Alcune riflessioni sul Fronte Unico di classe 1/2
La giornata del 6 giugno ha visto scendere in piazza per la prima volta l’insieme delle forze sindacali e politiche che hanno condiviso in queste settimane la necessità di costruzione di un fronte unico di classe e di lotta. Al di là del risultato delle manifestazioni – senza dubbio positivo in questa fase, con numeri maggiori delle mobilitazioni messe in campo separatamente da qualunque spezzone politico e sindacale in questo periodo – la costruzione di un fronte unico di classe è un percorso articolato e complesso, al quale non basta dare un supporto materiale/organizzativo, ma serve anche garantire un supporto teorico che contribuisca a delineare la strada da percorrere. Definire il fronte unico è dunque non solo importante ma anche necessario, per chiarirne la natura, gli scopi, respingere accuse infondate che sono rivolte e allo stesso tempo, farne avanzare concretamente la prospettiva delineando obiettivi chiari che evitino la riproposizione di errori del passato, dando a questa prospettiva un salto di qualità effettivo rispetto ai compiti che abbiamo davanti nella nostra fase storica.
1) Un fronte unico di classe per organizzare la lotta di classe, contro l’idea dell’uscita dalla crisi con un rinnovato patto sociale tra capitalisti e lavoratori.
Lo scopo del fronte unico è tanto semplice quanto complesso: unire i lavoratori attorno ai segmenti più avanzati di classe, insieme con disoccupati e studenti nella prospettiva della costruzione di un fronte di classe e di lotta che consenta di affrontare l’attacco padronale. Abbiamo detto spesso che il covid è stato fattore naturale involontario di proiezione su una scala globale e più elevata di una crisi capitalistica che acuirà i processi di concentrazione e centralizzazione capitalistica, l’attacco ai lavoratori, la precarizzazione del lavoro, la riduzione salariale. Il salvataggio dei grandi gruppi capitalistici operato dai governi e dall’UE – la classica socializzazione delle perdite per consentire la continuazione della privatizzazione dei profitti – sarà spalmata sotto forma di debito pubblico sui lavoratori e sulle classi popolari che ripagheranno a suon di tagli alle spese sociali, incremento della tassazione effettiva, riduzione di sussidi e diritti, i debiti dei padroni. Un enorme scaricabarile sulla pelle delle classi popolari che vede protagonisti i gruppi padronali, le loro associazioni di categoria, i governi e l’Unione Europea come terreno di contesa tra gruppi nazionali contrapposti nel tentativo di strappare qualcosa in più a livello nazionale, ma assolutamente uniti e concordi nella visione generale di far pagare ai lavoratori la crisi. In queste settimane abbiamo avuto solo l’assaggio di quello che accadrà: Arcelor Mittal dichiara oltre 3000 licenziamenti, la FCA rinvia la ripartenza a Pomigliano, licenziamenti e lotta alla TNT ecc…
Di fronte a un attacco del genere e a una crisi epocale, la classe operaia italiana si presenta disarticolata e priva di coscienza, nonostante, proprio il periodo di lockdown, abbia dimostrato la sua assoluta centralità: tutto si è fermato tranne le fabbriche, la logistica e la distribuzione evidenziando davvero chi produce la ricchezza mandando avanti la società.
Le sue organizzazioni di riferimento, tanto a livello sindacale quanto a livello politico sono frammentate, poco presenti nei luoghi di lavoro e nei territori, assenti nel dibattito politico generale come punto di riferimento. Se guardiamo al quadro sindacale la situazione è fortemente arretrata.
Oggi la maggioranza assoluta dei lavoratori non è iscritta ad alcun sindacato. Questo risultato è il prodotto di diversi fattori che attengono da un lato alle caratteristiche della struttura produttiva del Paese, come ad esempio alla forte presenza di piccole e medie imprese e della deregolamentazione e frammentazione del lavoro con la progressiva trasformazione delle forme contrattuali. Dall’altro lato è il prodotto delle responsabilità politiche delle organizzazioni sindacali più rappresentative, delle sconfitte storiche – politiche e sindacali – del movimento operaio, dell’incapacità dell’esplicita compromissione delle dirigenze confederali con le politiche padronali.
