Recovery Fund, riduzione delle sovvenzioni e aumento delle condizionalità
La riunione del Consiglio europeo sul piano finanziario Next Generation Europe, altrimenti conosciuto come Recovery fund, doveva durare due giorni. In realtà, si è protratta per ben cinque giorni, a testimonianza della profondità delle divergenze che si sono manifestate all’interno del Consiglio tra, da una parte, i Paesi cosiddetti frugali, Paesi Bassi, Austria, Svezia e Danimarca, e, dall’altra parte, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Francia. L’oggetto del contendere ha riguardato sia le modalità di suddivisione in sussidi e prestiti del Recovery fund sia le condizionalità imposte agli Stati per usufruirne.
Ma vediamo cosa dice il documento ufficiale stilato alla conclusione dell’incontro. Il documento riconosce, a causa della crisi, la necessità di un piano di ricostruzione europeo che permetta massicci investimenti pubblici e privati. A questo scopo la Commissione viene autorizzata a prendere a prestito, a nome della Ue, le somme necessarie sul mercato dei capitali.
Il documento enfatizza l’aspetto dell’eccezionalità del Recovery fund. Infatti, specifica che il provvedimento è dovuto alla natura eccezionale della crisi, e che, di conseguenza, i poteri della Commissione di prendere a prestito fondi sono limitati nella misura, nella durata e nello scopo.
La Commissione viene autorizzata a prendere a prestito fino al 2026 la cifra di 750 miliardi di euro. I 750 miliardi sono composti da 672 miliardi della Recovery and Resilience Facility e da 78 miliardi previsti per altri 6 programmi di minore entità (sviluppo rurale, Horizon Europe sulla ricerca scientifica, ecc.). La Recovery and Resilience Facility, a sua volta, è composta da 360 miliardi in prestiti e da 321,5 miliardi in sovvenzioni. Il 70% delle sovvenzioni dovrà essere erogato negli anni 2021 e 2022, la parte restante nel 2023. L’ammontare massimo dei prestiti ricevuti da ogni singolo Stato non deve superare il 7,7% del Reddito nazionale lordo (RNL).
Per quanto riguarda le condizioni, gli stati membri devono preparare un piano nazionale di ricostruzione, comprendente le riforme da attuare e l’agenda degli investimenti per gli anni 2021-2023. Il piano di ricostruzione sarà valutato dalla Commissione entro due mesi dalla sua presentazione. I criteri di valutazione riguarderanno le raccomandazioni specifiche rivolte dalla Commissione ai singoli Paesi, il rafforzamento del potenziale di crescita, la creazione di posti di lavoro, e la capacità di recupero sociale e economico. Anche il contributo alla transizione verde e digitale sarà un criterio per valutare positivamente il piano. La valutazione dovrà essere approvata, a maggioranza qualificata, dal Consiglio europeo, su proposta della Commissione, attraverso un atto di implementazione entro 4 settimane dalla presentazione della proposta. L’erogazione delle singole tranche di pagamenti sarà subordinata alla valutazione positiva del raggiungimento degli obiettivi stabiliti, su cui la Commissione chiederà anche il parere del Comitato economico e finanziario.
In questa sede, se, eccezionalmente, ci saranno uno o più stati che ritengono che ci siano state serie deviazioni dagli obiettivi prefissati, essi possono decidere di chiedere al presidente del Consiglio europeo di rimettere la decisione alla prossima riunione del Consiglio stesso. In questo caso nessun pagamento può essere effettuato dalla Commissione prima che il Consiglio europeo si sia espresso in merito.
Il tutto secondo il rispetto gli articoli dei Trattati europei (art. 317 del TFUE), che prevedono l’obbligo di controllo e di revisione contabile del bilancio dei singoli Stati.
A questo va aggiunto che il Consiglio europeo ha approvato il bilancio della Ue a 1.074 miliardi, una cifra che è inferiore a quella stabilita a febbraio e che appare largamente insufficiente rispetto alla crisi in atto. La quota del contributo dei singoli Paesi dovrebbe essere basata sul loro RNL. Tuttavia alcuni Paesi, la Germania e il gruppo dei frugali, Paesi Bassi, Danimarca, Austria e Svezia, hanno ottenuto forti sconti sul loro contributo al bilancio europeo. Quanto risparmiato dai frugali e dalla Germania che dovrà essere spalmato sugli altri Paesi sempre in base al loro RNL.
