Conquistare l’operaio che vota Lega o diventare leghisti.
Da alcuni mesi è in corso un dibattito in seno al Partito Comunista che ha coinvolto anche il FGC portando alla sospensione del patto d’azione tra le due organizzazioni. La richiesta di un congresso e la possibilità di svolgere questo dibattito in quella sede sono definitivamente sfumate con la decisione di non rinnovare il tesseramento in blocco a centinaia di iscritti del PC in diverse parti d’Italia, impedendone conseguentemente la partecipazione al congresso. In questi mesi molte delle vicende sono state trattate –spesso da ambo i lati – con semplificazioni. Non essendoci più prospettiva alcuna del dibattito interno richiesto, e ritengo che una parte delle questioni che hanno animato il dibattito siano elementi importanti nella discussione strategica sulla ricostruzione comunista e non costituiscano patrimonio esclusivo degli iscritti o ex iscritti al PC. Sono altrettanto e sempre convinto della necessità che la ricostruzione comunista in Italia si conduca tra lotte reali e serrato dibattito ideologico. Per questa ragione pubblicherò sull’Ordine Nuovo le principali questioni che hanno animato il dibattito in questi mesi. Forse ridare spazio alla politica contribuirà a dare a quel dibattito il livello politico dovuto, sottraendolo al botta e risposta su aspetti secondari per certi versi deleteri. La scelta di partire da questo tema è dettata più che dalla sua individuazione come elemento principale rispetto agli altri, dalla centralità che stanno assumendo nella discussione e nelle reciproche critiche. Non è dunque un ordine di priorità ma di contingenza.
La maggioranza dei lavoratori vota a destra.
La questione può essere riassunta così utilizzando le stesse parole utilizzate da Rizzo in un ufficio politico, che ebbi premura di segnare tra i miei appunti: “La maggioranza dei lavoratori oggi vota a destra, perché odia la sinistra. Per riconquistare i lavoratori dobbiamo attaccare la sinistra, degli immigrati dei diritti civili, distanziandoci chiaramente su questi temi. Solo prendendo quella critica che oggi dice Salvini possiamo riconquistare i lavoratori ”. La tesi per come venne impostata fu criticata nell’ufficio politico, ma come spesso accadeva la critica e la richiesta di spostare il campo dell’attacco non ebbe seguito. Anzi pochi giorni dopo uscì la famigerata intervista a Il Giornale[1], poi ripresa da altri, a tutt’oggi priva di smentita.
La tesi è sbagliata, sia nelle premesse che nelle conclusioni. Partiamo dalle premesse. Dire che la maggioranza dei lavoratori vota a destra è scientificamente errato, perché finisce per assolutizzare una tendenza presente in alcuni settori di classe, assumendola come dato generalizzato da cui partire, di fronte ad una realtà più complessa e diversa.
In primo luogo oggi esiste in Italia una particolare fascia di lavoratori a cui è impedito legalmente il diritto al voto. Nel 2018 un indagine condotta dal Ministero del Lavoro[2] ha evidenziato come in Italia risultino impiegati 2.422.864 stranieri regolari, che costituiscono all’incirca il 10,5% della manodopera complessiva. Più del 70% di questi è impiegato come operaio. Dal conteggio sono ovviamente esclusi i lavoratori irregolari che non figurano nelle statistiche ufficiali. Solo questo dato ci dice che oltre il 10% dei lavoratori non vota perché è impossibilitato per legge a votare, non essendo consentito in Italia il voto dei lavoratori stranieri, salvo per i cittadini comunitari alle europee e alle comunali. Si tornerà su questo aspetto nella parte dedicata ai “diritti civili”, basti qui considerare che una parte dei lavoratori non entra neppure nell’elenco degli aventi diritto al voto.
