Contorni “costituzionali” per le ambizioni militari del Giappone
Il Primo ministro giapponese Shinzo Abe si appresterebbe ad indire un referendum di modifica costituzionale. La modifica riguarderebbe uno dei “pilastri” fondamentali della Costituzione: l’articolo 9, il cui primo paragrafo proclama che “il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come metodo di realizzazione della sovranità statale, così come alle minacce militari e al ricorso alle armi quale mezzo per risolvere le controversie internazionali”. Il secondo paragrafo recita che in Giappone non saranno mai create forze terrestri, navali e aeree, nonché altri tipi di potenziale militare; infatti, ufficialmente, si parla di “forze nazionali di autodifesa”.
Nel gennaio 2018, Abe aveva promesso al parlamento di non modificare i due paragrafi esistenti del nono articolo, ma di aggiungere solo un nuovo paragrafo, in cui si sarebbe proclamato che il Giappone ha il diritto legale di dotarsi di proprie forze militari. Abe ha ora dichiarato che gli “restano un anno e tre mesi come presidente del Partito liberal-democratico e in questo lasso di tempo vorrei tenere il referendum”, motivando la decisione col fatto che, a suo avviso, la Costituzione, scritta dal comando di occupazione yankee nel 1947, non risponde più alle esigenze moderne.
Ora, osserva l’orientalista Vladimir Petrovskij su Vita internazionale, le modifiche costituzionali necessitano di referendum, per tenere il quale occorre il consenso dei due terzi dei deputati di entrambe le camere e il partito liberal-democratico, paladino della “liberazione dal Grande fratello” USA, detiene la maggioranza alla Camera bassa. Abe dunque avrebbe deciso di rischiare il voto, pur se nella società nipponica qualsiasi emendamento all’art. 9 è malvisto.
Nella questione si inserisce anche la minaccia, formulata un anno fa da Donald Trump, di ritirare tutte le basi americane, se Tokyo non comincerà a pagare 8 (invece degli attuali da 2 a 5) miliardi di dollari ogni anno per il loro sostentamento. Stessa minaccia con cui Trump aveva in precedenza mercanteggiato con Seoul, per addivenire infine a un accordo.
Niente più che una minaccia, in effetti: Seoul e Tokyo rappresentano avamposti fondamentali per la presenza USA nel Pacifico orientale e si può dire che le minacce di Trump a non contare più sullo “scudo protettivo” atomico USA nascondano – molto male – l’interesse del complesso militare yankee alla vendita a Giappone e Corea del Sud di missili e altri sistemi d’arma americani.
Non che l’eventuale approvazione dell’emendamento alla Costituzione giapponese modifichi di molto la realtà: a dispetto dell’art.9, che vieta la creazione di forze terrestri, navali e aeree, Tokyo le detiene tutte e tre e si piazza tra i primi dieci paesi al mondo per spesa militare, con oltre 50 miliardi di dollari.
Preoccupazione, ovviamente, viene da Pechino, così come da Pyongyang e Seoul, tutte memori delle occupazioni e atrocità giapponesi sui loro territori durante la guerra e che avevano già manifestato contrarietà allorché, nel 2015, il Parlamento giapponese, con legge ordinaria, aveva esteso il mandato delle “forze di autodifesa”, autorizzandole a intervenire militarmente fuori del paese in caso di attacco contro il Giappone o un “suo stretto alleato”.
La decisione di Abe sul referendum fa da cornice, tra l’altro, alla recente decisione giapponese di rinunciare alla prevista installazione, in aree delle prefetture di Akita e Yamaguchi – rispettivamente nel nordovest e sudovest dell’isola di Honshu, la maggiore dell’arcipelago giapponese – di due sistemi USA di difesa costiera antimissilistica Aegis Ashore (del tipo di quello basato dal 2016 in Romania e la cui installazione in Polonia viene da allora rinviata a cadenza biennale, “per motivi tecnici”) dopo che un paio di anni fa Tokyo aveva optato per quelli, accantonando la precedente opzione dei sistemi THAAD (Terminal High Altitude Area Defense).
Dal punto di vista delle caratteristiche tecniche, ogni complesso Aegis dispone di 24 lanciatori Mk41, per razzi SM-3 antimissile. Il fatto è che il Mk41 può facilmente trasformarsi in arma d’attacco, potendo lanciare sia razzi antimissile SM-3, sia missili alati “Tomahawk” a medio raggio: era questo che preoccupava Cina e Russia, come accade in Europa per i complessi Aegis in Romania, nonostante Tokyo assicurasse che il sistema sarebbe stato destinato solo alla “difesa” contro le “minacce missilistiche nordcoreane”.
