Lavoratori stagionali: gli eterni discriminati. Bonus in ritardo e zero certezze contrattuali (1/2)
Parliamo di una tematica la cui gravità ha raggiunto l’apice proprio a causa dell’emergenza epidemiologica di questi mesi. Una tematica resa drammaticamente palese dagli assalti ai supermercati avvenuti a Palermo nel mese di marzo, che hanno visto per protagonisti lavoratori disoccupati la cui particolare condizione non era presa adeguatamente in considerazione dai più recenti decreti del Presidente del Consiglio. Descriveremo innanzitutto i disagi vissuti dai lavoratori stagionali effettivi a causa dell’inefficienza amministrativa nell’erogazione del bonus previsto già da marzo, uniti all’incertezza dovuta alle falle normative contenute nei decreti legislativi di emergenza. Faremo poi una panoramica sulla totale inadeguatezza sociale delle norme che dovrebbero tutelare il lavoratore stagionale in generale e la sua stabilità. Infine, racconteremo frammenti di vita di chi possiede come unica risorsa il lavoro estivo e formuleremo delle proposte immediate e di sistema per rimettere al centro della società chi davvero produce ricchezza in zone che spesso sono le più povere nel nostro Paese.
Lavoratori stagionali e lockdown: due mesi di passione e incertezze
Il Dl “Cura Italia” ha operato una discriminazione occulta tra i lavoratori precari, che si somma a quella più generale che vede grossi titolari di partite IVA usufruire di bonus facilmente ottenibili mentre lavoratori cassaintegrati e a tempo determinato devono subire lungaggini burocratiche e incertezze dovute alla mancanza di coperture (tutto ciò confermato nell’avvicinarsi alla delibera del decreto di maggio). Andiamo al problema più grave. Il 7 gennaio 2020, i nuclei percettori del Reddito di Cittadinanza erano 915.600. Ma, all’istituzione del Reddito, l’Istat calcolava in 1,8 milioni di famiglie quelle in povertà assoluta (con un’incidenza pari al 7,0%) per un totale di 5 milioni di individui.
Si presume che circa 2 milioni e mezzo di persone abbiano deciso di non usufruire del Reddito perchè occupate in un lavoro nero, o perchè a carico da chi ne svolgeva uno.
Ora, chiunque abbia un po’ di dimestichezza con la vita reale, sa che la stragrande maggioranza dei dipendenti in nero è vittima passiva del sistema, che è costretta ad accettare un lavoro senza alcuna tutela contrattuale e giuridica e, soprattutto, economica. Chiunque abbia vissuto una esperienza di lavoro nero, specialmente in settori – come quello turistico – ove esso è svolto a cadenza stagionale, conosce i disagi e le ripercussioni sulla vita reale che tale situazione apporta. Non sapere la mattina, mentre si va al lavoro, se dopo un mese o due le condizioni o le mansioni cambieranno. O se si sarà licenziati. Non avere alcun potere contrattuale nei confronti del padrone. Ricevere con finta riconoscenza i canonici 3 euro/ora, stipendio base di molte realtà, come quelle costiere e meridionali.
Per queste persone il Dl “Cura Italia” non ha previsto nulla: esse passeranno da essere occupate in nero a “disoccupate in nero”.
Sarebbe troppo facile dir loro di «richiedere il sussidio adesso»: consapevoli che l’unico sbocco sociale lavorativo potrà essere, in futuro, di nuovo il lavoro nero, è difficile affidarsi ad una misura che è per sua natura lenta e farraginosa nel trovarti un’occupazione vera.
Ma molti dei lavoratori stagionali regolari (o semi-regolari, che posseggono un contratto che magari non corrisponde alle mansioni effettivamente svolte) non hanno ricevuto un trattamento migliore. Durante l’emergenza Coronavirus, la fascia sociale che sta dovendo subire di più il peso del classismo e dell’inefficienza della macchina amministrativa è quella dei lavoratori stagionali. Sono milioni, in particolare, i lavoratori stagionali italiani e migliaia in particolare solo quelli della costa degli Dei da Pizzo a Nicotera, in Calabria, nella provincia più povera d’Italia, che in questi giorni stanno vivendo un dramma umano, sociale ed economico senza fine. Reduci da un lunghissimo periodo di disoccupazione invernale che si è ulteriormente prolungato a causa delle restrizioni adottate a livello nazionale e regionale per contrastare la diffusione del Coronavirus, moltissimi lavoratori stagionali rischiano di non poter percepire il bonus di 600 euro previsto per questi dal decreto “Cura Italia”. Questo perché il Dl 18/2020 ha previsto delle differenziazioni tra diversi tipi di stagionali effettivi.