In secondo luogo quest’analisi tralascia l’impatto sempre maggiore dell’astensione. Alle ultime elezioni europee ha votato appena il 56.1% degli aventi diritto, nelle scorse politiche il 73%. In entrambi i casi con una riduzione media del 2% su base di tornata elettorale. Sebbene esistano analisi non perfettamente coincidenti, i flussi elettorali siano qualcosa di molto complesso e manovrato ad uso e consumo di vari interessi, è unanimemente riconosciuto che il “primo partito” tra i lavoratori e le classi popolari è proprio l’astensione. Indagare sulle ragioni di questo dato sarebbe il primo punto di partenza di un’analisi di una forza comunista rispetto alle elezioni, e forse proprio a questa porzione si dovrebbe guardare, possibilmente in ottica non meramente elettorale ma anche e soprattutto di potenziale organizzazione. Nel calderone dell’astensione c’è di tutto, ma – secondo le statistiche – circa il 35% tra chi si definisce di sinistra si astiene[3]. Forse un primo indizio su dove andare a guardare in prima battuta.
Solo a questo punto è possibile parlare della tendenza che vede oggettivamente una parte numericamente importante dei lavoratori votare a destra. Rispetto alle europee 2019 – che sono state il risultato più alto della Lega di Salvini – circa il 50% dei lavoratori che hanno partecipato al voto ha espresso il suo consenso a Lega e FDI. Una percentuale importante, non trascurabile, ma che considerando i dati elencati costituisce circa il 25-27% della popolazione lavoratrice complessiva, dato ben lontano dalla maggioranza teorizzata in premessa. Una percentuale inoltre, in larga parte compatibile con una radicalizzazione a destra/riarticolazione interna dell’area di centrodestra che fin dall’inizio degli anni ’90 con la discesa in campo di Berlusconi ha intercettato consensi anche tra i lavoratori. Non si nega qui la presenza di settori un tempo di sinistra o addirittura elettori comunisti che oggi esprimono simpatia o consenso per la destra. Ciò che si nega è farne una regola generale, analisi molto in voga nelle redazioni televisive, ma assai riduttiva e poco rappresentativa nella realtà.
Quindi semplicemente affermare che la maggioranza dei lavoratori vota a destra è assumere una circostanza errata come base su cui impostare la propria strategia.
Sia chiaro: strappare settori delle classi popolari all’influenza nefasta della destra è un compito importante dei comunisti, che nessuno ha mai negato. Tuttavia, in una condizione di particolare arretratezza e disorganizzazione del movimento operaio nel suo complesso, identificare come obiettivo principale conquistare “l’operaio che vota Lega” è una precisa scelta di campo nella costruzione di un partito di consenso rispetto a un partito di classe. Se è vero che una parte importante dei lavoratori vota Lega, quella parte è in ogni caso la più retriva, indisponibile ad un’ottica di lotta effettiva sui posti di lavoro, più incline a un’ottica di conciliazione sociale e nazionale. In poche parole significa puntare alla retroguardia della classe operaia, in una condizione in cui non esiste una compiuta avanguardia organizzata. Significa porsi la questione sotto forma di crescita di consenso del Partito e non di suo radicamento effettivo nelle lotte, a partire dalla conquista delle posizioni più avanzate e della loro organizzazione. Anzi, proprio le modalità errate di condurre la lotta ideologica nei confronti delle organizzazioni di sinistra e dell’arretratezza sindacale, insieme con l’assunzione di categorie funzionali ad intercettare il consenso del famoso “operaio che vota Lega” hanno finito per restringere il campo di operazione effettivo del Partito, alienando la simpatia naturale di settori di avanguardia dei lavoratori, respinti proprio da queste tesi.
