Kiev straccia di fatto gli accordi di Minsk sul Donbass
Ancora una volta, segnali contraddittori per la soluzione del conflitto in Donbass, ma che, in ogni caso, sfociano nella continuità dell’aggressione terroristica seguita da Kiev e dai suoi mandanti, sia che sulla poltrona presidenziale sieda il “biznessmen“[1] Petro Porošenko o che, come dall’aprile 2019, l’amico dell’oligarca Igor Kolomojskij, l’attore Vladimir Zelenskij.
Il 22 luglio il servizio stampa del Ministero degli esteri della Repubblica popolare di Donetsk ha annunciato una “svolta”: i delegati del gruppo di contatto ai colloqui di Minsk hanno approvato un pacchetto di misure aggiuntive per il controllo sul cessate il fuoco. Ciò è stato possibile, hanno detto a Donetsk, grazie alla “nostra ferma posizione e al sostegno di principio da parte della Russia. Speriamo che Kiev mostrerà volontà politica e osserverà rigorosamente il regime del cessate il fuoco a tempo indeterminato in vigore dal 21 luglio 2019, insieme alle misure di controllo concrete firmate oggi”.
Misure che, secondo l’agenzia EADaily, dovrebbero entrare in vigore il 27 luglio: questo almeno è quanto ha dichiarato Boris Gryzlov, plenipotenziario russo al gruppo di contatto, che ha espresso la soddisfazione di Mosca per l’accordo.
E, sempre per il 27 luglio, Petro Porošenko ha indetto una manifestazione a Kiev contro Vladimir Zelenskij, accusato di “tradimento della patria” per la prevista entrata in vigore dell’accordo. Mentre l’ex capo nazista di “Pravyj sektor” e attuale comandante dell'”Esercito volontario ucraino”, Dmitro Jaroš, ha esortato i suoi compari a non rispettare “l’ordine criminale” sul cessate il fuoco, definendo “capitolazione di fronte al Cremlino” la rinuncia a dirette azioni di guerra.
Il fatto è che, nei 12 mesi trascorsi dalla firma del cessate il fuoco, non sono mai cessati i bombardamenti ucraini sul Donbass. Secondo le ultime informazioni del 25 luglio, le forze di Kiev, facendosi scudo dei villaggi nelle regioni di Donetsk e di Lugansk sotto controllo ucraino, hanno bersagliato con tiri di mortaio e razzi anticarro i territori delle Repubbliche popolari. Nella DNR, colpite la periferia di Donetsk e il villaggio di Petrovskij. Tiri di mortaio si sono ripetuti il 26 luglio contri i villaggi della DNR di Kominternogo, Krutaja Balka, Vasil’evka e Kaštanovoe. I reparti ucraini continuano a dislocare artiglierie e mezzi corazzati nella cosiddetta “zona grigia”, la striscia lungo tutta la linea del fronte che, in base agli accordi di Minsk, dovrebbe essere smilitarizzata per una profondità di alcuni chilometri.
Nel corso dell’ultima settimana, secondo le informazioni diffuse dalle milizie della Repubblica popolare di Donetsk, le forze ucraine hanno martellato circa 50 volte la DNR, esplodendo poco meno di 200 proiettili di mortai e lanciagranate, sparando su 17 centri abitati della Repubblica. In un anno di “cessate il fuoco”, le forze di Kiev lo hanno violato circa 4.000 volte, ai danni della DNR, esplodendo qualcosa come 35.000 proiettili di vario calibro. Come risultato, 5 civili sono rimasti uccisi e una settantina feriti; 37 abitazioni sono andate distrutte e circa 800 danneggiate, insieme a 121 infrastrutture. Nell’ultima settimana, anche la Repubblica popolare di Lugansk è stata colpita sette volte: tiri di mortai da 120 mm e di artiglierie da 122 mm sono stati esplosi contro i villaggi di Logvinovo, Kalinovka, Sanžarovka. Bersagliate anche Donetskij, Frunze, Znamenka; vari edifici sono rimasti danneggiati.
In effetti, se sul piano militare Kiev non ha mai rispettato il cessate il fuoco, anche sul piano politico non ha mai adempiuto alcuna delle disposizioni degli “accordi di Minsk”, sottoscritti nel febbraio 2015 da Berlino, Parigi, Mosca e Kiev. Ora, anche sul piano formale, Kiev si è, di fatto, ritirata da quell’intesa. Lo ha fatto il 15 luglio, allorché la Rada ha adottato una risoluzione per l’indizione di elezioni locali al prossimo 25 ottobre, escludendone le Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk. Tanto che, il 23 luglio, il Ministero degli esteri russo ha chiesto di chiarire la decisione al riguardo: gli accordi di Minsk prevedono infatti proprio elezioni nelle Repubbliche popolari. Il 26 luglio, in un colloquio telefonico con Vladimir Zelenskij, Vladimir Putin ha ribadito che la risoluzione del 15 luglio è in contrasto con gli accordi di Minsk e mette in pericolo le prospettive di accordo. Ma Kiev ha deciso che le elezioni nella DNR e nella LNR si terranno quando “verranno ritirati tutti i gruppi armati illegali, controllati e finanziati dalla Russia; verrà ripristinato il pieno controllo dell’Ucraina sul confine statale, tutti i gruppi armati illegali e i mercenari che operano nei territori temporaneamente occupati dell’Ucraina saranno disarmati, l’ordine costituzionale e la legge saranno ripristinati”.
