Furore, un crudo spaccato di classe
Questo articolo nasce come invito alla lettura del libro Furore, uno splendido romanzo, che squarciando il velo della narrazione, ci fa scontrare con le più aspre contraddizioni di un sistema iniquo che non lascia scampo alle classi subalterne nonostante la loro tenacia nel cercare di sfuggire dal peso del “tallone di ferro” del capitalismo.
Furore, opera di John Steinbeck che gli valse il Pulitzer nel 1940, è un romanzo ambientato durante la grande depressione americana degli anni ’30 che riporta fotograficamente uno spaccato di classe crudo e veritiero.
Il libro descrive l’epopea dei Joad, famiglia di braccianti che, cacciata dalla fattoria in cui viveva e lavorava, si trova costretta a emigrare ad ovest, verso la California, in cerca di fortuna e lavoro. Il viaggio, le sconfitte, i problemi e i drammi dei protagonisti del libro sono più attuali che mai. In un’abile alternanza tra la narrazione degli eventi che travolgono i protagonisti e la descrizione dei processi economici e sociali che producono il contesto generale in cui si svolge la trama, l’autore riesce a descrivere un quadro puntuale della grande depressione che attraversò gli Stati Uniti negli anni ‘30 del ‘900.
Dal realismo del romanzo, scritto quasi cento anni fa, si riscontrano moltissime similitudini con le contraddizioni del capitalismo del recente passato e del presente, a testimonianza di come le leggi di accumulazione e produzione capitalistica, rimaste invariate, continuino a produrre lo stesso disastro sociale, ieri come oggi.
«Se riusciste a capire questo, voi che possedete le cose che il popolo deve avere, potreste salvarvi. Se riusciste a separare le cause dagli effetti, se riusciste a capire che Paine, Marx, Jefferson e Lenin erano effetti e non cause, potreste sopravvivere. Ma questo non potete capirlo. Perché il fatto di possedere vi congela per sempre in “io” e vi separa per sempre dal “noi”.»
La cascata di eventi che travolge la famiglia Joad comincia con l’avvento del trattore nelle campagne americane. Il progresso tecnologico, e la conseguente diminuzione delle ore di lavoro e della manodopera necessarie alla coltivazione, fa sì che le famiglie di braccianti vengano sfrattate dai proprietari terrieri: alle 10/20 braccia necessarie per lavorare un campo, si sostituisce la potenza del trattore, in grado, con un solo lavoratore, di coltivare acri e acri di terreno. Diventa quindi interessante il parallelismo con quanto stava avvenendo, nello stesso periodo, in Unione Sovietica: se negli Stati Uniti degli anni ’30 il trattore veniva visto come lo strumento del capitale per aumentare i profitti dei proprietari, gettando nella miseria centinaia di braccianti, nell’URSS lo stesso strumento veniva osannato come mezzo di miglioramento collettivo. È del 1932 la stesura della prima parte del romanzo di Solochov “Terre dissodate” in cui viene descritto l’avanzamento e l’entusiasmo collettivo portato dall’introduzione di strumenti meccanici nell’agricoltura. In un contesto dove i processi di accumulazione e produzione non sono privati, il progresso tecnologico e la riduzione dei tempi di produzione, si traducono nella possibilità di emancipazione di milioni di persone da condizioni di povertà e indigenza. Al contrario, oggi come nel’900, ma come di consuetudine nei Paesi capitalisti, al progresso tecnologico, che permette di produrre stesse quantità di merci in minor tempo, segue un aumento dello sfruttamento del lavoratore, piuttosto che un miglioramento delle condizioni collettive. Dei grandi balzi in avanti fatti nelle tecniche e nelle produzioni, ai lavoratori giungono solo le briciole.
In Furore il racconto ha inizio con l’esodo forzato della famiglia Joad, dovuto all’introduzione della meccanizzazione nell’agricoltura, e si sviluppa col racconto dell’emigrazione di queste masse di braccianti. I protagonisti, spinti verso ovest dalla falsa illusione di condizioni migliori, alimentata dai proprietari terrieri Californiani in cerca di manodopera a basso costo, si scontreranno invece con salari da fame, ribassati a causa del sempre più crescente tasso di disoccupazione, e con un forte razzismo da parte degli abitanti della costa occidentale degli States, che, con accezione negativa, chiameranno gli immigranti provenienti dall’est del Paese “Okie” dal momento che la gran parte di loro proveniva dall’Oklahoma.
«Dovunque si vada, in California o in inferno o in paradiso, ciascuno di noi è un tambureggiatore alla testa di un corteo di torti e di ingiustizie. E tutti questi cortei un giorno si incontreranno, si uniranno, e dalla loro unione nascerà il terrore».
Anche in questo caso viene descritta una dinamica tipica e già vista in tutti quei processi di emigrazione economica dovuta al capitalismo: in Italia nel secondo dopoguerra c’erano i “terroni” che dal sud del paese emigravano verso il nord industrializzato, nell’Inghilterra di metà Ottocento Marx, nella sua celebre lettera, descrive lo scontro tra lavoratori irlandesi e inglesi, e oggi, alla stessa maniera, i fenomeni di immigrazione vengono accompagnati da campagne xenofobe e razziste. Storie già viste e sentite con lo stesso obiettivo: quello di dividere, su questioni etniche o territoriali, il campo dei lavoratori. È proprio questo uno dei temi portanti del romanzo: come le classi dominanti cerchino in tutti i modi di evitare che le masse di braccianti facciano comunità, si uniscano e organizzino per rispondere collettivamente all’attacco e alla riduzione dei loro salari. Viene descritta una società che è tutto fuorché neutrale, che attraverso la forza pubblica dello Stato cura e difende gli interessi delle classi dominanti, garantendo una manodopera affamata e disorganizzata, disposta ad accettare le peggiori condizioni di vita e lavoro stando ai limiti della sopravvivenza. Una società che, per i profitti di pochi, spinge sul baratro migliaia di lavoratori e che deve mostrare il suo lato più violento per reprimere chi, morso dalla fame, prova ad alzare la testa.
«La nostra gente è brava gente; la nostra gente è gente buona. Preghiamo il Signore che un giorno la gente buona non sarà più povera. Preghiamo il Signore che un giorno i bambini avranno tutti da mangiare.
E le associazioni dei proprietari sapevano che un giorno quegli uomini avrebbero smesso di pregare. E sarebbe stata la fine.»
Ripetiamo ancora l’invito alla lettura di questo capolavoro di Steinbeck, che con la sua opera, raccontata da un punto di vista di classe, fornisce al lettore gli strumenti per un’analisi materiale, priva di ideologismi, della realtà dell’epoca. Un libro talmente realista e veritiero sulle condizioni dei braccianti, che fu sottoposto ad una feroce censura negli Stati Uniti e che oggi giorno ha ancora molto da darci, sia per l’esposizione narrativa, sia per il crudo spaccato di classe.
«E quando gli uomini erano in gruppo, la paura spariva dai loro volti e la rabbia prendeva il suo posto. E le donne sospiravano di sollievo, perché capivano che andava tutto bene: il crollo non c’era stato; e non ci sarebbe mai stato nessun crollo finché la paura fosse riuscita a trasformarsi in furore.»
Riccardo Beschi