La maggioranza dei lavoratori sindacalizzati (maggioranza quindi assolutamente relativa) sono nei sindacati confederali, che vivono tuttavia una crisi profonda e irreversibile: diminuzione costante di tesseramento, prevalenza dei pensionati sui lavoratori, torsione del sistema delle iscrizioni in forme di assistenzialismo più che reale radicamento sui luoghi di lavoro ecc… Questa perdita di iscritti non è assorbita – se non in parte assolutamente minima – dalle organizzazioni sindacali “di base” e conflittuali. Il percorso è esattamente speculare a quello avvenuto in termini di consenso politico tra i partiti della sinistra radicale e quella socialdemocratica e di governo: a una crisi dell’una non segue una radicalizzazione e presa di coscienza, ma un attacco complessivo all’idea di organizzazione dei lavoratori.
Le organizzazioni confederali si sono poste anche di fronte a questa situazione di crisi, dal lato della concertazione, dell’unità nazionale, dell’idea – per usare le parole di Landini – che “dalla crisi si esce con un rinnovato patto sociale tra aziende e lavoratori”. Questa scelta è la riprova di un tradimento strategico di queste organizzazioni di fronte agli interessi antagonistici dei lavoratori.
Costruire un fronte unico di classe significa organizzare le lotte sul piano del rifiuto della prospettiva strategica della concertazione e dell’unità interclassista: dalla crisi non si esce con un rinnovato patto sociale, ma con rinnovati rapporti sociali. Non con capitalisti e lavoratori uniti, ma attraverso uno scontro escplicito tra interessi di classe opposti.
Questa è la pietra fondante: respingere ipotesi riformiste, non lasciare che le classi popolari siano schiacciate nelle alternative borghesi, opporre al fronte unico dei capitalisti il fronte unico dei lavoratori e delle classi popolari. Per questo a nostro parere il fronte unico deve assumere la denominazione di fronte unico di classe, in quanto punta ad unire la classe operaia e i lavoratori tutti insieme con i disoccupati, gli studenti degli strati popolari. Un passaggio di costituzione unitaria di classe, che rompe l’isolamento, la frammentazione, la polverizzazione di classe oggi presente, a partire da un’azione comune delle sue organizzazioni sindacali e politiche di riferimento. Questo è l’obiettivo che deve animare l’azione comune di tutti, ed è allo stesso tempo la premessa concreta di ogni avanzamento politico della lotta di classe in Italia.
2) Analizzare concretamente la situazione e fuggire da costruzioni artificiose e prettamente teoriche
La costruzione di un fronte unico che lavori per realizzare un’unità reale dei settori più avanzati dei lavoratori richiede di poggiare su un’analisi concreta della realtà concreta, e fuggire da costruzioni artificiose e prive di riscontri effettivi.
Il tentativo di costruzione del FUL (Fronte Unito dei Lavoratori) lanciato anni fa dal Partito Comunista è fallito sia per una scarsa propensione organizzativa al lavoro per la sua costruzione, sia perché presupponeva di partire da una condizione irrealizzabile: costruire un fronte di carattere politico-sindacale con un referente politico unico, che tuttavia non esprimeva alcuna posizione di rilievo in ambito sindacale. Il PC pretese di agire da soggetto politico unificante con auto-riconoscimento univoco, senza che la propria aspirazione corrispondesse a rapporti di forza reali. Una costruzione che poteva esistere solo sul lato teorico, ma che non aveva alcuna possibilità di realizzazione pratica, semplicemente perché frutto di un passaggio politico errato, viziato a monte da autorappresentazione, presunzione di poter applicare modelli internazionali – in realtà neanche ben riportati, e semplificati fino a snaturali – non replicabili meccanicamente e senza un adattamento, data la differenza di condizioni e rapporti di forza, mancanza di presenza reale effettiva e di legame organico con la classe, o quantomeno con i suoi settori più avanzati.
Un’avanguardia è tale se opera ed è riconosciuta come tale dalle masse – o almeno dai loro settori più avanzati, vista l’arretratezza della fase – non semplicemente se si autoproclama tale. I processi reali devono poggiare sulla base reale delle condizioni per come si presentano concretamente: negare il punto di partenza presupponendo situazioni più avanzate di quelle reali, su cui basare la propria tattica, significa impedire da principio la possibilità di elevare il piano materiale ad un livello superiore.