In ultimo, non sfuggirà, che anche a volersi porre sul semplice terreno elettoralistico e di consenso – che come detto andrebbe superato – la scelta di rivolgersi all’elettorato della destra in una fase di avanzamento della destra, riconoscibilità di suoi leader e organizzazioni di riferimento, non comporta alcun risultato apprezzabile neppure in termini di consenso. D’altronde come amava dire qualcuno “tra l’originale e la fotocopia, si sceglie sempre l’originale” (Cit.), o più prosaicamente, se un partito al 30% dice le stesse di uno che oscilla tra lo 0,3 e lo 0,9% è facile intuire chi sarà preferito nell’urna. Il tutto, di fronte ad una percepita assenza di una forza politica “a sinistra”, ossia dell’assenza di una soggettività politica in grado di intercettare come in altri paesi europei una parte del malcontento popolare in questa direzione, assenza che avrebbe consentito ai comunisti, con un’altra impostazione, di potersi direttamente intestare questo compito senza subire la presenza di elementi intermedi, come avvenuto altrove nel continente.
Sinistra opportunista o “sinistra fucsia”?
Ma una volta impostata la questione in ottica di consenso e non di radicamento, escluso un piano reale di inserimento e lotta nelle contraddizioni materiali, le conclusioni del ragionamento non possono che porsi su un piano errato e pericoloso, per cui il recupero del consenso dei lavoratori avviene a suon di comunicati sul terreno della critica di precisi aspetti della sinistra, con ciò consentendo di rientrare in connessione con i sentimenti dei lavoratori.
L’idea è sostanzialmente che i lavoratori odino la sinistra perché percepita come la sinistra dei “diritti civili”, degli immigrati, del buonismo, dei radical chic, della globalizzazione, della distanza dalla condizione reale delle classi popolari del Paese. Come sempre anche qui esiste un fondo di verità che intreccia un piano reale – quello dell’abbandono di una prospettiva di classe da parte della sinistra radicale e del passaggio a pieno nel campo avversario della socialdemocrazia, dell’inversione del radicamento di classe delle organizzazioni della sinistra, che interessa ai comunisti – con la visione ideologica, qui intesa nel senso deleterio e propriamente marxista del termine, come falsa coscienza, che riporta alle categorie moralistiche e nazionalistiche della destra. Il fatto che in larghi settori degli strati popolari questa seconda visione sia dominante, è un dato storico che ha a che fare con l’arretratezza e l’assenza di radicamento delle organizzazioni di classe, in assenza delle quali ha prevalso la narrazione utile alle classi dominanti alimentata da centrodestra e centrosinistra di spostare il terreno dello scontro politico dall’ottica del conflitto capitale/lavoro in cui centrodestra e centrosinistra sono dalla stessa parte della barricata.
Un conto è criticare la sinistra per l’abbandono dell’ottica del conflitto capitale/lavoro, per l’abbandono della prospettiva del rovesciamento dei rapporti sociali esistenti. Ben altro è criticarla – da destra – sul terreno dei “diritti civili”, cioè assumendo l’impostazione moralistica e culturale come determinante, in una critica volutamente ambigua perché tramite ambigue formulazioni si dovrebbe realizzare la riconnessione con i settori di classe che sono preda delle posizioni reazionarie.
Emblema di tutto ciò la scelta terminologica costantemente utilizzata da Rizzo – nonostante per mesi l’Ufficio Politico abbia chiesto la sostituzione di questa espressione – di “sinistra fucsia”. Basterebbe farsi un giro sulle pagine dei partiti fratelli per cercare a livello internazionale qualcosa di simile, ma si rimarrà delusi trovando categorie proprie dei comunisti come “sinistra opportunista” “post-comunista” ecc… Al contrario non si impiegherà molto tempo a rinvenirne l’utilizzo in tutti quei settori di destra che predicano una presunta trasversalità antisistema o in quanti – come Fusaro e Vox – dichiarano di avere “idee di sinistra e valori di destra” oppure sul primatonazionale. Parlare di “sinistra fucsia” “sinistra liberal” non è altro che un modo per deviare il piano della critica alle forze opportuniste e socialdemocratiche – critica che per i comunisti deve essere quella dell’accettazione politica del capitalismo come orizzonte – su un piano moralistico. Anche un bambino si rende conto che criticare la sinistra su quell’ottica significa cadere sul terreno della destra. Al posto di disvelare gli elementi strutturali che si nascondono dietro la disputa ideologica tra destra e sinistra, si finisce per porsi su questo piano riuscendo a concepire come elementi di distacco dalla sinistra opportunista solo le categorie proprie della destra.