Sono state diverse le tipologie di stagionali effettivi escluse dal bonus, o che hanno dovuto subire disagevoli ritardi, per i quali il comitato Lavoratori Precari e Stagionali – Calabria, organizzatosi nel Vibonese, ha chiesto un immediato intervento del governo affinché costoro possano rientrare nella fascia dei percettori, intervenendo per alcuni casi anche direttamente attraverso gli uffici INPS.
1 – Il Dl 18/2020, il così detto “Cura Italia”, aveva già previsto il bonus di 600 euro a beneficio dei lavoratori con contratto stagionale nel settore turistico e degli stabilimenti termali, lasciando dunque fuori i lavoratori de facto stagionali ma con contratti formalmente a tempo determinato oppure da cooperativa. I primi non rientrano in questa categoria perché il contratto sottoscritto non contempla la sigla “S” di “stagionale”. Rimane fuori, ovviamente, anche la grande fascia grigia dei lavoratori in nero che, non certo perché affascinati dalla prospettiva di lavorare senza alcuna tutela e diritto, hanno dovuto scegliere questa modalità di rapporto. Il nuovo decreto – così detto Dl “Rilancio” – prende atto, dopo le innumerevoli denunce lanciate sui social, di alcune mancanze prevedendo un reddito di emergenza per chiunque non usufruisca di altri sussidi statali, incrementa a 1000 euro il bonus previsto per gli stagionali e introduce la dicitura per cui ad usufruirne sarebbero i lavoratori stagionali di ogni settore. Sembra ora rientrare (meglio tardi che mai, dopo un mese e mezzo in cui questi lavoratori si sono sentiti abbandonati dalle istituzioni) anche chi era assunto a tempo determinato e chi aveva un contratto con una cooperativa. Sono ancora esclusi dal bonus di 600 euro, però, tutti i lavoratori stagionali che ogni anno vengono assunti con contratto a tempo indeterminato (perché la struttura ricettiva è aperta tutto l’anno) e che poi, puntualmente, vengono licenziati dopo cinque o sei mesi di lavoro.
Lavoratori a tutti gli effetti stagionali, in quanto ogni anno percepiscono la NASPI (NASPI che da qualche anno, per via delle nuove modalità di calcolo, non riesce a coprire tutti i mesi effettivi di disoccupazione fra una stagione e l’altra).
2 – Il citato reddito di emergenza sembra dover consistere, a seconda del reddito ISEE del nucleo familiare, in un esiguo sussidio che va dai 400 agli 800 euro mensili per due mensilità. Denunciamo qui la discrepanza tra i 1000 euro netti assicurati a categorie come partite IVA, i contributi a fondo perduto fino a 40.000 euro per le imprese, le garanzie statali fino a 400 miliardi di euro totali per prestiti alle imprese e il trattamento raffazzonato e superficiale nei riguardi di chi veramente, fra poco tempo, non avrà la necessaria liquidità per i beni fondamentali della vita quotidiana.
3 – Ma l’elemento più clamoroso ed urgente è il ritardo da parte dell’INPS nell’erogazione degli stessi 600 euro previsti dal primo decreto, anche nei confronti di soggetti che rientrerebbero appieno nella fascia dei beneficiari. Hanno ravvisato problemi nella ricezione del bonus di 600 euro i lavoratori assunti a tutti gli effetti come stagionali con contratto a tempo determinato e che non sembrano essere stati immediatamente riconosciuti tali, in quanto a sottoscrivere il contratto è stata un’agenzia interinale il cui codice Ateco non rientra tra quelli previsti dal decreto “Cura Italia”. Qui ci troviamo dinanzi a un paradosso veramente incredibile, poiché un lavoratore stagionale a tutti gli effetti e con contratto a tempo determinato non percepisce il bonus a lui diretto solo perché il contratto è stato sottoscritto da un’agenzia interinale con codice Ateco non riconosciuto. Dalle ultime indiscrezioni dagli uffici INPS, sembrerebbe che, dopo settimane di attesa, i lavoratori che non rientrano nei codici Ateco elencati nel decreto di marzo ma che hanno la dicitura Uniemens di “stagionale” e quelli con codice Ateco corretto ma assunti a chiamata dopo la stagione estiva riceveranno, dopo innumerevoli segnalazioni e lotte, il bonus richiesto nel mese di marzo. Rimangono ancora probabilmente esclusi i lavoratori con contratto a tempo indeterminato.
