La Costituzione russa e la “mina” di Lenin
E così, in Russia sono state approvate le modifiche alla Costituzione eltsiniana, rimasta comunque immutata nella sua matrice borghese. Nell’insieme del paese, l’affluenza alle urne è stata del 65% del corpo elettorale, con un voto favorevole al “pacchetto completo” degli emendamenti del 77,92%, contro un 21,27% di no. In alcune regioni (Cecenia, Tuva, Crimea) i Sì hanno superato il 90%; in altre (dal Circondario autonomo dei Nenets, alla regione di Arkhangelsk, passando per Jakutija, Kamčatka, Magadan, Omsk, ecc.) hanno raccolto tra il 55 e il 65%. A Mosca, con un’affluenza del 55,93%, i Sì sono stati il 65,29% e i No 33,98%.
L’opposizione comunista ha registrato (e in vari casi filmato) pacchi di schede elettorali inserite nelle urne di seggi che solerti “scrutatori”, col pretesto del virus, avevano allestito nei luoghi più impensati: persino nei bagagliai delle auto.
Secondo l’opinione comune a tutte le organizzazioni comuniste e di sinistra, il voto elettronico, per di più diluito dal 25 giugno al 1 luglio, ha consentito le più svariate trovate di alterazione dei risultati, come era del resto ampiamente previsto.
Qualche conoscente, esempi concreti alla mano, ci ha confermato che il “signori si allotta” (bonus spesa, lotterie su beni di lusso, ecc.) con cui varie amministrazioni locali avevano cercato di incentivare la partecipazione, in molti casi ha effettivamente funzionato: data la drammatica situazione sociale (la media degli stipendi, secondo il KPRF, è inferiore ai 20.000 rubli), un paio di migliaia di rubli in regalo hanno fatto gola a molti.
Congratulandosi con i russi – sia con chi ha detto No, sia coi favorevoli – per il voto, Vladimir Putin ha sottolineato i punti più rilevanti delle modifiche costituzionali. Tra questi, è tornato su un suo vecchio cavallo di battaglia che, tra l’altro, gli permette di raccogliere l’approvazione anche di quei settori della cosiddetta “sinistra” nazional-patriottica, che vede in Stalin solo l’artefice della “potenza sovietica”, in chiave grande-russa, ignorandone o respingendone la politica bolscevica leninista.
Secondo Putin, l’aver inserito, tra gli emendamenti costituzionali, anche quello sulla integrità delle frontiere russe, col divieto di sottrarne aree territoriali, eviterà al paese di ripetere l’errore delle Costituzioni sovietiche che, da Lenin in poi, prevedevano l’adesione all’URSS di Repubbliche e regioni che lo desiderassero, ma, soprattutto, consentivano anche la loro libera uscita dall’Unione: un elemento che, a detta di Putin, aveva posto una “mina a scoppio ritardato” alle basi del paese.
Naturalmente, Putin ha evitato di dire che la corsa al separatismo è iniziata nel periodo finale dell’Unione Sovietica, quando il primo slogan dei liberali gorbačëviani, “Più socialismo”, nascondeva la definitiva disintegrazione dell’URSS, costata oltre 20 milioni di popolazione persa, tra morti e non nati, per le condizioni sociali ed economiche in cui era stato ridotto il paese. Ha evitato di dire che il Partito bolscevico e la dittatura del proletariato erano garanzia di unità del paese, di una unità basata sulla comunanza di interessi del proletariato di tutta l’Unione, mentre l’ingordigia delle élite borghesi formatesi negli anni ’70 e ’80, bramose di arraffare industrie, beni, risorse del paese, ha portato a guerre, conflitti “territoriali”, per la spartizione del patrimonio sovietico.
Putin non ha detto che le contraddizioni e gli scontri nazionali sono scoppiati proprio a fine anni ’80 e negli anni ’90, così come si erano avuti nei primissimi anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre, fomentati dalle potenze straniere, che foraggiavano i gruppi semi-feudali locali.