Ufficialmente, la rinuncia ai complessi Aegis sarebbe dovuta sia a motivi economici, sia alla dubbia garanzia che, dopo il lancio, gli acceleratori finiscano in mare o in aree disabitate, e non invece su aree residenziali giapponesi; sembra, in realtà, che il sistema, come arma antimissilistica, sia già “invecchiato” e non in grado di opporsi seriamente ai moderni missili balistici e alati, per non parlare delle armi ipersoniche in dotazione a Cina e Russia.
Tokyo sembrerebbe per ora voler continuare dunque coi già presenti sistemi “Patriot PAC-3”, attuale fulcro del sistema antimissilistico giapponese con base a terra e quegli Aegis che sono invece già installati su una serie di cacciatorpediniere.
Kirill Senin ipotizza sulle Izvestija, che Tokyo potrebbe ora tornare alla precedente ipotesi di acquistare sistemi THAAD, cui aveva allora rinunciato con motivazioni di bilancio. Nel gennaio 2017, l’allora Ministro della difesa, la nazionalista Tomomi Inada, si era addirittura recata sull’isola di Guam – la più importante base americana nel Pacifico, insieme alle basi presenti a Okinawa che però, formalmente, sono in territorio giapponese – volendo visionare di persona, prima dell’acquisto, il sistema THAAD, lì presente, e che gli USA avevano proprio allora deciso di dispiegare anche in Corea del Sud.
In ogni caso, con o senza THAAD o Aegis terrestri, già così la presenza USA in Giappone non è di poco conto. Basi aeree e navali yankee sono presenti da nord a sud dell’isola Honshu e, proprio nell’area di Tokyo, ad esempio, gli USA dispongono della base aerea di Yokota che, dal gennaio 2016, ospita caccia di quinta generazione F-22 “Raptor”, a tecnologia stealth (il Giappone stesso avrebbe voluto acquistarne, ma un emendamento del Congresso americano ne vieta la vendita). Tra Honshu e Kyushu si contano oltre 54.000 militari USA, dislocati su poco meno di 90 basi. Sull’isola di Okinawa, è dislocato circa il 75% di tutto il potenziale – anche infrastrutture “civili”, depositi, amministrazioni – militare USA in Giappone.
E, anche senza il contingente yankee, le “forze di autodifesa” nipponiche non sono certo di second’ordine. Tra l’altro, Tokyo, come l’Italia, sta continuando ad adempiere i voleri del complesso militare-industriale USA, acquistando F-35 (anche a dispetto di vari incidenti occorsi ai primi di tali velivoli assemblati dalla Mitsubishi Heavy Industries su licenza della Lockheed Martin), al prezzo di circa 130 milioni di dollari ciascuno. A fine 2018, Tokyo ha deliberato l’acquisto di altri 105 F-35 (63 F-35A e 42 F-35B) per oltre 1,2 trilioni di yen, con l’obiettivo di arrivare a un totale di 147 velivoli.
Proprio per gli F-35B, si riassettano i due cacciatorpediniere portaelicotteri della classe “Izumo”, trasformandoli in vere e proprie portaerei, adattandone i ponti di volo ai caccia a decollo verticale, come d’altronde fatto dall’Italia – al pari del Giappone, in base al trattato di pace, non può avere portaerei propriamente dette – con i cosiddetti “incrociatori portaeromobili” “Garibaldi” e “Cavour”, di fatto vere e proprie portaerei STVOL (Short Take-Off and Vertical Landing).
Dunque, per quanto riguarda i risvolti internazionali della rinuncia ai sistemi Aegis e della prevista riforma costituzionale, Mosca, ad esempio, appare quantomeno “rilassata”: si ipotizza che l’emendamento all’art. 9 potrebbe rendere Tokyo meno vincolata a Washington e al U.S.-Japan Treaty of Mutual Cooperation and Security sottoscritto nel 1960 e, dunque, più propensa a scelte “bilanciate” nei rapporti bilaterali. Per quanto riguarda Pechino, forse qui non c’è altrettanto ottimismo, visto il recente infittirsi di “incontri ravvicinati” tra le aviazioni dei due paesi: l’americana The National Interest parla di continui voli sul mar Cinese Orientale da parte di caccia giapponesi Eagle F-15J di stanza a Okinawa e cinesi Su-27.
Tra l’altro, Robert Farley, ancora su The National Interest, ipotizzando i “luoghi in cui nel 2020 potrebbe scoppiare la Terza guerra mondiale”, ne cita due su cinque, afferenti proprio l’area Asia-Pacifico: la penisola coreana e il mar Cinese meridionale.
E Kris Osborn scrive che la US Navy si appresta ad “affrontare problemi nel mar Cinese Meridionale o nell’area di Taiwan”: più corretto sarebbe dire che si appresta a “creare problemi”, conducendo esercitazioni con l’impiego congiunto di due Carrier Strike Group , guidati rispettivamente dalle portaerei USS “Theodore Roosevelt” e USS “Nimitz”.