La proiezione politica immediata è stata alimentare ad uso e consumo di questa differenziazione posticcia, una meccanica distinzione tra “diritti sociali” e “diritti civili” che finisce per non cogliere la complessità della vicenda e sottomettere all’esigenza di una semplificazione mediatica, fenomeni più complessi. A ben vedere uno degli aspetti centrali della critica marxista alla società borghese risiede nella contraddizione tra estensione universale dei diritti in senso formale, e la negazione concreta del carattere universale di quei diritti nella società divisa in classi. In questa ottica la società socialista-comunista eliminando la divisione in classi elimina questa distinzione tra formale e reale. Non è qui il caso di andare oltre su questa analisi, ma ciò che è chiaro è che, anche assumendo questa differenza tra “diritti civili” e “diritti sociali” come categorie, esistono relazioni dialettiche tra le due, che hanno per giunta un ancoraggio evidente proprio in dinamiche di classe.
Una coppia omosessuale che vede riconosciuta l’unione civile, equiparata sotto il profilo fiscale e assistenzialista al matrimonio potrà godere di diritti che oggi vengono assicurati normalmente a coppie di lavoratori eterosessuali, come una pensione di reversibilità, diritto a permessi familiari, legge 104, ecc.., che oggi l’ordinamento riconosce in casi di matrimonio. Difficile sostenere che questa misura riguardi interessi borghesi. Il grande stilista, il produttore cinematografico, l’attore di successo non hanno di certo bisogno di una pensione di reversibilità o di una giustificazione per assentarsi dal posto di lavoro in caso di malattia del proprio partner. Il magazziniere, il commesso del supermercato, il maestro di scuola, sì. Per quale ragione dunque porre le questioni in aperta contraddizione, quando nei fatti il principale beneficio di questi diritti ricade proprio sugli strati sociali più bassi? Certo nei limiti di ciò che il diritto borghese e le conquiste dei lavoratori in una società borghese possono ottenere, non eludendo il piano della critica complessiva dei comunisti a questo modello di concessioni parziali interne alla società capitalistica. Ma questo vale per tutto.
I comunisti e l’immigrazione.
Ciò a maggior ragione sul lato dell’immigrazione, la cui questione è stata artificiosamente inserita nell’ambito dei “diritti civili” quando tocca molteplici aspetti di classe, e dimostra – più di ogni altra – che esiste una connessione e non una separazione meccanica tra queste categorie.
Recentemente sono stato attaccato per aver sostenuto una tesi che rimarco: un conto è criticare anche aspramente il provvedimento del Governo firmato dalla Bellanova per la sua insufficienza e, per come formulato, un sostegno di fatto ai capitalisti del settore agricolo. Ben altro conto è dire in assoluto che la regolarizzazione dei lavoratori immigrati nei campi non è una battaglia dei comunisti perché attiene a diritti di carattere formale, “civili” per l’appunto. Questa tesi sostiene che i diritti sociali da conquistare sarebbero orari di lavoro massimi, parità salariale ecc.. Sono certamente d’accordo sugli obiettivi. Ma se un lavoratore non esiste perché irregolare, non potrà mai firmare un contratto. In che modo questi diritti gli potranno essere riconosciuti nei fatti? Di fronte a questa evidenza, si schianta contro il macigno della realtà l’assolutezza della distinzione tra diritti civili e sociali, così come macchiettisticamente presentata. Non ci vuole molto a comprendere che la regolarizzazione non assicura di per sé i diritti sociali, che questi dovranno essere conquistati con le lotte, ma che senza la regolarizzazione non può esistere lo strumento materiale con cui quei diritti conquistati si sanciscono in una società borghese: banalmente un contratto. Non ci vuole molto a capire che se il padrone dispone di un’arma di ricatto in più perché sei irregolare e può minacciare di farti espellere dal Paese, il capitale potrà spremere di più i lavoratori immigrati, peggiorando la condizione di vita in prima battuta dei lavoratori immigrati e in secondo luogo dei lavoratori tutti.
