Il lavoro: i diritti dei lavoratori e l’arbitrio del padrone
Il prossimo 7 settembre si terrà un incontro tra Confindustria e sindacati confederali in cui verrà trattato il tema dei contratti di lavoro. L’argomento è stato introdotto dalle dichiarazioni del leader della Confindustria Carlo Bonomi contenute in una lettera indirizzata ai presidenti del sistema Confindustria, intercettata dall’ANSA e resa nota in alcuni passaggi dai principali organi di informazione nazionale.
Nella stessa lettera il nostro esprime i suoi “desiderata”, sostenendo che i nuovi contratti di lavoro debbano essere “rivoluzionari rispetto al vecchio scambio di inizio ‘900 tra salari e orari”, esponendo anche una visione critica rispetto alle azioni messe in atto dal governo durante la pandemia e, infine, dichiarando che “protrarre ad oltranza la scelta del divieto di licenziamenti è un errore clamoroso”.
Premettendo che:
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quelli attualmente in essere sono contratti frutto di una deregulation normativa che, a partire dagli anni ’90, per finire ai nostri giorni, ha letteralmente smantellato il sistema dei diritti dei lavoratori;
- l’idea di svincolare lo stipendio dal criterio della paga oraria costituisce un precedente assai pericoloso, che non ha nulla di rivoluzionario, utile unicamente ad ingrossare ulteriormente le tasche dei padroni;
vorremmo procedere con ordine a una disamina delle riforme del diritto del lavoro che, con la complicità dei sindacati concertativi, hanno determinato nel tempo la progressiva perdita di certezze e di diritti della classe lavoratrice.
La legge 20 maggio 1970 n. 300, passata alla storia come Statuto dei Lavoratori, o legge Giugni, dal nome del giurista Luigi Giugni (senatore del PSI che nominato a capo della commissione nazionale istituita dall’allora Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale Giacomo Brodolini, che ne predispose la bozza della legge stessa), fu approvata dal centro sinistra, con l’astensione del Partito Comunista.
Il PCI, con la voce di Giancarlo Pajetta, ne sottolineava le lacune e in particolare i punti negativi, costituiti (leggendo alla lettera le sue dichiarazioni) dalla “esclusione delle garanzie alle aziende fino a 15 dipendenti, e la mancanza di norme per i licenziamenti collettivi di rappresaglia. Inoltre, l’assenza o l’insufficienza di sanzioni nei confronti dei padroni che violano la legge toglie al provvedimento quell’effetto psicologico di cui si è parlato”.
Questa legge, non nacque per gentile concessione di un “governo illuminato”, ma fu anche prodotto dei conflitti di classe culminati con le lotte studentesche e operaie del ’68 – ’69. In quegli anni le proteste operaie erano frequenti e determinate, da anni si richiedeva una legge quadro che riformulasse l’intera materia del lavoro. Le proteste operaie spesso scatenarono violente risposte da parte della polizia.
Ricordiamo l’eccidio di Avola (SR), avvenuto il 2 dicembre 1968, nel corso di una manifestazione a sostegno dei braccianti per il rinnovo del contratto, in cui la polizia sparò sui manifestanti e uccise due dimostranti. Fatti simili accaddero anche nella rivolta di Battipaglia, quando la SAIM (Società agricola industriale del Mezzogiorno) decise di chiudere gli storici tabacchificio e zuccherificio. In quell’occasione lo scontro con le forze di polizia terminò con 2 morti e 200 feriti tra i manifestanti.
Nonostante i suoi limiti, evidenziati giustamente all’epoca dal PCI, lo Statuto dei Lavoratori presenta importanti previsioni, come la libertà d’opinione (art. 1) e il divieto di controllo dell’attività lavorativa [sistemi di video sorveglianza ad es.(art. 2 )] e l’art. 18, abolito con il famigerato “job act” che disciplinava il reintegro sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, ingiusto e discriminatorio.
Un primo attacco a questo impianto normativo arriverà con l’emanazione della legge 24 giugno 1997 n. 196, il cosiddetto “pacchetto Treu” dal nome del ministro del lavoro e della previdenza sociale del governo Prodi, con cui si introducono nuove categorie contrattuali, come il Contratto di Collaborazione Coordinata e Continuativa e il Contratto a Progetto.
La parcellizzazione dei contratti e la precarizzazione del lavoro che ne conseguiranno avranno effetto anche sulla progressiva perdita di coesione e capacità organizzativa dei lavoratori.
Al Pacchetto Treu fa seguito la legge 14 febbraio 2003 n. 30 o legge Biagi che istituisce ulteriori forme di contratto, introducendo quella del co.co.pro., della somministrazione del lavoro e il contratto di lavoro intermittente.
Con l’emanazione di questa ulteriore legge viene definitivamente sancito il principio della flessibilità in campo lavorativo, tutta a carico del lavoratore, che dovrà ulteriormente adattarsi alle esigenze del mercato del lavoro. Con l’introduzione delle nuove tipologie contrattuali, i lavoratori saranno sempre più isolati, rendendo onerosa la loro sindacalizzazione. Si pensi alle società di servizi, dove in un unico ambiente lavorano dipendenti appartenenti a società diverse, che applicano altrettante tipologie contrattuali differenti, a fronte di un identico prodotto lavorato.
Prende il nome del ministro del lavoro e delle politiche sociali, Elsa Fornero, la legge 28 giugno 2012 n. 92, che traghetterà definitivamente le pensioni verso il sistema contributivo, innalzando al contempo l’età pensionabile e abbattendo così il peso della voce pensioni sulla spesa pubblica.
L’ultima riforma in ordine di tempo del mondo del lavoro è però la legge 183/2014 (c.d. Job Act). Il Job Act interviene in diversi ambiti, interviene direttamente sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori eliminando la tutela reale in caso di licenziamento illegittimo e prevedendo unicamente l’obbligo per il datore di lavoro al pagamento di un’indennità compresa tra le 4 e le 24 mensilità.
Si arriva, dunque, ai nostri giorni, alle dichiarazioni di Bonomi. Dopo la parcellizzazione dei contratti e la progressiva perdita di potere contrattuale dei lavoratori, si vuole intervenire su tutta la classe lavoratrice, trasversalmente, legando lo stipendio alla presunta produttività dei singoli, favorendo al contempo il principio discriminatorio del “divide et impera”.
Premesso che, in un contesto capitalistico, anche la retribuzione oraria del lavoratore dipendente, calcolata in base all’unità di tempo lavorativo prestato a favore del datore di lavoro, non permette di evitare l’inasprirsi dello sfruttamento del lavoratore. La richiesta di slegare la retribuzione da questi canoni per ancorarla a sistemi di misurazione ascrivibili alle volontà padronali e alla produttività, significa trovarsi di fronte all’ennesimo tentativo di inasprire ritmi e carichi di lavoro, favorendo inoltre quei licenziamenti che sono stati momentaneamente bloccati.
Daniela Giannini