In generale, riguardo all’inoltro della domanda effettuata on line dai soggetti elencati, dovrebbe essere spiegato per quale tipo di disinteresse, negligenza o – magari – taglio del personale dovuto all’austerità, nella visualizzazione dell’invio della richiesta digitale, esista ancora, dopo due mesi, la dicitura “Attesa Esito” senza risposta ma, soprattutto, il motivo per cui sia stata aggiunta la dicitura “Rinuncia”, quasi a non voler affrontare responsabilità sul provvedimento di diniego.
I lavoratori precari e stagionali dell’area della Costa degli Dei si sono mobilitati e hanno preteso una risposta alle iniquità e alle inefficienze sopra illustrate. Privi di qualsiasi supporto politico o sindacale, hanno deciso di coordinarsi in un gruppo che punta ben presto a formalizzare ufficialmente la sua esistenza. Nato sui social, il gruppo ha raggiunto nelle prime settimane quasi 300 adesioni e si pone l’obiettivo di unire nella vertenza i circa 3500 lavoratori stagionali della zona e tutti i colleghi operanti in Calabria sotto la denominazione Lavoratori Precari e Stagionali – Calabria. È a nome di questo gruppo che questa lettera di denuncia è stata firmata.
Il lavoro stagionale: stabilità e tutele ai minimi termini
Il dogma dell’infallibilità della teoria dell’austerità espansiva ha mostrato, con la crisi da Covid-19, tutte le sue fallacie anche ai suoi più convinti sostenitori. Questo è il momento più opportuno per rivendicare a gran voce, innanzitutto, l’istituzione di un salario di quarantena, che non si limiti a sopperire alla differenza tra capacità e soglia di povertà, che consista in almeno 900-1000 euro mensili, e che sostenga questa parte economicamente emarginata della popolazione la quale si trova nel vicolo cieco di non poter lavorare e di non poter dimostrare di non poterlo fare. Il governo sembra voler correre ora ai ripari, annunciando un sostegno di emergenza che dovrebbe consistere nell’estensione di bonus che vanno (a seconda dell’ISEE) da 400 a 800 euro, a tutti i disoccupati in maniera indiscriminata, con il paradosso però che chi si trova in una situazione di concreta indigenza riceverà lo stesso sussidio di potenziali milionari. L’agevolazione per gli iscritti alla gestione separata INPS è infatti incredibilmente svincolata da qualsiasi requisito reddituale, almeno nel Dl “Cura Italia”.
Soprattutto, bisogna spingere per un vero piano di assunzioni statale, parallelo ad un piano di lavori pubblici ed un rinnovamento della pubblica amministrazione, che attui una vera lotta contro il lavoro nero e fornisca allo stesso tempo un progetto formativo verso il lavoratore, rigorosamente retribuito.
In questa cornice, il lavoro stagionale si trova da sempre in una condizione di sotto-tutela anche nei casi in cui viene formalmente svolto secondo apparenze legali.
I soprusi nei riguardi dei lavoratori stagionali sono tra le maggiori piaghe del nostro paese. Vera schiavitù moderna che conduce migliaia di giovani, laureati e non, al collasso psicologico. Tale emergenza sociale si fonda sulla mancanza di trasparenza che caratterizza spesso gli imprenditori stagionali, sulla esiguità di controlli e denunce, sul timore e l’isolamento del dipendente stagionale. È la regola, anche per un dipendente stagionale che possiede un regolare contratto, non poter usufruire di neanche un giorno libero nell’arco di quattro o cinque mesi di lavoro continuativo.
È d’uso dover accettare di ricevere un salario minore di quello proprio della busta paga pattuita, pratica spregevole che danneggia il lavoratore sia dal punto di vista fiscale per la sua dichiarazione dei redditi annuale, che per eventuali richieste di agevolazioni fiscali per i lavoratori precari a basso reddito.
Alla fonte di queste situazioni, non devono essere sottovalutati fattori come l’eccessiva flessibilità nella forma contrattuale stagionale, che concede al datore di lavoro un potere negoziale enorme nella possibilità di assumere un giovane per qualche settimana e non rinnovare il rapporto di lavoro se il dipendente non asseconda ogni vessazione o impiego arbitrario. È intanto urgente equiparare la disciplina dei contratti stagionali almeno a quella dei contratti a termine e a tempo indeterminato ordinari, com’è urgente un potenziamento dell’Ispettorato del Lavoro. La strada verso una socializzazione delle piccole e medie imprese che si occupano di agricoltura e turismo passa infatti per la creazione di consapevolezza della forza “contrattuale” dei lavoratori coinvolti e per la loro unità d’azione pratica.