La seconda obiezione che mi è stata rivolta può essere così sintetizzata: “ma questi diritti sono pur sempre riconosciuti in una società borghese, quindi non sono rivoluzionari”. La prima risposta è che intanto, al momento, non sono riconosciuti e che quindi in ogni caso la società borghese per interessi dei capitalisti li nega. In secondo luogo, a voler ragionare di diritti posti su un piano di battaglia non rivoluzionaria si dovrebbe travolgere anche le stesse rivendicazioni di “diritti sociali” come la parità salariale e i limiti orari di lavoro. Anche queste sono a ben vedere conquiste intermedie e non rivoluzionarie visto che il fine dei comunisti è l’abbattimento del lavoro salariato non una sua regolamentazione. Nessuno – neppure Bordiga[4] – si è mai sognato di sostenere che i comunisti debbano disinteressarsi al piano delle conquiste intermedie, perché la differenza tra porsi su un piano riformistico e rivoluzionario sta nel diverso significato e ruolo che si riconosce alle conquiste intermedie. Questo discorso vale per tutto: non limitarsi al piano di riconoscimento di diritti formali, ma lavorare per il riconoscimento di diritti reali, significa per lavorare ad una piena e reale estensione non anteporre un rifiuto.
Quando si parla ad esempio di diritto di voto agli immigrati, si liquida frettolosamente la questione come ininfluente, o addirittura parte di quell’insieme di rivendicazioni radical chic. Forse potrà esserlo nell’ottica di quei settori della sinistra opportunista e borghese che inquadrano l’intera questione dell’immigrazione al di fuori di categorie di classe, ma è singolare che non esista una riflessione dei comunisti sul fatto che il 10.5% dei lavoratori – pur lavorando in Italia, producendo ricchezza per i capitalisti italiani – in quanto cittadini stranieri, non hanno diritto al voto. Al di fuori di ogni esaltazione fuori tempo del suffragio universale, e ben consapevole del limite storico del voto in una società borghese, si dovrebbe ragionare sul fatto che un pezzo importante della classe operaia è escluso giuridicamente dal diritto di voto e quali ne siano le conseguenze. Si tratta di lavoratori impiegati per lo più in settori ad elevato tasso di sfruttamento, con mansioni non qualificate. Spesso molti lavoratori immigrati apportano un contributo essenziale e di primo piano alle lotte, in settori come la logistica, il bracciantato. Quindi ad essere esclusi sono proprio settori più combattivi e tutt’altro che secondari nelle lotte. Si tratta di problemi nuovi, ma di fronte al crescente impiego di lavoratori immigrati nelle catene del lavoro capitalistico, la loro automatica espulsione dalla vita civile significa nei fatti espulsione di pezzi di classe operaia, mutamento della base elettorale rispetto alla base sociale del Paese. Solo nel caso in cui si disconosca completamente il piano elettorale allora si può decidere di ignorare la questione. Ma anche dove si riconosca quel minimo valore collaterale della dinamica elettorale nel piano d’azione complessivo del Partito, la questione non può essere ignorata e quantomeno denunciata per il suo carattere classista, non semplicisticamente bollata come buonista.
