“DA QUI NON ESCE UNA RONDELLA” – i metalmeccanici scioperano alla Fiac Compressori
Il 5 giugno, a Pontecchio Marconi, frazione di Sasso Marconi in provincia di Bologna, si è svolto il corteo dei lavoratori della Fiac Compressori, ricattati da una delocalizzazione decisa in unilateralmente dalla Atlas Copco, multinazionale svedese proprietaria della fabbrica. Una secchiata di acqua gelida arrivata il 26 maggio, senza alcun preavviso. Sei chilometri sotto il sole, dalla fabbrica al centro di Sasso Marconi, dove si sono tenuti numerosi interventi, e ritorno. È qui che abbiamo realizzato quest’intervista a Barbara, RSU della fabbrica, sotto ai gazebo del picchetto permanente organizzato dai lavoratori. “Non esce una rondella, te lo garantisco” mi dice appena ci sediamo.
“La fabbrica è bloccata dal 26. Noi produciamo, noi creiamo valore come abbiamo sempre creato, noi creiamo fatturato… Però da qua non esce una rondella. Ovviamente con il fatto degli scioperi, perché noi stiamo facendo un’ora di sciopero la mattina, un’ora di sciopero il pomeriggio, a scacchiera, nel senso che ci siamo divisi per ordine alfabetico, tocca a tutti un’ora di sciopero, in modo che il presidio sia costantemente sotto controllo”
Allora, partiamo dall’inizio. Barbara Gasparoni, Rsu da vent’anni della Fiac Compressori, monoreddito, affitto e una figlia a carico. Qual è la tua mansione e ruolo dentro la fabbrica?
“Io son sempre stata in catena di montaggio, da un anno sono nel Controllo Qualità Prodotto Finito, quindi controllo che i prodotti siano stati realizzati come la distinta chiama, controllo e collaudo, controllo l’imballo finale. Io ti posso garantire che per quello che ho visto, resi o altri non ne abbiamo mai avuti. Può esserci stata qualche cosa che poi magari sia sfuggita, ma il prodotto è veramente buono…”
Parlami della situazione aziendale, cosa fate, quanti siete e come siete divisi.
“Allora noi siamo 139 persone, comprendendo anche gli interinali e gli staff leasing, suddivisi nell’area commerciale, cioè la Fiac Professional creata dalla Atlas Copco l’anno scorso ad ottobre, separando un ramo di azienda, e sono 34 persone, e poi è rimasta l’area produttiva, Fiac Production, 105 persone circa. In questi numeri ci sono 29 staff leasing, ovvero i lavoratori con agenzia interinale e contratto a tempo indeterminato con una delle nostre due agenzie di riferimento, Adecco e Job Italia. Noi facciamo compressori di ogni tipo, dall’hobbystica al dentale, all’agricoltura, abbiamo una vasta gamma di prodotti.”
Quando è arrivata l’emergenza covid-19, la quarantena, cosa è successo, cosa è cambiato?
“Noi abbiamo chiuso il 23 marzo, non abbiamo mai subito contrazioni degli ordini, abbiamo chiuso solo per decreto. Abbiamo iniziato a rientrare a scaglioni il 16 aprile, in base a cosa c’era da mandare via o meno, anche perché gli ordini da evadere erano tanti ed eravamo rimasti indietro. La chiusura è stata minima quindi, ci è stata anticipata la cassa integrazione, ci sono stati riconosciuti i ratei della tredicesima e delle ferie, in buona sostanza non era cambiato niente. L’unica cosa su cui avevamo dei dubbi era la sanificazione perché era stata fatta il 22 marzo e poi non se n’era più parlato. Quello era l’unico dubbio forte, hanno passato due mesi senza fare la sanificazione, poi dopo aver annunciato la chiusura hanno iniziato a sanificare una volta a settimana… Le mascherine invece le avevamo perché ce le ha fatte avere un fornitore cinese”.
Come vi hanno annunciato la chiusura, quali sono state le dinamiche?
