Fallimento IMS-ISOTTA FRASCHINI: senza esproprio, nessuna ripartenza?
La sentenza di Roberto Laudenzi, giudice del tribunale di Spoleto (PG), ha posto lo scorso martedì 9 giugno la parola fine alla storia quasi sessantennale delle aziende Isotta Fraschini – IMS, rispettivamente i rami di lavorazione dell’alluminio e della ghisa della ex Pozzi: sono passati ormai sei anni dalla scoperta della maxi-frode tributaria allo stato per un miliardo e duecento milioni di euro operata da Castiglioni, titolare del gruppo Casti-Cagiva e proprietario dei rami aziendali ex-Pozzi (nonché di altre 14 società utilizzate per la frode). Le prospettive per il futuro dei circa 160 operai rimasti, da sei anni appunto sostenuti dagli ammortizzatori sociali, sono ridotte al rinnovo della cig in deroga per un altro anno, e poi alla NASpI per altri due anni, a meno che non subentri un tanto agognato investitore.
Si tratta di un esito quanto mai triste, per un’azienda che al suo apice produttivo impiegava una forza lavoro di 450 persone, evadendo commesse a livello nazionale e internazionale per colossi quali Fiat e Opel.
Nonostante la sentenza di fallimento fosse nell’aria da tempo, all’ultimo rinnovo della Cassa integrazione per gli operai rimasti era stato ventilato uno stallo fino agli inizi del 2021, e nel frattempo sarebbe stato elaborato un piano industriale solido per un’acquisizione dell’azienda e un auspicato mantenimento delle maestranze. Tutto ciò è stato bruscamente interrotto dalla sentenza di cui sopra. Per comprendere la situazione nei suoi vari aspetti, abbiamo intervistato Marco, operaio per tredici anni alla ex-Pozzi.
Si vociferava ormai da mesi il fallimento della IMS – Isotta Fraschini, ma in molti sono stati colti di sorpresa dalla sentenza. Tu sei tra questi?
Era ovvio che l’azienda sarebbe fallita, ormai le linee di produzione sono ferme da più di cinque anni, e da lì si è visto solo una lunga serie di rinnovi della cig, interrotti periodicamente dalle manifestazioni di interesse di altri imprenditori, che nessuno ha mai visto realizzarsi. Però la sorpresa c’è stata: sembrava che, dopo l’ultimo rinnovo, la situazione sarebbe rimasta così fino al prossimo anno, e invece quello che è incredibile è stato il comportamento dei sindacati.
Le sigle che hanno seguito la crisi (FIM CISL, FIOM CGIL, ma anche UGL) sapevano della sentenza da circa una settimana, mentre noi operai l’abbiamo saputo dai giornali. Neanche il tempo di organizzare qualcosa di meglio di un picchetto di una decina di persone con uno striscione su un lenzuolo, per i miei colleghi. Poi si lamentano se gli operai stracciano le tessere dei confederali.
Ma quindi la manifestazione d’interesse che il Sindaco De Augustinis ha ventilato in campagna elettorale non ha avuto seguito?
Mah, secondo me è proprio questo il motivo della sentenza. Semplicemente, il giudice ha visto l’inconsistenza dell’ennesima, ultima proposta, e ha deciso di non rimandare più. Cioè, si è mai vista una manifestazione d’interesse per un’azienda senza un sopralluogo, una valutazione tecnica dello stato degli stabili e dei macchinari? Ma soprattutto, chi può avere interesse per un’azienda che, pur essendo in amministrazione giudiziaria, mantiene sulla carta il valore dichiarato dalla ex proprietà, che adesso è in galera? Queste manifestazioni d’interesse ci sono pure state formalmente, magari, ma sono state perlopiù usate dai sindacati per rinnovare le richieste degli ammortizzatori sociali, che alla fin fine è l’unica cosa riuscita ai sindacati. Adesso, con il fallimento, ci sarà una rivalutazione al ribasso dell’azienda, magari a qualcuno interesserà.
Pensi a qualcuno in particolare?
Beh, che il centro Italia sia ormai territorio di caccia per aziende predatorie non è un mistero, basta ricordare, proprio per quanto riguarda Spoleto, quello che è successo al gruppo Novelli (petfood, prodotti caseari, pane, uova) quando è subentrato il gruppo calabrese iGreco: anche in quel caso, un’azienda storica del territorio messa in ginocchio economicamente da scelte aziendali scellerate, finisce in concordato, e guarda caso subentrano società costituite ad hoc con capitali ridicoli, ma legate a finanziatori collegabili ad ambienti molto poco raccomandabili. Anche per Isotta Fraschini – IMS qualcuno ha già detto che “sono parecchi gli avvoltoi che girano intorno alla bestia, in attesa che tiri le cuoia”.
I sindacati confederali non hanno mai spinto per una ripresa della produzione?
Guarda, se hanno mai avuto interesse in questo senso, noi non ce ne siamo accorti. È bastato vedere la velocità con cui è finita la produzione dopo che l’azienda è finita in amministrazione giudiziaria: dopo qualche mese, una volta venuta a galla l’insostenibilità economica della produzione (che la dice lunga sul perché vendessimo a prezzi così bassi a certi committenti, evidentemente qualcuno ci lucrava. Ma chiarirlo è compito dei giudici), i grossi debiti nei confronti di fornitori e lo stato di edifici e macchinari, la corsa agli ammortizzatori sociali è stata rapidissima e generale, anche davanti a tutte le commesse che ancora avevamo.