E qui giungiamo al centro della critica sulla vicenda dell’immigrazione, gettata interamente in una distorta interpretazione dell’ “esercito industriale di riserva” piegata ad uso e consumo della costruzione di una espressione utile a creare quella connessione empatica con la visione populista e reazionaria dell’immigrato che toglie il lavoro. Con un escamotage linguistico si è così mascherata la propria scelta di campo, schierandosi mediaticamente, ma evitando invece qualsiasi forma di lavoro effettivo nella classe anche attraverso l’organizzazione materiale di settori dei lavoratori immigrati. Si è nascosto poi, presentando l’idea di un lavoratore immigrato disposto a tutto, chino a lavorare senza fiatare e per questo più utile ai capitalisti, che molti lavoratori immigrati sono nei fatti all’avanguardia nelle lotte in interi settori economici.
Se nella realtà non si ha notizia del rinvenimento del famigerato “giornalista siriano che dorme negli scantinati di La7 e lavora per 600 euro al mese” che tanto faceva sciogliere sentimenti di composta empatia il conduttore di turno, la realtà ci parla di picchetti ai magazzini, scioperi nei campi, braccianti bruciati, in settori dove lo sfruttamento è portato al massimo livello. La realtà è fatta di migliaia di euro di multe per i decreti sicurezza, espulsioni, allontanamenti. Di tutto ciò neppure l’ombra nelle dichiarazioni. Al posto di ricomporre su un terreno di classe la spaccatura prodotta dalla retorica della destra su base nazionale e etnica, a tutto vantaggio dei capitalisti, nei fatti il PC si è reso corresponsabile di questa divisione con l’aggravante di aver ammantato il tutto di una retorica fintamente marxista, più sofisticata, ma altrettanto pericolosa perché rivolta a settori potenzialmente cruciali.
Nel periodo di maggiore intensità della crisi migratoria, lungi dal condurre una seria campagna politica di controinformazione sui dati[5], combattendo la vulgata dell’invasione di massa, Rizzo ha dato anche qui sfoggio di tutta l’ambiguità e pericolosità della sua concezione. L’equilibrio tentato in alcuni comunicati di Partito – anche a firma di Rizzo – perché redatti collettivamente, si infrangeva inevitabilmente nelle dichiarazioni individuali dove non era possibile alcun intervento preventivo o di mediazione. Dire che la questione immigrazione non deve ridursi a porti chiusi o porti aperti disinteressandosi del resto, è giusto a patto che si precisi che in ogni caso non si lasciano morire o stazionare per settimane le persone in mare, e che quindi alla fine i porti devono comunque essere aperti. L’alternativa secca non risolve il problema, ma ciò non nega che i comunisti non posso restare indifferenti di fronte alla condizione di migliaia di persone.
Il comunicato del KKE rilasciato negli stessi giorni[6] lanciava messaggi come “Sappiamo bene cosa avete passato. Avete lasciato le vostre case, le vostre famiglie, la vostra vita e i vostri sogni. Siamo qui! Siamo dalla vostra parte per aiutarvi!” o ancora “I rifugiati-immigrati sono persone sradicate, la maggior parte delle quali vuole lasciare la Grecia! Non sono invasori! Lavoratori, donne, uomini e giovani del popolo del nostro paese: isolate il razzismo e la xenofobia!”. Parole che qui sarebbero state bollate come tipiche espressioni della “sinistra fucsia”.
Non si comprende infatti per quale ragione il piano di denuncia dell’imperialismo e delle responsabilità capitalistiche non debba estere esteso alla conseguenza diretta di solidarizzare con le sue vittime primarie, preferendo restare nell’ambiguità di formulazioni che ben possono essere intese all’orecchio dell’elettore di destra come una conferma della giustezza di quelle posizioni. La critica da fare alla sinistra borghese non è sull’apertura dei porti – bollandola erroneamente come inutile – ma sul piano dell’aperto sostegno all’imperialismo, sulla mancata rottura delle criminali regole europee in materia di accoglienza, sull’assenza di diritti reali garantiti agli immigrati. Una critica che chiede di più, non di meno, che evidenzia il limite storico dei democratici e dei socialdemocratici, non che chiede di tornare indietro persino rispetto a loro. E che di certo non si compone di affermazioni come quelle rilasciate negli appuntamenti video settimanali, in cui addirittura si arriva a criticare le ragioni di chi scappa!