Tuttavia, sembra che anche Mosca, a parte l’ottimismo di facciata, non debba allentare la vigilanza. Sulla questione che da 75 anni agita i rapporti russo-giapponesi (il trattato di pace a conclusione della Seconda guerra mondiale, mai firmato: i giapponesi lo legano alle proprie pretese sulle isole Kurili), Tokyo non perde occasione di rivendicare la propria sovranità su quelli che chiama “territori settentrionali”: le isoli Kurili meridionali, Kunašir, Šikotan, Iturup e Khabomai.
Tokyo proclama come giapponesi tutte le Kurili e Sakhalin meridionale. Lo ha fatto di nuovo, eccependo sulle prospezioni geologiche nel mare di Okhotsk, tra Sakhalin, Kamčatka e le Kurili, nonostante Mosca avesse informato per tempo il Giappone dei lavori.
Il problema delle Kurili era venuto alla ribalta nel 1956, allorché Nikita Khruščëv, al “punto 9” della Dichiarazione congiunta sovietico-giapponese sulla cessazione dello stato di guerra, si era detto disponibile a che due delle quattro Kurili meridionali – Shikotan e gli scogli di Khabomai – venissero trasferite al Giappone, ma solo dopo la firma del trattato di pace. Tokyo aveva risposto picche: o tutte e quattro le isole, o nulla. A fine anni ’80, Gorbačëv si era addirittura detto pronto a trasferire Kunashir, Shikotan, Iturup e Khabomai, che Tokyo rivendica in base al trattato con l’impero zarista del 1855 e Boris Eltsin ne aveva seguito le orme nel 1993. Nel 2001, Putin era tornato a parlare di due delle quattro isole; se ne parlò ancora nel 2012, senza risultati. A complicare la vertenza ci si mette anche una diatriba “terminologica”: nella Dichiarazione congiunta del 1956 si diceva che “l’Unione Sovietica è pronta a trasferire” le due isole, ma nulla era detto “sulla loro successiva giurisdizione”; si specifica che la parola “cedere” non implica affatto un mutamento nella loro attribuzione. Tokyo sostiene invece che la formula “trasferimento” sia identica a “restituzione” e implichi il “naturale trasferimento di sovranità”. Il fatto è che, nel 1960, quando Tokyo concluse il trattato militare con gli Stati Uniti, Mosca annullò il “punto 9” della Dichiarazione del 1956; dunque, nonostante il Cremlino abbia varie volte accennato a quella Dichiarazione, quale “base giuridica” per nuovi negoziati, la maggior parte degli osservatori la giudica non più valida de jure.
Ma, cosa molto più concreta, è noto come Washington sia pronta a installare una propria base militare a Khabomai, non appena questa passasse al Giappone.
Inoltre, come notava già un paio d’anni fa Vladimir Pavlenko su iarex.ru, se le Kurili dovessero diventare giapponesi, “almeno una delle due squadre dei sommergibili atomici russi della flotta del Pacifico non avrà accesso all’Oceano e dovrà attraversare le acque territoriali giapponesi. Con tutte le conseguenze che ne derivano per la sicurezza nazionale e la difesa del paese”.
La cinese Sohu ipotizza addirittura che Tokyo possa avventurarsi in qualche azione di forza per impossessarsi delle Kurili, pur se la cosa risulterebbe alquanto problematica, non foss’altro perché è molto dubbio che il trattato americano-giapponese di “mutua cooperazione” si estenda anche a territori che, giuridicamente, non appartengono al Giappone. Se infatti, nota ad esempio Anatolij Koškin su iarex.ru, addirittura Tokyo non è sicura che Washington interverrebbe a suo fianco in caso di conflitto con la Cina per le isole Senkaku, nel mar Cinese Orientale, che i cinesi chiamano Diaoyu-dao e considerano proprie, per quanto riguarda le Kurili, il dilemma non si pone nemmeno. Nonostante Tokyo parli di “propri territori sovrani”, in base all’art. 5 di quel trattato, gli americani si impegnano a proteggere solo il territorio su cui il paese alleato eserciti diritti amministrativi.
Nel momento in cui Tokyo riuscisse a ottenere tali diritti sulle Kurili meridionali, allora gli americani arriverebbero lì con le loro basi e armi. Non è forse per questo, si domanda Koškin, che Tokyo sta cercando, come primo passo, cioè di ottenere da Mosca un “particolare status giuridico” per le isole, che riconosca in sostanza i diritti giapponesi sui loro territori?
Sinora, conclude il politologo russo, non ci sono segnali che i comandi giapponesi stiano mettendo a punto piani di attacco; si fanno però sempre più attive le forze di destra, essenzialmente fasciste che, con il sostegno di alcune forze politiche e con slogan su “nessuna concessione alla Russia” sui “territori settentrionali”, potrebbero esser tentate di arrivare a serie provocazioni.
Per i vicini del Sol levante, la riforma costituzionale di Shinzo Abe si muove in contorni niente affatto tranquilli.
Fabrizio Poggi