Da Lugansk sottolineano che la decisione della Rada testimonia “ufficialmente e in maniera documentata che Kiev rifiuta di adempiere gli obblighi derivanti dalla risoluzione 2202 ONU e dai paragrafi 9, 11 e 12 degli accordi di Minsk, che prevedono il trasferimento della frontiera solo dopo le elezioni e solo dopo una soluzione politica globale, la creazione di una milizia popolare in alcune aree e lo svolgimento di elezioni locali secondo una legge speciale ucraina”.
A parere degli osservatori di Russkaja Vesna, dopo il passo ucraino, la Russia potrebbe ora prendere l’iniziativa. Tra gli errori della diplomazia russa, scrive l’agenzia, c’è l’ignoranza dei valori europei e occidentali, che si basano sempre sul denaro. È inutile, scrive Rusvesna, inserire nell’agenda negoziale valori “astratti”, quando dall’altra parte “siede un imbroglione i cui antenati si sono arricchiti scambiando perline di vetro con oro indiano. Si ha l’impressione che la diplomazia russa abbia timore a parlare di soldi”. Le sanzioni adottate “aggirando ONU e OMC sono illegali. La distruzione delle infrastrutture civili nel Donbass a opera di Kiev è un crimine. Occorre intentare milioni di cause per quanto sofferto dai cittadini del Donbass a causa degli arbitrii di UE e USA e dei crimini di Kiev”. Di fronte al ritiro unilaterale ucraino dagli accordi di Minsk, scrive Rusvesna, Mosca dovrebbe “convocare il Consiglio di sicurezza ONU e dichiarare il diritto della Russia, paese garante, a condurre un’operazione di pace in caso di aggravamento del conflitto”. È necessario dichiarare l’Ucraina colpevole del mancato rispetto degli accordi di Minsk, sin dalla loro adozione; istituire “un tribunale internazionale per i crimini di guerra dei militari ucraini e dei mercenari ucraini e stranieri in Donbass; occorre che UE, Canada, Australia e USA” – tra i maggiori, anche se non unici, sponsor militari di Kiev – finanzino il “reinsediamento degli abitanti del Donbass, con non meno di 100.000 euro a persona; si deve obbligare Kiev a pagare i compensi sociali ai profughi del Donbass, per circa 12 miliardi di euro. Si deve inoltre inserire nella Costituzione ucraina lo status di paese neutrale, col rifiuto di schierare truppe straniere”. Ciò è necessario, conclude Rusvesna, dal momento che gli europei e gli occidentali “sanno che ogni guerra si fa per soldi ed essa scoppia quando la pace è più costosa della guerra. La somma di 1,3 trilioni di euro da richiedere alla UE è di diverse volte inferiore alle perdite umane e materiali subite dal Donbass in questi sei anni di guerra”.
Difficilmente, almeno per il momento, Mosca farà proprie queste proposte.
Intanto a est ha fatto notizia – per la verità, più in Russia che in Ucraina – un video-messaggio con cui uno degli ex alleati di Petro Porošenko, il “biznessmen”[1] David Žvania (georgiano; cittadino ucraino dal 1999) si definisce “ex membro del gruppo criminale” che, con a capo l’ex presidente ucraino, ha alimentato e sfruttato le proteste di majdan per il rovesciamento violento del potere e l’arricchimento personale dei membri del gruppo.
“Sono stato anche io membro del gruppo criminale”, ha detto Žvania, “insieme a Vitalij Kličkò, Arsenij Jatsenjuk, Aleksandr Turčinov (nell’ordine: sindaco di Kiev, ex Primo ministro ed ex primo Presidente ad interim dell’Ucraina golpista) e altri”. Abbiamo finanziato majdan, alimentato gli umori di protesta sui media, contrastato le iniziative di pacificazione del governo di Nikolaj Azarov, condotto “negoziati separati con i deputati del Partito delle Regioni, negoziato con ambasciate straniere”, ha detto l’ex deputato.
