Autostrade e profitto: una tragedia annunciata
L’indiscrezione delle ultime ore, poi confermata dal ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli, della concessione del nuovo viadotto sul fiume Polcevera ad Autostrade per l’Italia ha sicuramente riportato la questione della gestione delle autostrade italiane al centro del dibattito politico. Dopo il crollo del Ponte Morandi sull’A10 nell’estate del 2018, a partire dall’allora governo giallo-verde la politica si era sollevata contro la società dei Benetton che aveva in gestione il tratto interessato.
Fin da subito sia la Lega che il Pd si erano mobilitati con grandi proclami per togliere dalle mani di Aspi (Autostrade per l’Italia S.p.a) la gestione scellerata, diventata ormai evidente a tutto il Paese, di parte delle infrastrutture pubbliche; ma i più agguerriti in campo politico si erano dimostrati i 5stelle che per circa due anni hanno ripetuto di voler togliere in modo assoluto e definitivo la concessione al gestore. Oggi, dopo due anni passati al governo, l’indiscrezione de La Stampa e la successiva conferma della De Micheli, testimoniano come ancora una volta i grillini si siano stracciati le vesti da paladini del bene pubblico per poi rimangiarsi le promesse. Difatti, il nuovo ponte, disegnato da Renzo Piano, verrà concesso ancora ad Aspi, formalmente per questioni tecniche come il non poter dividere in due la concessione di un tracciato unico con Autostrade ancora ufficialmente gestore fino al 2038. Nei fatti però è evidente come il peso politico ed economico del gruppo Benetton sia predominante nella gestione della vicenda: da un lato la società è ricorsa in tribunale per opporsi al Decreto Genova, con il quale il governo Salvini-Di Maio l’aveva esclusa dalla gara di appalto per la costruzione della nuova infrastruttura, dall’altra la sottomissione dei partiti alle logiche di profitto e di convenienza che rappresentano il modus operandi nella gestione della cosa pubblica.
Un modus che nella gestione delle autostrade italiane affonda le radici nel passato e in un’Italia in pieno boom economico dove le infrastrutture viarie rappresentarono un vero affare per le maggiori società del settore.
Fin dalla costruzione della Torino-Milano, inaugurata nel 1932, finanziata il larga parte dagli Agnelli, la corsa alla gestione dei fondamentali tracciati autostradali fu serrata da parte dei grandi gruppi economici italiani: a partire dal secondo dopoguerra, con il rilancio economico del Paese, il mezzo di trasporto che si stava diffondendo a macchia d’olio, l’automobile, fu al centro degli sforzi industriali italiani e tra gli anni ’50 e ’70 vennero infatti inaugurate le maggiori arterie di collegamento veloce (come la A14, l’A28, l’A27, l’A22, etc…)
La Fiat, che in quegli anni lanciava nuovi modelli (come le iconiche 500 e 600), si ritrovò ad essere uno dei primi sponsor nella costruzione, nell’ampliamento ed ammodernamento della rete autostradale; nel 1950, costituì la SPASIS (Società per azioni sviluppo iniziative stradali) con l’intenzione di realizzare l’autostrada Torino-Savona (l’odierna A6), inclusa nel piano di realizzazione autostradale dopo un intervento diretto dell’allora ministro Romita. Il grande interesse della Fiat nasceva dalla scelta di collegare Torino al mare e creare così il desiderio negli abitanti delle aree interne di raggiungere le località costiere in breve tempo. Ovviamente l’investimento principale fu effettuato dallo Stato con una serie di finanziatori privati di minor peso, come Pirelli, Michelin e appunto Fiat che vedevano curati i loro interessi nella costruzione e, soprattutto, nella gestione delle nuove infrastrutture con i relativi pedaggi. Altre tratte come la Torino-Piacenza che collegava il capoluogo piemontese all’Autostrada del Sole e al centro Italia furono sostenute dalla Fiat e per questo in quegli anni il dibattito politico sulla questione fu molto acceso: da una parte la Dc che non esitava a collaborare e sostenere gli sforzi dei gruppi privati, dall’altra il Pci che criticava duramente la scelta di appoggiare iniziative della Fiat nell’ottica di una nazionalizzazione delle infrastrutture autostradali che mirava a impedire l’accesso dei gruppi monopolistici esteri ma anche di quelli italiani. Tuttavia, nella sinistra di allora si iniziavano ad intravedere i germogli del centro-sinistra odierno, con il Psi che in Liguria si era fatto promotore dell’accordo tra la casa automobilistica e le istituzioni.
Sempre nel 1950 l’Iri dava vita alla Società Autostrade costruzioni e Concessioni S.p.a con l’obiettivo di progettazione, finanziamento e ricostruzione post-bellica delle vie di comunicazioni su gomma ormai privilegiate rispetto al trasporto su rotaia ritenuto poco remunerativo.
Il percorso tracciato era chiaro con uno spostamento dal trasporto pubblico a quello privato, sia per le merci sia per i singoli cittadini nel presunto interesse collettivo di stimolo dell’economia e dell’aumento dei posti di lavoro.
Nei fatti però, il flusso di denaro pubblico (solo per l’Autostrada del Sole di 185 miliardi di lire circa) favorì interamente il settore privato, con la Fiat che riuscì nel giro di pochi anni ad allinearsi allo standard di produzione europea del settore automobilistico (si passerà tra il 1959 al 1968 da una produzione di circa 425 mila autovetture alle 1.725.000). Nei successivi decenni la gestione di Autostrade vedrà, tramite una serie di Convenzioni con Anas e il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, un incremento degli utili e delle tratte gestite direttamente dal gestore che rimarrà in mano pubblica fino alla fine degli anni ’90. Già, perché nel 1999, l’Iri sull’onda di privatizzazioni che aveva investito il Paese scelse di cedere anche la società alla cordata Schemaventotto S.p.a partecipata al 60% dai Benetton. Nel 2003 infine avverrà il passaggio totale della società Autostrade alla famiglia trevigiana e nel 2007 nascerà Atlantia S.p.a, attuale gestore di Autostrade per l’Italia (Aspi).
Alla luce di questo excursus storico l’attuale situazione delle autostrade italiane, di cui Aspi gestisce circa 3mila chilometri, mostra in maniera evidente come il rapporto di lungo corso tra la politica italiana e le società private che gestiscono la rete viaria sia impossibile da eradicare, specialmente da parte degli stessi partiti che negli ultimi decenni hanno svenduto gli asset strategici del patrimonio pubblico; anche i 5stelle una volta arrivati al governo, nonostante proclami e levate di scudi, hanno servilmente fatto retromarcia sulla revoca ad Atlantia delle concessioni autostradali. L’incapacità e la sudditanza dell’attuale politica alle logiche di mercato e del profitto si mostra in maniera ancora più marcata di fronte alle 43 vittime del crollo del ponte Morandi, responsabilità di una mancata manutenzione a fronte di un continuo dividendo di utili per gli azionisti in questi anni. Allo stesso modo Aspi, che sul suo sito internet si vanta di essere “primo operatore mondiale nell’esazione dinamica”, mostra come il modello di impresa e di sviluppo capitalista sia esclusivamente interessato all’estrazione di profitto e nel contempo che la sicurezza e il diritto dei cittadini ad avere servizi garantiti e funzionanti venga scavalcato continuamente da multinazionali e da governi complici e ciechi.
Di Giovanni Sestu.