Conclusioni
Quest’ottica, potrà non essere condivisa da una parte dei lavoratori e degli strati popolari che subiscono i risultati della propaganda nazionalista e reazionaria, in un momento storico particolarmente arretrato. Ma rinunciando alla critica di questa impostazione e soprattutto al lavoro materiale nelle contraddizioni per unire le rivendicazioni e non alimentarne la divisione orizzontale, il risultato è confermare dall’ottica dei comunisti le tesi della destra. Un piano di questo tipo può essere realizzato concretamente solo se viene costruito e non declamato, perché si attua sul piano reale del radicamento e dell’organizzazione, innestando in questo contesto una battaglia politica-ideologica per far avanzare le proprie concezioni. Perché qui si riconosce l’impostazione di Partito e la differenza che i comunisti dovrebbero avere dalle forze borghesi: se si concepisce il Partito come elemento che intercetta flussi di consenso al pari dei partiti borghesi allora bisogna dire ciò che gli elettori vogliono sentirsi dire. Ma questo va bene per una forza borghese il cui compito in definitiva è difendere lo status quo, accomodarsi al senso comune che in ultima istanza riflette le esigenze e gli interessi delle classi dominanti. Questo piano diviene insostenibile per una forza marxista-leninista il cui compito è rovesciare i rapporti sociali esistenti, e per far questo, combattere aspramente ogni forma di falsa coscienza anche a costo di rinunciare a facili consensi immediati.
Se si analizzano le parole e le posizioni espresse si coglierà una differenza che a prima vista potrà passare inosservata, ma che in realtà è dirimente. Noi siamo dell’idea che il razzismo, le discriminazioni sul piano del genere o dell’orientamento sessuale, siano elementi che vadano combattuti anche in seno alla classe operaia e agli strati popolari, elevando il grado di coscienza dei settori popolari più arretrati. Non per certificare semplicemente un’uguaglianza formale, né tantomeno per sostituire categorie di classe con altre come fatto dalla sinistra opportunista, ma perché teorie e idee che dividono sulla base di razza, genere, orientamento sessuale ecc.. sono un ostacolo alla comprensione dei meccanismi ultimi dello sfruttamento capitalistico e si convertono nei fatti in un potente alleato delle classi dominanti. Come affermato anche in queste settimane dalla riflessione di partiti fratelli, queste questioni sono problemi aperti nelle classi popolari, perché i capitalisti non si dividono tra loro sulla base di questi elementi, i proletari sì[7]. Combattere quindi queste teorie è importante proprio in ottica di unire la classe, impedendo divisioni artificiose.
Può apparire simile, ma è diametralmente opposta l’ottica di chi finisce per considerare che l’esistenza di questi fattori sia di per sé elemento di divisione della classe operaia. In tal caso a ben vedere ad essere combattute, non sono le idee e teorie che separano sulla base della razza, nazionalità, sessualità ecc… ma l’esistenza stessa di queste differenze, vista come fattore materiale di divisione, magari sulla base di presunte volontà di “poteri forti” internazionali di alimentarle per dividere i popoli al loro interno, per proporre piani di omologazione culturale e imposizione di modelli o in ottica geopolitica. In questa concezione l’immigrazione non seguirebbe a ragioni strutturali connesse con l’imperialismo ma piani di destabilizzazione nazionale organizzati da élite mondialiste, l’omosessualità sarebbe parte di un disegno globale per mutare le tradizioni e omologare la cultura mondiale, e così via. È chiaro che con tali impostazioni i comunisti non possono avere nulla a che vedere, dovendole anzi considerare a tutti gli effetti ideologie da combattere, parte dell’arsenale di cui dispone il campo avversario. Tuttavia è proprio a questi settori che si finisce per rivolgersi – basta vedere commenti e condivisioni dei post sui social – quando si utilizzano formulazioni volutamente ambigue o si crea una contrapposizione tra queste questioni e la lotta di classe, come se fossero tra di loro in aperta contraddizione e non semplicemente operanti su piani distinti e, in alcuni casi, persino connessi tra loro.