La tipologia di lavoro stagionale è stata sempre oggetto, negli anni, di una tutela sottodimensionata, con il pretesto di essere poco adatta alla regolamentazione visto il suo carattere “ciclico”. La sempre più estrema precarizzazione dei diritti dei lavoratori che abbiamo vissuto negli ultimi anni trova infatti la sua più tipica espressione nelle clausole riguardanti gli stagionali.
La legge 247/2007, ad esempio, al fine di evitare l’eccessiva diffusione della tipologia contrattuale del lavoro termine e, in particolare, la sua reiterazione, introdusse limiti ulteriori rispetto alla disciplina precedente del d.lgs.n.368 del 2001, introducendo all’art.5 i commi 4 bis e 4 ter. Per effetto della suddetta normativa è stato previsto che, fermo rimanendo il limite temporale di interruzione tra un rapporto a termine e il successivo (l’art. 5, co.3 del 368/2001 stabilisce che “qualora il lavoratore venga riassunto a termine entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore a sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato”), in caso di successione dì differenti contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti, il rapporto di lavoro tra le parti non può eccedere complessivamente i 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrano tra un contratto e l’altro. Ove il periodo complessivo di 36 mesi fosse superato, il rapporto di lavoro si verrebbe a considerare a tempo indeterminato. Il limite dei 36 mesi (oggi portati a 24 dal dl Dignità del 2018) di durata massima non si applica nei confronti dei lavoratori impiegati in attività stagionali (definite dal DPR n.1525/1963).
Sebbene possa sembrare ovvia e “sensata” una tale specificazione, ciò non tiene in conto che la maggior parte dei lavoratori stagionali trae da tale occupazione la maggior parte del reddito utile alla propria esistenza. C’è la necessità di pensare una tipologia di contratto stagionale che contempli il carattere indeterminato: la sicurezza, al lavoratore, di poter lavorare la stagione successiva per le stesse mansioni, nello stesso ambiente e con la stessa paga, senza il timore di essere scartato per un “competitor” più acquiescente alle richieste economiche del padrone.
Andando avanti nell’analisi dei riferimenti normativi sul lavoro stagionale, segnaliamo anche un elemento di cui difficilmente i prestatori di lavoro sono a conoscenza, non potendo quindi sfruttare i pochi margini di negoziazione che esistono: il lavoratore assunto a termine per lo svolgimento di attività stagionali ha infatti diritto di precedenza rispetto a nuove assunzioni a termine da parte dello stesso datore di lavoro per le medesime attività stagionali (art.5, co.4 quinquies, d.lgs. 368/2001, introdotto dall’art. 40, l. n.247/2007). Tale diritto sussiste a condizione che il lavoratore manifesti in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro tre mesi dalla data di cessazione dell’ultimo rapporto e si estingue entro un anno dalla medesima data (art.5, co.4 sexies, d.lgs. n.368/2001, introdotto dall’art. 40, l. n.247/2007). Nulla prescrive però la norma riguardo le conseguenze del mancato rispetto del diritto in questione da parte del datore di lavoro. Sul punto ha un peso rilevante nella dottrina la tesi «secondo cui la violazione darebbe luogo al solo risarcimento del danno», la quale ha anche «ricevuto l’avallo della Corte di Cassazione, che ha stabilito che «il diritto di essere preferito non è assistito dalla tutela in forma specifica (ai sensi dell’art. 2932 c.c.) perché si tratta, non già di un diritto, sia pure condizionato, alla stipulazione di un contratto di lavoro, ma soltanto del diritto ad essere preferito, come contraente, nel caso in cui il datore di lavoro decida di procedere a nuove assunzioni». Le tutele minime di questa categoria di lavoratori sono dunque ambigue e ben celate nei meandri della giurisprudenza.
Proseguendo cronologicamente, osserviamo ora la legge 92/2012, la così detta riforma Fornero, che opera una ulteriore modifica del d.lgs. n. 368/2001 e si concentra sugli intervalli tra due contratti a termine successivi, il cui mancato rispetto comporta la conversione del secondo in contratto a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 5 co.3. Un contratto di durata fino a sei mesi non potrà allora essere seguito da un altro contratto a tempo determinato stipulato entro sessanta giorni (precedentemente dieci) dalla scadenza del primo; la riassunzione non può avvenire invece entro i novanta giorni (prima venti) dalla scadenza del contratto di durata superiore ai sei mesi.