Ma andiamo alla valutazione dell’accordo. In sostanza l’accordo è stato chiuso scambiando gli sconti con l’accettazione da parte dei frugali del Recovery fund. Ciononostante, l’accordo ha accolto, in buona parte, anche altre richieste dei frugali, che peggiorano il Recovery fund rispetto alla sua versione originaria. In primo luogo, anche se l’importo totale di 750 miliardi non è stato cambiato, considerando la parte del Recovery fund destinata alla ricostruzione (Recovery and Resilience Facility) si osserva che la parte che va in prestiti è aumentata, passando da 250 miliardi a 360 miliardi, mentre quella che va in sovvenzioni è diminuita sostanziosamente, scendendo da 500 a 321 miliardi, malgrado il governo italiano avesse come obiettivo minimo quello di non scendere sotto i 400 miliardi.
Questo rappresenta un problema perché i prestiti, al contrario delle sovvenzioni, vanno ad aumentare il debito pubblico e, di conseguenza, la possibilità che aumenti lo spread e con esso il pagamento degli interessi sul debito.
Un dettaglio che non è insignificante per Paesi come l’Italia, che ha visto crescere il suo debito pubblico di oltre venti punti percentuali dal 134,8% del 2019 al 158,9% stimato per il 2020 e il deficit dal -1,6% del 2019 all’11,1% del 2020[1], ma si pensa il deficit che possa superare quota 13%, un livello che si avvicina a quello 1945 (16%), quando l’Italia era appena uscita da una guerra mondiale. Ma il problema sussiste anche per la Spagna e persino per la Francia, che è passata da un debito del 98,1% nel 2019 a uno del 116,5% previsto per il 2020. Inoltre, anche gli altri veicoli finanziari stabiliti dalla Ue per “aiutare” i Paesi in difficoltà, il Sure e il Mes, si basano su prestiti, e porteranno ad aumentare il debito pubblico. Si creeranno così ulteriori difficoltà quando bisognerà ritornare a politiche di disciplina di bilancio, come la Commissione europea ha ripetutamente affermato che sarà necessario fare, appena passata la fase di crisi.
Ma l’aspetto più negativo dell’accordo sta nelle condizionalità imposte ai paesi beneficiari dei sussidi. Innanzi tutto, il piano di investimenti deve essere fatto secondo determinati criteri stabiliti dal programma della Commissione. In secondo luogo, mentre prima era la sola Commissione a dover valutare se il piano era conforme alle indicazioni europee e se gli obiettivi erano stati raggiunti, ora si dà la possibilità anche a un solo Paese di rimettere in discussione il piano di spesa e il conseguente pagamento della tranche dei sussidi. Sia la riduzione della componente dei sussidi sia il rafforzamento dei meccanismi di valutazione e controllo erano nei piani dei frugali, che avevano proposto l’approvazione all’unanimità. Ora, non abbiamo una vera e propria approvazione all’unanimità, ma un meccanismo che ci si avvicina molto e che rende l’accesso ai fondi piuttosto laborioso e sempre in pericolo di essere bloccato. Senza contare che i primi pagamenti europei verranno effettuati nel 2021, mentre già nei primi mesi del 2020 lo scostamento di bilancio italiano è pari a 75 miliardi e si prevede un nuovo scostamento di 36 miliardi.
In pratica, come avevamo scritto in precedenza, il Recovery fund si è effettivamente dimostrato un Mes camuffato, cioè un programma, per giunta basato soprattutto su prestiti, che implica l’accentuazione del controllo sul bilancio dello Stato da parte degli organismi europei, secondo le regole dei Trattati europei. Inoltre, non è vero che il Recovery Fund è un passo in avanti verso la costituzione di una Europa effettivamente unita. Si tratta, infatti, di un provvedimento con carattere di eccezionalità e che è basato su forti condizionalità.
Il Recovery fund, è, al contrario, la dimostrazione che la Ue e l’area euro sono organismi che funzionano secondo una logica intergovernativa, rappresentando un terreno di scontro e di mediazione tra Stati con interessi spesso divergenti e antagonistici, uniti solo dalla volontà di non far venir meno il mercato unico europeo, di cui beneficia il grande capitale multinazionale europeo.
I costi della crisi saranno, come al solito, pagati dai lavoratori, su cui si scaricheranno le “riforme”, a partire da quella delle pensioni, in cambio delle quali verranno erogati sovvenzioni e prestiti. Sovvenzioni e prestiti che si riveleranno presto insufficienti perché la crisi appare molto profonda e soprattutto di lunga durata.
[1] Commissione europea, Data base Ameco.