Alla fine del percorso intrapreso da Rizzo, il risultato che si ottiene non è quello di elevare il grado di consapevolezza storica e coscienza di classe, strappando settori degli strati popolari tanto al riformismo quanto alle teorie nazionaliste e reazionarie, ma di abbassare l’avanguardia organizzata nel Partito Comunista alla rincorsa di un senso comune reazionario, neutralizzando i potenziali elementi di soluzione. Il tutto nella ricerca di un consenso e non del radicamento nei settori di lotta, adottando la logica propria dei partiti elettoralisti: andare dove tira il vento.
Ma anche i risultati effettivi danno il senso delle scelte. Alla prova dei fatti, nessun “operaio che vota Lega” ha chiesto l’iscrizione al Partito in questi mesi. La stragrande maggioranza delle richieste di iscrizione sono venute in questi anni dalla diaspora del movimento comunista e della sinistra radicale politica e/o sindacale e, negli ultimi mesi, sempre più da settori ambigui. Ad essere attratti sul versante opposto non sono lavoratori ma singoli personaggi politicizzati a destra, quindi adesioni intellettuali non basate sul ripensamento delle posizioni politiche in ottica di classe, ma nel riconoscimento delle proprie idee e categorie come apertamente riproposte o riproponibili in seno al PC di Rizzo, parallelamente ai continui apprezzamenti ricevuti da settori politici e mediatici tradizionalmente di destra, che hanno ripetutamente usato tutto ciò come conferma della correttezza delle proprie tesi.
Seguiranno riflessioni sugli altri punti oggetto del dibattito, a partire dalla natura del Partito, al modo di intendere le alleanze sociali, alle questioni internazionali e alle modalità interne di funzionamento e discussione.
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[1] https://www.ilgiornale.it/news/politica/leader-dei-comunisti-salvini-solo-non-pensare-che-povera-1757978.html
[2]https://www.lavoro.gov.it/notizie/Pagine/Ottavo-Rapporto-annuale-Gli-stranieri-nel-mercato-del-lavoro-in-Italia.aspx
[3]https://www.ipsos.com/sites/default/files/ct/news/documents/2019-05/elezioni_europee_2019_-_analisi_post-voto_ipsos.pdf
[4] Cito testualmente dalle Tesi di Roma (1922) stilate da Bordiga e Terracini: “Il Partito Comunista non sosterrà la tesi superficiale del rifiuto di tali concessioni perché solo la finale e totale conquista rivoluzionaria meriti i sacrifizi del proletariato, in quanto non avrebbe nessun senso il proclamare questo, con l’effetto che il proletariato passerebbe senz’altro al seguito dei democratici e dei socialdemocratici restando ad essi infeudato…”
[5] Sarebbe bastato dire ad esempio che la questione degli sbarchi, su cui si polarizzava l’attenzione incide in termini assolutamente trascurabili sul numero generale di immigrati e denunciare lo sciacallaggio della destra sulla condizione di migliaia di persone lasciate in mare in balìa della propaganda politica e del vergognoso rimpallo tra stati dell’Unione Europea con pesanti responsabilità di tutti;
[6] Cito la Grecia perché insieme all’Italia è stato il Paese più interessato da sbarchi in una dinamica molto simile a quella dell’Italia. Il confronto diretto è dunque particolarmente rilevante date le condizioni simili http://it.kke.gr/it/articles/Immediata-liberazione-dei-rifugiati-immigrati-e-trasferimento-nei-paesi-di-loro-reale-destinazione/
[7] http://www.nuevo-rumbo.es/2020/06/11/interseccionalidad-y-racismo-un-laberinto-sin-salida/