Io e Pavel Klimkin (ambasciatore in Germania dal 2012 al 2014 e poi fino al 2019 Ministro degli esteri) abbiamo “organizzato il trasferimento di 5 milioni di euro, attraverso l’ambasciata ucraina a Berlino, a un funzionario europeo di alto livello, perché fosse garantito il sostegno UE a Porošenko come candidato alla presidenza”. Žvania si è detto pronto a testimoniare contro l’ex presidente, nel processo che vede quest’ultimo accusato di corruzione, anche se ha dichiarato di non credere che Zelenskij riesca a far condannare Porošenko e anzi ne prevede il ritorno in grande stile ai vertici ucraini. Anche perché, dice Žvania, la squadra di Zelenskij si sta sgretolando sotto i nostri occhi: l’attuale presidente non si è rivelato all’altezza delle aspettative di Kolomojskij, l’oligarca concorrente di Porošenko che lo aveva sostenuto alle presidenziali.
Žvania ha anche citato la somma di 3,4 miliardi di dollari dirottata dall’ex presidente verso proprie società offshore. “Siamo riusciti a intimidire Azarov, primo ministro sotto Viktor Janukovič, e lui ha rassegnato le dimissioni”, ha detto Žvania. Dopo le dimissioni di Azarov, “ci si è aperta la strada per il potere”, aggiungendo che l’ex presidente Janukovič, riparato in Russia a inizio 2014, è “un codardo che ha ceduto alle intimidazioni; eravamo sicuri che non avrebbe resistito alla pressione e sarebbe fuggito”. Secondo le sue parole, inizialmente l’obiettivo del gruppo era solo quello di “controllare i flussi di denaro e non quello di rovesciare il governo”. Ma, poi, “nel gennaio 2014, abbiamo sentito la debolezza del governo e ci siamo avviati alla completa eliminazione del presidente eletto. Volevamo ottenere tutto, realizzare un colpo di stato. E l’abbiamo fatto”.
In effetti, nulla di sensazionale; nulla che non si sappia ormai da almeno sei anni: le ruberie dei golpisti, ansiosi di intascare anch’essi una parte dei soldi che entravano nel clan Janukovič; le lotte a coltello tra raggruppamenti criminali-oligarchici, ognuno forte della propria banda nazista. Žvania non ha detto nulla di clamoroso e, in fondo, ha condiviso fino in fondo la politica di Porošenko e non è detto che le sue attuali esternazioni non nascondano dispute nient’affatto “ideali”, come quando, una quindicina di anni fa, aveva rotto col suo precedente patron, il defunto oligarca russo Boris Berezovskij, per questioni di “vil valsente”. Žvania non ha detto nulla sulla ex premier Julija Timošenko – di cui era stato Ministro per le situazioni d’emergenza nel 2005 – che nel 2014 voleva bombardare il Donbass con le atomiche; nulla sull’oligarca Igor Kolomojskij, che finanziava le bande neonaziste che hanno terrorizzato e martirizzato i civili nel Donbass; nulla dei nazisti ucraini che, quando il Caucaso russo era sconvolto dai raid terroristici islamisti, esortavano a unire le forze contro Mosca, così come oggi arruolano “volontari” per dar man forte agli azeri contro gli armeni; poco o nulla del sostegno UE ai golpisti; soprattutto: nulla dei maggiori burattinai di majdan e dei loro obiettivi geo-strategici nell’area a ridosso della Russia. Nulla, su una guerra terroristica d’aggressione che Kiev non ha alcuna intenzione di cessare. In fondo, Žvania ha ridotto tutta la questione a una fame di soldi criminali; che c’è stata, sicuramente, e c’è tuttora; come c’è stata e c’è tuttora anche da parte di quei burattinai d’oltreoceano – basti ricordare solo gli affari della famiglia Biden: padre Joe, ex vice presidente USA sotto Obama e attuale candidato alla presidenza; e il figlio Hunter, legato alla società di estrazione del gas “Burisma” in Ucraina – che, mentre dirigono la guerra per procura, si preoccupano di imporre a Kiev la privatizzazione delle terre, a vantaggio delle multinazionali alimentari ed energetiche americane ed europee.
Tutte cose che si sanno; e che sanno anche tutti quegli esponenti liberal-fascisti del PD che, per anni, a partire da quando incitavano nazionalisti e nazisti dai palchi di majdan Nezaležnosti, hanno urlato alla “svolta democratica” intrapresa a Kiev nel 2014 e che continuano a sostenere il corso golpista dell’Ucraina post-majdan. Ma, quantomeno, un “pentito di mafia” ha ricordato loro il vile prezzo del sostegno “ideale”, niente affatto interessato, per carità, a quella “svolta”: “5 milioni di euro, attraverso l’ambasciata ucraina in Germania, a un funzionario europeo di alto livello”. Chissà se gli euro-deputati del PD ne avessero sentito l’odore.
Fabrizio Poggi
______________________________________
[1] Il termine biznessmen (traslitterazione dal cirillico della parola Бизнесмен) è un prestito dall’inglese businessman apparso in russo negli anni ’90, quando qualsiasi affarista o mafioso si qualificava come “uomo d’affari” con parole americane pronunciate e scritte così come si udivano.