“Dopo la quarantena si è chiesto un incontro, che fu fissato per il 26 maggio, dieci giorni dopo la nostra richiesta. Volevamo capire come organizzarci post quarantena per le misure di sicurezza, la sanificazione e gli ordini tra le varie cose. Prima ci hanno lasciato parlare, poi hanno tirato fuori questo documento e con tono testamentario ci hanno letto a voce alta che la produzione veniva fermata al 31 marzo 2021, delocalizzando tutta la produzione a Torino. Atlas ha un altro stabilimento a Torino, che si chiama Abac, una ex proprietà di Fini Nu Air, svenduta e comprata da loro. Nello stesso giorno sono state chiamate anche quattro persone di Fiac Professional e gli è già stato comunicato che sono licenziate dal 31 agosto, perché spostano la parte amministrativa a Brno, in Repubblica Ceca. Tutto questo nonostante il decreto. Noi ovviamente non incassiamo il colpo e tantomeno firmiamo, cerchiamo invece di iniziare una discussione valutando una serie di possibilità: rilanciare, rinvestire, rivalutare, ma troviamo una totale chiusura da parte dell’azienda, che si chiude a riccio ad ogni tipo di rapporto o considerazione. Noi in quel momento abbiamo deciso di fermare la produzione, anche perché abbiamo un fatturato in aumento, la situazione dovrebbe esser positiva, e invece è paradossale che l’azienda ci confermi di avere molti ordini, ma voglia ugualmente trasferire la produzione a Torino. Dopo una nostra reazione accaldata ci hanno detto che chi vuole potrà andare a Torino, ma senza presentare alcun piano al riguardo delle ovvie problematiche… Insomma, loro ci hanno ventilato questa prospettiva chiedendoci di stare calmi. Oltre alla questione di Torino, ci è stato messo a disposizione fino ad agosto uno psicologo per affrontare questo percorso. Ci aiutano capisci? E così avevano risolto ogni problema sociale.”
Insomma, un’azione unilaterale da parte di un’azienda florida.
“E’ un’azienda florida, almeno se guardi il fatturato. Abbiamo sempre avuto un fatturato molto dignitoso, e anche nei periodi più grigi non abbiamo mai avuto grossi problemi di cassa integrazione. Questo te lo conferma il fatto che è stata aperta Fiac Cina e Fiac Brasile, quindi si è creata anche una situazione produttiva all’estero che non è indifferente. Il reparto vernici, finita la cassa integrazione il 19 aprile, ha lavorato sempre 10 ore al giorno e 5 ore tutti i sabati, anche il 26 mattina stavano facendo straordinario, anche le linee di montaggio la settimana stessa facevano straordinario, gli ordini non mancavano. Se invece si guarda il bilancio ci sono certamente delle spese fortemente da rivedere. Perché noi non possiamo essere in attivo di 74 milioni di euro e avere un buco di 6 milioni passati, c’è qualcosa che non quadra… Anche in regione chi analizza i bilanci ha detto che c’è qualcosa che non quadra. Quindi la regione ha chiesto al prossimo incontro anche l’intervento della casa madre, di Atlas Copco Italia, perché non è più solo un problema di zona, ma di conti a livello nazionale.”
Quali sono le dimensioni dell’indotto? Quanti fornitori hanno solo la Fiac come cliente?
“All’incirca abbiamo 8000 fornitori tra Italia ed estero, di questi solo sulla montagna abbiamo circa 75 fornitori di cui il 25% lavora esclusivamente per FIAC. Insomma, una trentina di persone che dovranno andare a casa. Abbiamo figli di colleghi che lavorano per nostri fornitori e oggi in piazza c’erano anche i fornitori. Qualunque imprenditore penso vorrebbe un’azienda con un fatturato in aumento tutti gli anni… Se noi avessimo avuto un sentore di una perdita saremmo intervenuti. Se l’azienda chiudesse si andrebbe a creare un domino a partire da Pontecchio, un vero e proprio crollo della città, che coinvolgerebbe poi Sasso Marconi e i comuni limitrofi, perché qua veniamo tutti dalla montagna. La montagna è stata già abbastanza colpita negli anni scorsi da vari procedimenti di trasferimento o licenziamenti, ma siamo sempre li.