La Fornero prevede tuttavia la possibilità, da parte della contrattazione collettiva stipulata dalle associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, di ridurre gli intervalli da sessanta o novanta giorni, sino ad un minimo di venti o trenta giorni, se le assunzioni successive avvengono nell’ambito delle stesse esigenze organizzative che giustificano la possibilità di apposizione del termine a-causale alternativa a quella del primo contratto di durata massima di dodici mesi ex art. 1 co.1- bis del decreto legislativo. L’intervento del d.l. n. 83/2012 (cd. Decreto Sviluppo – convertito con l. 7 agosto 2012, n. 134) aggiunge un ulteriore periodo al co.3 dell’art. 5, ampliando così la possibilità di riduzione dei termini in questione per le attività stagionali, e in ogni altro caso stabilito dalla contrattazione collettiva delle stesse organizzazioni sindacali di cui sopra.
Ancora, viene quindi ribadito che la ratio del limite alla continuità – come della durata massima – per un contratto a termine (secondo la quale un datore di lavoro non dovrebbe avere motivo, superata una certa soglia temporale di collaborazione, per non trasformare un contratto in indeterminato), non vale per la categoria degli stagionali.
Similmente, le disposizioni del così detto Jobs Act del 2015 concernenti i periodi di stop and go e la violazione di questi, oltre che alle start-up innovative di cui al co.3 dell’art. 21, non si applicano ai lavoratori impiegati nelle attività stagionali individuate con decreto del Ministero del Lavoro.
L’assunzione a tempo determinato, in particolare, è slegata nel Jobs Act dai limiti quantitativi del 20% di personale a tempo determinato se avviene, tra l’altro, per lo svolgimento di attività stagionali.
Il Dl “Dignità”, ultima novità legislativa sul tema, si apre con la sostituzione del comma 1 dell’art. 19, d.lgs. n. 81/2015, a mente della quale oggi «al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi». Nella nuova disciplina, quindi, il limite massimo di durata del contratto si riduce drasticamente, passando dai trentasei mesi della previgente formulazione ai dodici mesi previsti dalla novella del 2018. Il Dl Dignità introduce poi le causali attraverso il co.1 all’art. 21 del d.lgs. n. 81/2015, il quale prevede che il contratto a tempo determinato può essere rinnovato dopo i 12 mesi (cumulativi anche di diversi contratti) solo a fronte delle condizioni di cui all’articolo 19, co.1 (esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze sostitutive di altri lavoratori; esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria). Il contratto a tempo determinato può essere invece prorogato liberamente nei primi dodici mesi. In caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a 12 mesi in assenza delle predette condizioni, per il Dl Dignità il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento dei 12 mesi. Una deroga al principio generale della causalità si ha, ancora, per «i contratti per attività stagionali, di cui al co.2, che possono essere rinnovati o prorogati anche in assenza delle condizioni di cui all’articolo 19, co.1».
Anche il così detto “governo del cambiamento” aveva dunque ceduto alle pressioni del padronato per il quale l’attività stagionale sembra essere lucrosa solo riuscendo a precarizzare e mettere sotto pressione il dipendente.
A completare questo quadro vogliamo far notare che per accedere all’indennità di disoccupazione NASPI, spesso il solo ammortizzatore economico del lavoratore stagionale, occorre il requisito contributivo, ovvero il versamento di almeno 13 settimane di contributi durante i 4 anni precedenti l’inizio della disoccupazione, ma nel calcolo di questo non sono utili i periodi coperti da contribuzione figurativa per: cassa integrazione straordinaria e ordinaria a zero ore; permessi fruiti dal lavoratore per assistere un familiare.
É questo forse il problema più sentito dai lavoratori, se non altro perché è stato evidente l’arretramento nella garanzia delle tutele mentre, quando un ruolo fondamentale lo hanno la coscienza di classe e la consapevolezza dei propri diritti economici, ci si scontra con la forza dell’ideologia e dell’abitudine che hanno reso i prestatori di lavoro stagionale succubi di padroni i quali, spesso, sono visti come amici di paese o persino parenti – al contrario del padrone della fabbrica, che si incontra solo al lavoro. Vedremo nella seconda parte la percezione quotidiana dei disagi di alcuni lavoratori stagionali della costa tirrenica calabrese.
Domenico Cortese e Costantino Talia