È stata davvero la formula leniniana a scatenare gli odi nazionali, o non sono stati piuttosto gli interessi di classe delle nuove borghesie “sovietiche” e gli appetiti imperialistici internazionali a minare lo stato plurinazionale dell’URSS? Non a caso, nei primissimi anni ’30, quando si riconosceva la permanenza, se non di classi vere e proprie, quantomeno di strati e settori sociali, legati alle vecchie classi borghesi, si ammetteva che, proprio da quelle venivano ancora i pericoli di separatismo.
I bolscevichi affermavano che la questione nazionale fosse strettamente legata alla lotta di classe all’interno dei singoli paesi, e alla lotta contro l’imperialismo, su scala mondiale. Stalin rimarcava come solo il socialismo e la dittatura del proletariato potessero risolvere il problema nazionale, unendo le lotte del proletariato delle nazioni oppresse con quelle degli operai dei paesi avanzati e, negli stati plurinazionali, e le rivendicazioni dei lavoratori delle nazionalità sottomesse con quelle della classe operaia della nazione dominante. Vladimir Putin ha evitato di dire che, nel cosiddetto “spazio post-sovietico”, i conflitti nazionali, fino alle guerre più sanguinose, sono scoppiati quando ha cominciato a venire meno la funzione politica del partito comunista, già prima del definitivo crollo dell’URSS.
In effetti, come ricordava qualche anno fa lo storico Vladislav Grosul, il progetto di formazione dell’URSS, nel 1922, prevedeva “l’inclusione delle altre repubbliche nella RSFSR, con diritti di autonomia, il che avrebbe significato la fine della loro sovranità. Erano contrari al piano sia i comunisti del Transcaucaso, sia Ucraina e Bielorussia. Ciò allarmò Lenin, che quindi propose un piano di federazione, con diritto di libera separazione dall’URSS. Quando fu fatto notare il pericolo di disfacimento, Lenin osservò che c’era il partito e, se necessario, avrebbe corretto tutto. Il Partito comunista era cioè il fulcro del paese e i distruttori dell’Unione Sovietica lo sapevano bene quando portarono il loro attacco contro di quello”.
Ancora Grosul notava che “fino alla rivoluzione democratico-borghese del febbraio 1917 la politica nazionale del POSDR(b) si basava su due principi: diritto delle nazioni all’autodeterminazione e internazionalismo proletario. I bolscevichi erano unitari, esortavano all’unità dei lavoratori. Solo in questo contesto, davano la preferenza ai federalisti, che erano la maggioranza nei movimenti nazionali, e il partito più numeroso, i socialisti-rivoluzionari (SR), puntava al federalismo, per cui i movimenti nazionali avrebbero potuto seguire i SR”, voltando le spalle ai comunisti.
Nel novembre 1918, in “La Rivoluzione d’Ottobre e la questione nazionale”, Stalin affermava: “Essendo solo una parte della questione generale della trasformazione del sistema esistente, la questione nazionale è interamente determinata dalle condizioni della situazione sociale, dal carattere del potere nel paese”. E, nel 1923: “Un gruppo di compagni, con a capo Bukharin e Rakovskij, ha gonfiato troppo l’importanza della questione nazionale… E invece, per noi comunisti, è chiaro che la cosa principale nel nostro lavoro, è l’opera di rafforzamento del potere operaio e, dopo di questo, abbiamo di fronte un’altra questione, molto importante, ma subordinata alla prima, la questione nazionale”. In “Sui principi del leninismo”, Stalin ricorda come la questione nazionale debba esser affrontata in connessione “con la questione generale del rovesciamento dell’imperialismo, della rivoluzione proletaria”. Non c’è bisogno di ricordare quale ruolo abbia giocato l’imperialismo internazionale nel soffiare sul fuoco del separatismo delle élite locali nelle varie periferie dell’URSS.
In generale, non si sono fatti attendere i commenti in rete alle esternazioni di Putin: non c’è bisogno di essere dei geni per comprendere, ha scritto un lettore del gruppo facebook “Stalin e Berija”, che “la RSFSR e poi l’URSS poterono formarsi sui frammenti dell’impero russo, dopo che le sue periferie avevano acquisito una completa o parziale indipendenza, nel periodo dell’intervento dell’imperialismo mondiale, solo sulla base del principio di autodeterminazione di quelle periferie nazionali”.