Come è subentrata l’Atlas Copco? Quali cambiamenti hai visto da quando sono arrivati?
“Allora, il nostro titolare è deceduto a novembre 2014, a gennaio 2016 è subentrata Atlas Copco, che è multinazionale svedese. Loro si sono presentati con il progetto di fare di questa fabbrica il quartier generale del compressore a pistone, e sembrava proprio fosse così, ci sono stati sul campo delle variazioni, degli investimenti, degli arricchimenti, c’è stato un investimento dentro la stessa azienda, hanno messo a norma tante cose, riveduto tante situazioni. Tutto faceva presupporre che ci fosse un filo logico tra le parole e il fatto. Sicuramente però il primo impatto sono stati i cambiamenti nei rapporti umani. Noi non eravamo più Barbara, Manuela o Bea, noi eravamo “la signora”, “Signora scusi”, senza manco più sapere nome e cognome.”
Chi è adesso il referente? Insomma, con chi vi siete poi interfacciati effettivamente dal 2016?
“Ci sono stati dei turnover in questo senso, non abbiamo più avuto un referente unico in questo senso. Prima si andava, si bussava e si chiedeva, adesso devi mandare una mail con l’ordine del giorno intestata alle risorse umane, che a sua volta si interfaccia con l’ufficio delle risorse umane di Atlas Copco Italia, a Milano, che a sua volta si interfaccia con il nostro amministratore delegato qui a Pontecchio. Parte da Pontecchio, arriva a Milano e poi la domanda arriva di nuovo a Pontecchio, questo il giro. Nei fatti ci dobbiamo interfacciare con l’ufficio delle risorse umane (una ragazza arrivata da un anno e mezzo, ndr), e l’amministratore delegato nostro (che è francese, ndr), i rapporti sono cambiati. Adesso, ad esempio, abbiamo anche tanti manager. Abbiamo il manager di produzione, il manager per la sicurezza, il manager per le risorse umane, l’amministratore delegato prima citato, e devono tutti essere pagati, e non certo con un contratto da operaio. Uno di loro, venuto qui fuori al picchetto ci ha fatto confidenza, credendo di avere amici tra di noi, che sapeva da prima cosa sarebbe successo ma è rimasto in silenzio perché la Fiac gli paga casa e macchina. Tutti gli altri stanno sopra di lui, non saranno certo trattati peggio, prendono in benefit quello che io guadagno in dieci anni”.
Ma che lavoro svolgono? Sapreste gestirvi anche senza di loro?
“Assolutamente sì, e già lo abbiamo fatto. Noi siamo sempre stati un’azienda padronale in cui però il padrone per ragioni di salute è stato in ospedale molto a lungo, mentre i suoi figli facevano i commerciali, ovvero cercavano ordini in giro per il mondo. Abbiamo sempre avuto questa (diciamo tra virgolette) “autogestione”. Del resto, io sono tra le più giovani dei lavoratori a tempo indeterminato, c’è gente che è qui da quarant’anni”.
Ma questi manager non hanno una formazione professionale, una laurea? Che cosa fanno effettivamente e che qualifica hanno?
“Potresti fare anche tu il manager se fai come loro! Si hanno la laurea mi pare, hanno sicuramente un percorso di studi, ma se non sai come si accende un compressore è inutile, qui non hanno alcun impatto.”
Secondo te perché si è scelto di delocalizzare nonostante l’azienda sia florida? Insomma, qual è la ragione secondo te? Aumentare i profitti, estorcere altri soldi alla regione?
“Secondo me perché siamo male amministrati, piuttosto che per aumentare i profitti. Poi sulla regione può essere, visto che a noi hanno chiuso le porte ma da loro si sono fatti trovare, direi che un interesse c’è, sanno benissimo che possono arrivare dei soldi. Il 26 loro hanno comunque fatto partire la PEC per aprire la procedura. Poi l’hanno ritirata perché noi abbiamo detto che da qui non sarebbe uscito né l’amministratore delegato, né una rondella. Al tavolo con le istituzioni poi hanno congelato la PEC fino al 3, ovvero fino al tavolo con la regione. Lì gli è stato detto di ritirare la procedura e dopo vari tentennamenti hanno accettato, ma hanno fatto capire chiaramente che non aspetteranno tre o quattro mesi, tantomeno un anno, il loro progetto è rimasto lo stesso e lo porteranno avanti, facendosi allo stesso tempo dire dalla regione cosa c’è nel cilindro.