In Italia la frammentazione sindacale si incrocia spesso con quella politica, e ancor più spesso ne è diretta conseguenza. Ogni settore sindacale – sindacato o frazione interna che sia – ha propri riferimenti politici, con forme di controllo diretto o indiretto da parte delle varie organizzazioni politiche che oggi compongono il quadro di frammentazione delle forze comuniste. Facciamo nomi che tutti sanno: sinistra e opposizione CGIL sono in gran parte composte da quadri delle formazioni trozkiste; l’USB è composto al vertice da quadri della Rete dei Comunisti; in SGB convivono militanti di varie formazioni compresi quadri e dirigenti del PC; la CUB è un insieme di tendenze diversissime territorio per territorio, il SI-Cobas ha al suo interno gruppi di derivazione bordighista, così come settori dell’autonomia, ADL-Cobas settori dell’autonomia ex “disobbedienti” del nord est ecc…
In questo quadro è assolutamente impossibile concepire l’idea di un avanzamento unitario sul terreno del sindacalismo conflittuale se tale avanzamento non vede il consenso comune delle forze politiche che esprimono, di fatto, orientamento, compartecipazione o addirittura direzione di questi segmenti sindacali.
Ecco perché se lo scopo è quello di riunire le forze sindacali più avanzate, orientando l’azione nella costruzione di un sindacato di classe in Italia, il fronte unico inevitabilmente presuppone un piano di accordo politico per realizzarlo. Un accordo che impedisca un sistema dei veti incrociati, che finirebbe per paralizzare sul nascere qualsiasi possibilità di organizzazione unitaria delle lotte. È questo il centro dell’accordo tra le forze politiche che vi partecipano che non presuppone la rinuncia alle questioni politiche e ideologiche, né la rinuncia alla soggettività politica nello scioglimento in un fronte indistinto: tutte queste questioni continuano a esistere e marciare parallelamente alla costruzione di un fronte unico di lotta ponendosi su un piano diverso, che non impedisce una collaborazione concreta sul piano della costruzione di mobilitazioni e di lotte. Chi sostiene che sia possibile costruire il Fronte Unico senza un piano di confronto e accordo in questa direzione anche tra le forze politiche, fa finta di ignorare la realtà dei fatti, e semplicemente sbandiera una posizione di principio che nega nella sua unica possibilità pratica di concretizzazione.
Poi ovviamente esistono delle differenze sindacali reali, alcune delle quali pongono questioni serie e concrete che attengono al modo di fare sindacato e alla funzione del sindacato stesso in questa fase. Nessuno può avere la presunzione di superare questi elementi con un tratto di penna, né di negarli e non vedere le contraddizioni. Ma l’altro elemento positivo di una tattica di fronte unico è quello di non chiedere scioglimenti, non chiedere annullamenti organizzativi neanche sul fronte sindacale, ma di costruire piattaforme unitarie e di lotta comuni. In poche parole di configurarsi come necessaria tappa intermedia, strettamente aderente alla fase attuale. Sarà poi lo svolgersi dei processi storici a determinare le opzioni che prevarranno, se – come ci auguriamo – nell’unità effettiva delle lotte, nella capacità di organizzare la resistenza dei lavoratori alle politiche antipopolari, saremo capaci anche di far avanzare la proposta della necessità organizzativa della costruzione del sindacato di classe.
È chiaro che questo processo ha dei limiti, anche molto evidenti, ma sono il prodotto dello stato attuale della situazione, sono il grano con cui siamo chiamati a fare la farina, e da cui anche noi non siamo esenti da debolezze e mancanze. Si può, si deve criticare lo stato di arretratezza della condizione reale, ma mai astraendosi dai processi reali sarà possibile far avanzare concretamente un movimento di classe.
Uno dei drammi della nostra epoca è la separazione forzosa che si è venuta a creare tra coscienza politica rivoluzionaria da un lato e la pratica materiale delle lotte di classe nelle loro varie forme. Questa separazione ha portato da una parte a lotte parziali, frammentate, spesso sconclusionate che finiscono per sfociare in un’ottica tradunionista, riformista, e spesso in vicoli ciechi. Dall’altra ha trasformato gli elementi coscienti in spettatori della situazione, che giustificano proprio con l’arretratezza del piano di lotte la loro astrazione dal reale. Non partiti di avanguardia, ma circoli politici più o meno ristretti, privi di qualsiasi collegamento reale con lo stato materiale delle lotte.