Una domanda un po’ provocatoria: vista la fine dell’ultimo Direttore Generale e della proprietà (tutti rinviati a giudizio per cifre evase e falso in bilancio nell’ordine di 1,2 miliardi di euro, e capi di imputazione sufficienti per svariati anni di carcere), che nonostante gli affari dell’azienda fossero tutto sommato sani hanno preferito fare profitto in altri modi, secondo te gli operai e gli impiegati della ex-Pozzi avrebbero potuto guidare l’azienda in autonomia?
Se fosse dipeso dalle ultime direzioni, sono sincero, no. Abbiamo visto varie manovre losche, tagli alla produzione che poi rendevano il prodotto mediocre, ricevuto direttive contraddittorie … ma quanti di noi (non pochi, a dire il vero) avevano avuto il piacere di lavorare con le dirigenze precedenti, come quella dell’ingegner Orsini, che abbiamo visto diverse volte lavorare con gli operai, a scaricare le forniture in tuta, o in amministrazione come se fosse un dipendente “normale”, hanno imparato come si organizza il lavoro, come si divide, le proporzioni delle miscele delle materie prime per realizzare il prodotto, i controlli, il rispetto della sicurezza. Tant’è che ad alcuni era pure balenata l’idea di mettere insieme i TFR di tutti noi operai, aprire una cooperativa e gestire l’azienda…
Il workers buy out? E perché non si è intrapresa quella strada?
Perché i lavoratori più “sgamati” hanno tirato il freno. Un conto è se provi a far funzionare l’azienda, e nel frattempo gli Enti di controllo ti agevolano. Che ne so, sospensione dei debiti nei confronti dei fornitori di energia, esproprio dei macchinari e degli edifici, sequestro dei beni della dirigenza in galera per immetterli nel ciclo produttivo. Con il buy out tu compri (con il tuo TFR, quindi coi frutti del tuo lavoro) solo la gestione della produzione: gli immobili, i macchinari, le strutture, rimangono tutti di proprietà dei titolari, e tu li stai affittando! Se poi consideri che la proprietà è in amministrazione giudiziaria, tutte le entrate vanno a coprire questo “affitto” a garanzia del debito che i titolari hanno nei confronti degli Enti statali, quindi non puoi reinvestirli in sicurezza, in bonifica dei locali, in aggiornamento dei macchinari… e tornando ai lavoratori “sgamati”, sapevano tutti bene quante fossero le situazioni fuori norma in azienda. Un controllo è un controllo, sia che comandi il titolare che gli operai in cooperativa. Solo che il titolare qualche aggancio per “aggiustare” i controlli ce l’ha, gli operai no…
E adesso?
Adesso, se tutto va bene, i sindacati ricominceranno daccapo: nuovi curatori fallimentari, quindi nuovi accordi per gli ammortizzatori in deroga, poi, se anche l’ottimismo del Sindaco, che per essere rimasto ottimista anche dopo il fallimento qualche dritta deve averla, e le prossime voci su un acquirente svaniranno come già successo, ci toccherà la NASpI. Finita quella, l’incertezza più totale, dopo 9 anni che a forza di promesse ci fanno vivere sulle spalle dei contribuenti.
E il dramma non sarà solo nostro, saranno altri duecento redditi da lavoro che spariranno da Spoleto, dopo la crisi della Maran e quella della Cementir. Mettici la crisi economica dovuta al coronavirus, e anche per il poco commercio che è rimasto a Spoleto la vedo dura, ma parecchio dura…
Il 19 Giugno, il sindaco de Augustinis (dettosi fiducioso negli esiti della vicenda, in quanto il fallimento assegna all’ente territoriale di riferimento la discrezionalità sulla destinazione del sito) ha avuto un incontro con i rappresentanti sindacali, giudicato “costruttivo e per il quale non posso che esprimere piena soddisfazione”. Per i massimi rappresentanti delle sigle sindacali coinvolte (Segretario Generale Fim Cisl Umbria Adolfo Pierotti, il Segretario FIOM Cgil Perugia Simone Pampanelli, il Segretario Generale FISMIC Confsal Giovacchino Olimpieri e il Commissario UTL-UGL Perugia Paolo Zaffini), l’incontro è stato definito “importante, che ci ha permesso di ragionare sia sugli ammortizzatori sociali che dovranno essere garantiti ai lavoratori già nei prossimi mesi, sia sulle prospettive future di questo insediamento produttivo, su cui sarà necessario lavorare insieme per riuscire a creare nuove opportunità occupazionali nello spoletino”.
Nonostante il fallimento abbia posto fine all’azienda come l’abbiamo conosciuta, l’odissea degli operai e degli impiegati ex-Pozzi è ancora ben lungi dal termine, ma gli esiti, sia per le maestranze che per il resto del tessuto economico della città, in assenza di una forte organizzazione e di un supporto sano da parte delle istituzioni, non sono affatto scontati.