Delocalizzare potrebbe essere una scusa per far tagli al personale?
“Assolutamente sì! Fingono che il trasferimento non sia uguale al licenziamento, non sarà salva neanche Torino se questo è il loro modus operandi, anche i lavoratori lì presenti non hanno alcuna garanzia davanti a comportamenti simili, del resto hanno un’azienda in Cina, il ragionamento poi è breve. Come già detto, sono monoreddito con una figlia a carico, ho 49 anni; dove vado a Torino? Qui c’è gente che ha comprato casa, che ha un bambino. A Torino hanno 200 persone, avrebbero dovuto presentare un piano di integro, quali sono i contratti, come sistemarli, una proposta del genere si fa a 360 gradi, non così. In qualunque caso sarebbe un’occasione per stipulare un contratto al ribasso, ad esempio facendo passare i dipendenti sotto agenzia con un contratto da 4 euro all’ora se ti va bene tramite cooperativa…”
Davanti a questo attacco unilaterale dei padroni, non pensate sia l’ora di contrattaccare in quanto lavoratori? E se sì, come?
“Qua ci facciamo male. Io non ho più un cazzo da perdere, io mi lego anche al cancello. Se la regione non trova una soluzione, ponderata per tutti, perché nessuno deve far la fame per dare soldi a questa gente, io mi lego al cancello. Io ho perso tutto, e come me altri, se necessario occuperemo anche la fabbrica. Noi continuiamo questa lotta, e la portiamo avanti fino alla fine. Noi come attacco facciamo questo: hai visto stamattina in piazza, c’era tutta la città. Da qui non esce niente. I capi non resteranno a guardare un’altra settimana il magazzino che si sta ingrossando, che non sanno più dove mettere il lavoro finito. Andiamo a farci male, io l’ho messo in conto, almeno la dignità nostra ce la portiamo a casa. Questo è l’unico attacco che possiamo fare, siam qui a fare picchetto, che non arrivino oltre le cazzate, che a occupare la fabbrica ci mettiamo tre secondi. Io e molti dei miei colleghi ci stiamo rendendo conto che non pagheremo più l’assicurazione della macchina a giugno, io devo portare mia figlia una volta ogni tre mesi a far delle visite, non avrò più modo di farlo. Chi è monoreddito non ha più niente da perdere, e la maggioranza qui è monoreddito. Non fanno che dirci che il business soffre, che noi dobbiamo renderci conto che bisogna far uscire il prodotto, hanno la faccia come il culo capisci? Io mi devo rendere conto che il business soffre. Non sto accettando questa cosa, quindi mi dai lo psicologo. Cos’è, una setta?!”
Il picchetto come procede? Che difficoltà state incontrando?
“Il morale è abbastanza alto, anche se non ti nego che sono arrivate anche le lacrime. Noi siamo qua fuori da martedì, ventiquattro ore al giorno e c’è stata un tempo di merda, siamo stati sotto l’acqua a spalare acqua e fango, c’è gente che dorme in macchina, c’è gente che dorme sul tavolo. Mi aspettavo stamattina, oltre di vedere un container vuoto, di trovare una situazione diversa anche come impatto, è bello esserci tutti, ma veniteci incontro, le istituzioni avrebbero potuto portare una tenda, delle brande… La pro loco di Sasso Marconi ci ha portato il bagno chimico, non ho visto altri impatti per capire che c’è un presidio, c’è una signora di Pontecchio che ci porta da mangiare. Noi siamo qui h24, e lo sanno tutti, gli scioperi a scacchiera stanno procedendo, abbiamo due gazebi di merda, portate qualcosa, inutile chiederci se abbiamo bisogno di qualcosa, ci servono stivali, brande…”