Autostrade, lo stato e i lavoratori
Mattina del 15 luglio 2020: le cronache battono all’impazzata, c’è l’accordo su Autostrade per l’Italia S.p.A. (ASPI), società concessionaria del servizio autostradale del paese e controllata da Atlantia, azienda della famiglia Benetton. Sarà celebrato dall’area di governo come un “inedito” successo dello stato – parola del presidente del Consiglio Giuseppe Conte – e attaccato dalle opposizioni come un esito “a tarallucci e vino”.
Piange intanto lacrime piuttosto dubbie su Repubblica Luciano Benetton: “Ci stanno trattando peggio di una cameriera” – dice il patron della casa veneta – “Chi caccia una domestica da casa è obbligato a darle quindici giorni di preavviso. A noi che per mezzo secolo abbiamo contribuito al boom economico dell’Italia, intimano di cedere i nostri beni entro una settimana”.
Lo ricordiamo munifico donatore di fondi alla politica. Nel 2006 si divisero equamente 1,1 milioni Forza Italia, An, Lega, Udc, Ds, Margherita, e il gruppo di Romano Prodi. Donazioni non troppo disinteressate forse, se si tiene conto del fatto che pochi anni prima gli era stata affidata la Società Autostrade, che andò a costituire quell’enorme monopolio a cui la sua famiglia attraverso il gruppo Atlantia Spa è giunto a possedere, dalle autostrade agli aeroporti di Roma. Come redazione de L’Ordine Nuovo ci eravamo già precedentemente occupati della questione autostrade, con un excursus storico sulla privatizzazione dell’asfalto italiano.
Ciò che invece ci interessa in questa sede, è chiarire un’altra questione: che cosa prevede l’accordo di cui tanto si dibatte? È il ritorno dello stato nella politica, o il frutto di precisi rapporti di forza e scelte ideologiche a cui le istituzioni si sono adeguate? Guardiamo alcuni numeri.
Innanzitutto, quel che viene chiamato “revoca” significa semplicemente che lo stato si occuperà di ricomprare autostrade: è stata Paola de Micheli, Ministra delle Infrastrutture, a rivendicare che quanto raggiunto costituisce “un accordo, non un esproprio” e la definizione è esatta. La cifra da pagare ad Atlantia sarà sicuramente superiore ai tre miliardi, forse quattro (per sapere con certezza bisognerà attendere alcuni passaggi di valutazione), e sarà versata dalla CDP (Cassa Depositi e Prestiti) al fine di acquisire il 33% delle quotazioni. La Cassa Depositi e Prestiti è di proprietà pubblica, con il ministero dell’Economia che ne possiede l’82,7%, e il restante in mano a diverse fondazioni bancarie; CDP gestisce, in particolare, i soldi del risparmio postale, ovvero i libretti blu su cui tanti risparmiatori, cittadini e pensionati italiani mettono da parte qualche migliaia di euro.
Allo stesso tempo Atlantia venderà il 22% delle sue azioni ad uno o più investitori scelti insieme alla CDP, mantenendo così alla fine l’11%. Diminuiranno anche le quote della tedesca Allianz e della cinese Silk Road, scendendo rispettivamente al 7 e il 5 per cento. L’accordo dovrebbe prevedere anche un abbassamento dei pedaggi del 5%. Saranno inoltre previsti investimenti per 14,5 miliardi fino al 2038 e 7 miliardi per la manutenzione, da aggiungere al pagamento delle quote di Atlantia di cui si è precedentemente detto. I debiti di Aspi, ben 9,3 miliardi, saranno ripartiti tra i partecipanti alla nuova gestione, tra cui ovviamente anche la CDP. Nel frattempo, il titolo di Atlantia non fa prezzo in borsa, con un rialzo teorico alla mattina del 15 luglio del 17%, mentre nel pomeriggio si parla addirittura del 25%, con Aspi stimata per valore tra i 10 e i 12 miliardi.
Viene a questo punto da chiedersi quanto sia effettivamente fondato l’entusiasmo che si legge in giro per questo “ritorno dello stato nell’economia”: un filo in più di prudenza sembrerebbe invece necessaria.
Nei fatti non solo non si è proceduto alla revoca, ma lo stato ha ricomprato Autostrade, oltre al pagarne debiti e manutenzione insieme alla nuova gestione.
“Ritorna agli italiani ciò che era sempre stato loro” ha commentato il ministro dello sviluppo economico Stefano Patuanelli, aggiungendo che si è ottenuto lo stesso risultato della revoca, senza revoca. Alla famiglia Benetton resterà una quota del 10 per cento, che per quanto fortemente ridotta rispetto a prima è comunque una notevolissima fonte di guadagno: incasseranno dividendi macinati su quello che si chiama un monopolio naturale, rimanendo liberi riguardo il trattenere o abbassare la propria quota di partecipazione.
Il problema, va detto, non è semplicemente la dicotomia pubblico/privato. Lo stato, che nel sistema liberale altro non è che una manifestazione dell’apparato borghese, adopera anche nei settori di sua competenza la gestione tipica di un privato. Non solo nulla può impedirgli di operare in una logica di massimizzazione del profitto, è il contesto del mercato stesso a richiederglielo: non appena, ad esempio, i costi di manutenzione si faranno più pressanti, i pedaggi statali potranno tornare a salire.
Non ci si confonda quindi festeggiando acriticamente questo ritorno ad una gestione (peraltro parziale) da parte dello stato: fintanto che lo stato sarà strumento delle classi dominanti, la sua gestione del settore pubblico non differirà grandemente dal privato, e difficilmente si distinguerà lo stato da una qualsiasi grande azienda, potendo al limite sperare che sia ben amministrata. Al contrario, il rischio attuale è che simili manovre divengano un modo per socializzare le perdite: e a caro prezzo.
Sebbene sia certamente positivo che una sicura fonte di guadagni sulle spalle della collettività sia stata sottratta a chi, oltre ad essere inadempiente, ne aveva molto approfittato, è giusto dire che stato non significa automaticamente pubblico, e tanto meno significa di tutti. Lo stato è uno strumento in mano a determinate classi sociali e una gestione che fosse anche al cento per cento statale non è garanzia di guadagno per la classe lavoratrice, qualora non fosse accompagnata da un reale mutamento nei rapporti di forza a favore dei lavoratori.