Superare questa scissione, che è da sempre una delle questioni aperte nella storia del movimento operaio, è uno dei principali compiti rivoluzionari di questa fase. Tanto più che oggi, questa divisione finisce per assumere proporzioni grottesche e toni aprtamente farseschi data la condizione di arretratezza generale delle lotte e del movimento di classe nel suo complesso, nel confronto diretto con la profondità dell’attacco padronale rivolto ai lavoratori.
3) La differenza tra la tattica del fronte unico e le alleanze elettorali con le forze borghesi.
Questa separazione viene alimentata continuamente quando si confonde il piano dell’indipendenza politica dei comunisti dalle forze borghesi, con quello delle contraddizioni interne alla classe operaia e ai suoi segmenti di avanguardia, sindacali e politici, o addirittura con la necessità di operare nelle contraddizioni reali per strappare lavoratori e classi popolari dall’influenza delle forze borghesi.
Mente – ben sapendo di mentire – chi tenta di mettere nello stesso calderone la pratica opportunista delle alleanze con il centrosinistra, che ha portato al tradimento degli interessi dei lavoratori e alla sottomissione a quelli capitalistici, con la tattica del fronte unico. Una tattica che mira a unire le lotte, a fornire direzione alle rivendicazioni politiche dei lavoratori in senso rivoluzionario, a partire dal rifiuto della gestione capitalistica della crisi e dalla linea della concertazione e dell’unità tra capitalisti e lavoratori che è stata professata dalle forze democratiche e dalle direzioni dei sindacati confederali. Le due opzioni sono esattamente opposte.
Inutile quindi appigliarsi a falsi paragoni e fallacie logiche di ogni tipo per evitare la discussione reale. Il piano delle contraddizioni che presenta oggi il fronte unico non è quello della collaborazione tra borghesia e proletariato – che tutti i partecipanti escludono – ma quello del modo di organizzare le lotte, della loro direzione, della prospettiva strategica generale di un rovesciamo dei rapporti sociali esistenti e di come realizzare questa prospettiva. Le contraddizioni esistono e sono grandi ma sono contraddizioni interne al proletariato e alle classi popolari, che mai potranno essere risolte in modo favorevole se i comunisti se ne chiameranno fuori. E soprattutto mai potranno avere vita reale, se non si pone la questione di elevare la lotta complessiva su un piano materiale superiore, in cui le attuali divisioni abbiano un reale senso storico e attuale e non la riduzione a sempici tifoserie inconcludenti. Chi continua a alimentare la separazione tra il movimento di lotta concreto e i comunisti, portatori di una visione strategica di cambiamento, fa un danno reale all’avanzamento della lotta di classe in Italia, costruendo una falsa patente di ortodossia e radicalità a quella che diventa in realtà una teoria dell’immobilismo.
Un conto è l’indipendenza strategica dalle forze borghesi, il rifiuto della compartecipazione comunista alla gestione del potere capitalistico, la critica senza appello ai limiti storici della socialdemocrazia e al tradimento degli interessi dei lavoratori. Nessuno ha intenzione di mettere in discussione questi principi. Ben altro conto è teorizzare la separazione di fatto dei comunisti dall’insieme del movimento di classe per come è storicamente dato, con tutte le sue arretratezze e difficoltà, in una linea generale il cui risultato finale è semplicemente chiamarsi fuori dalla lotta, per quanto arretrata spesso sia, rinunciando a farla evolvere sul piano più radicale e rivoluzionario, e sostituendola con una generica ricerca di consenso rivolta ai settori più arretrati della classe lavoratrice e delle classi popolari. Settori per giunta, che mai, in questa fase arretrata, potrebbero porsi sul terreno della lotta concreta, finendo per abbassare e snaturare le proprie parole d’ordine per inseguirne il consenso, e non al contrario per elevare le parole d’ordine di quei settori di classe. Abbassare i rivoluzionari al livello degli strati più arretrati della classe, rendendoli ulteriore megafono della deriva reazionaria del Paese. Chi agisce in questo modo non lo fa per difendere l’indipendenza del proletariato dal campo avversario, ma semplicemente si chiama fuori dal lavoro materiale da compiere, limitandosi a proclami massimalisti, ma disinteressandosi del come far avanzare concretamente una prospettiva rivoluzionaria in Italia.
Continua….