Inoltre, il principio leninista del diritto delle nazioni all’autodeterminazione, aveva come condizione la libera volontà di unirsi in un’unica entità da parte di tutti gli Stati operai che avrebbero dovuto sorgere sulle rovine degli imperi europei dopo la prima guerra mondiale.
Rispetto all’oggi, “secondo il borghese e antisovietico Putin, popoli e nazioni dovrebbero rimanere in silenzio nella compagine dell’impero, non muovere un passo e accontentarsi di quanto concesso dal potere centrale. Le vecchie ricette dei capitalisti, così care al presidente (zar) sono quelle della pacificazione degli scontenti, per mezzo della corruzione delle élite nazionali e dell’incitamento all’odio tra nazioni e nazionalità”.
Già poco meno di un anno fa, allorché Putin si era espresso negli stessi termini a proposito del principio leninista dell’autodeterminazione, e aveva dichiarato che, prima che Lenin andasse al potere, la Russia “si era sviluppata nel corso di mille anni”, il politologo e leader del socialdemocratico “Movimento per un nuovo socialismo”, Nikolaj Platoškin, aveva ironizzato sul “coraggioso Vladimir Vladimirovič Putin”, che non teme di “avventarsi su Lenin, morto nel 1924. Che uomo impavido! Non mi sembra però di aver mai udito che il membro del PCUS e ufficiale del KGB dell’URSS, Putin, avesse mai così arditamente criticato Lenin nelle riunioni di partito prima del 1985”.
Lo scorso dicembre, su Svobodnaja Pressa, Andrej Zakharčenko ricordava altre esternazioni di Vladimir Putin a proposito della storia sovietica. Nel 2012, ad esempio, aveva dichiarato che la Russia era stata sconfitta nella Prima guerra mondiale a causa del tradimento nazionale dei primi leader sovietici. Nel 2013, aveva definito la guerra con la Finlandia del 1939, come un tentativo dell’URSS di correggere gli errori storici commessi nel 1917. Nel 2016, aveva esternato ancora la sua “idea” originaria, paragonando le idee di Vladimir Lenin a una “bomba atomica sotto l’edificio chiamato Russia”.
E Zakharčenko si chiedeva “come mai e a che scopo una persona uscita da quella potente struttura sovietica creata proprio dai bolscevichi, si esprima così negativamente sui padri fondatori del sistema socialista? Con quale obiettivo l’ex čekista va a riempire le fila di coloro che compiangono la “Russia che abbiamo perso”, cioè l’impero zarista?”.
Si può ipotizzare che l’inserimento nell’attuale Costituzione eltsiniana dell’emendamento sulla integrità territoriale, risponda a precisi interessi di classe. Se nel 1993, quando lo slogan lanciato a tutte le regioni della Federazione russa, era “Prendetevi quanta più sovranità potete”, serviva a soffocare gli ultimi bagliori dell’unità del paese mantenuta dall’ormai traballante Partito comunista, oggi, al contrario, la perdurante e perenne lotta a coltello tra clan capitalistici, esige che si metta per iscritto la proibizione, per remoti raggruppamenti di periferia, di intascare per sé quanto di spettanza degli oligarchi “centrali”. Dopotutto, Vladimir Putin, è il loro rappresentante politico e la sua indefinita permanenza al potere, fissata ora nella Costituzione, risponde proprio al bisogno di stabilità di quelle élite centrali.
A parere del politologo Sergei Vasil’tsov, le critiche al bolscevismo da parte delle autorità attuali costituiscono un tema abbastanza vecchio e ripetuto, nonostante la Russia, oggi, di altri problemi ne abbia più che a sufficienza.
Da una parte, Putin proclama i principi del patriottismo, difendendoli nella politica estera; dall’altra, il governo continua il corso liberale. E allora, ecco che si incolpano Lenin e Stalin della “divisione” del paese, per tacere sullo smembramento di classe della società russa e la riduzione in miseria dei lavoratori.
Fabrizio Poggi