fuori).
Il caso di George Floyd non riguarda dunque solo George Floyd. Certamente è una situazione specifica, che rientra nel contesto della violenza e del razzismo diffuso fra la polizia statunitense. In generale, però, questo omicidio ricorda quanto si viva in un sistema che tutela i diritti delle persone solo a parole e solo quando queste se lo possono permettere.
Fonti