LA SANITA’ PRIVATIZZATA E GLI “EROI” PRIGIONIERI DELLA PRECARIETA’
Solo in Calabria sono 400. In tutta Italia migliaia e migliaia. Sono operatori sanitari assunti a tempo determinato nelle Asl che non riusciranno e raggiungere i requisiti nel 2020 per essere stabilizzati secondo la Legge Madia (che impone alle Regioni di stabilizzare chi ha raggiunto entro quella data i 36 mesi di servizio), oltre a tutti quelli entrati con contratto Covid (di cui non abbiamo ancora il numero certo ma si dovrebbero aggirare intorno ai 40/50 solo in Calabria).
La precarietà fra gli operatori sanitari è un elemento di cui si parla poco in quanto l’attenzione è spesso maggiormente focalizzata sui disagi che vengono percepiti a danno dei pazienti. Ma sulla sponda opposta al paziente, all’interno di quell’insieme di azienducole campanilistiche a cui le scelte politiche più o meno recenti hanno ridotto il nostro Sistema Sanitario Nazionale (SSN), si trovano gli esempi più disparati di mercificazione delle professioni e del lavoro.
Le radici materiali e ideologiche di questo stato di cose sono ovviamente da ricercarsi nel definanziamento della sanità pubblica operato soprattutto in congiunzione con l’entrata nel mercato unico, a cui si sono accompagnati la trasformazione delle vecchie Usl in aziende dotate di un bilancio da curare in maniera breve-terministica e, infine, il federalismo fiscale e le sperequazioni territoriali che ne sono seguite. I dati principali, oggi più noti “grazie” al dramma della pandemia ma ancora oggetto di denegazione da parte di illustri esponenti politici, testimoniano uno smantellamento sistematico del sistema sanitario pubblico: nel decennio 2010-2019, nonostante il generale invecchiamento della popolazione, tra tagli e definanziamenti al SSN sono stati sottratti circa € 37 miliardi e il fabbisogno sanitario nazionale è aumentato di soli € 8,8 miliardi. Riguardo all’ampliamento del “paniere” dei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), il grande traguardo dell’aggiornamento degli elenchi delle prestazioni fermi al 2001 si è di fatto trasformato in un’illusione collettiva, visto che dopo quasi 3 anni la maggior parte dei nuovi LEA non sono ancora esigibili in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale. Questo è l’effetto di una concezione di Stato come azienda che non controlla a beneficio del pubblico la creazione e la circolazione dei capitali ed è quindi, per scelta politica, schiavo di regole di bilancio tipiche di una ditta privata in un contesto di incertezza.
Giungiamo così ai maggiori beneficiari dello smantellamento della sanità pubblica: gli investitori privati. Prendiamo, ad esempio, la situazione delle case di riposo, tristemente nota per via degli ultimi eventi. Negli ultimi anni, in un processo di crescita delle strutture per anziani, abbastanza prevedibile perché legata all’andamento demografico, è cresciuta a dismisura la quota del privato. Da un’indagine UEcoop risulta che i posti letto gestiti da privati sono passati dai 159.851 del 2006 ai 223.800 del 2016 (+ 64mila) a fronte dei quali si assiste a una perdita di oltre 15.700 posti letto nel settore pubblico. Mettendo a confronto i due settori, risulta così che 7 posti letto su 10 sono gestiti da privati.
L’esplosione del privato in sanità è una delle cause dell’aumento della precarietà fra i professionisti anche se non è, come accennato, l’unico fattore. La cosa da sottolineare è che, oltre ad infermieri ed Oss, il dramma della precarietà in ambito sanitario interessa anche i medici specialisti. Sono molti quelli assunti non tramite contratto a tempo indeterminato ma tramite partita Iva.
In termini previdenziali, questo significa versare una quota dello stipendio all’ente di previdenza, in alcuni casi del 18%. A questo va aggiunta la ritenuta fiscale da pagare a fine anno (quota variabile in base al regime fiscale e comunque non meno del 15% per il regime forfettario). In più, svolgendo un’attività in cui sono previsti atti invasivi e non, i medici devono stipulare due polizze assicurative (per coprire sia la responsabilità contrattuale che extracontrattuale) con un premio di poco inferiore a 4000 euro annui. Ovviamente non esistono ferie, se non si lavora non si riceve alcun compenso. In più il contratto può essere rescisso in qualunque momento.1
Non la condizione ideale per un “eroe”, che dovrebbe avere la serenità e la lucidità massime per svolgere la sua delicata professione, oltre ottenere da essa la giusta soddisfazione lavorativa.
L’uso della partita Iva in sostituzione di un normale contratto – fa notare Roberto Carlo Rossi, presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Milano – ha preso piede nei reparti di emergenza-urgenza, dove è più che mai importante avere personale affidabile, assunto, protetto da diritti e al tempo stesso con doveri precisi e scritti. Da qui, nel tempo, la collaborazione di medici in libera professione si è estesa a tutti i reparti. Situazione pericolosa, sotto molti punti di vista. Anzitutto le collaborazioni libero professionali non garantiscono diritti né una quota minima di compenso l’ora per il professionista: vi sono medici specialistici che lavorano per 12,50 euro l’ora, cifra ridicola viste la responsabilità che hanno. Le aziende possono permettersi di muoversi in questo modo perché il mercato è pieno di giovani medici che cercano lavoro e sono disposti a tutto; in questo modo però si mette a rischio tutta la classe medica. Il medico libero professionista versa meno soldi nelle casse pensionistiche (Inps o Enpam che sia) rispetto al medico con contratto regolare, il che non si traduce solo in pensioni risibili a fine carriera ma anche in un sistema che fatica a sostenere i pensionati di oggi della categoria. Avere medici a partita Iva negli ospedali ha poi un’altra conseguenza: questi spesso lavorano più ore di quanto previsto dai regolamenti, per racimolare una mensilità più alta. Saltare i turni di riposo, però, è pericoloso per la salute del medico e dei pazienti.2
Il contesto in cui si trovano a lavorare gli infermieri è identico se non peggiore. Andrea Bottega, segretario del Nursind (Sindacato delle Professioni Infermieristiche), affermava già nel 2016 che il precariato infermieristico in Italia riguardava circa «10.000 unità, di cui 3.000 in Sicilia». Barbara Mangiacavalli, presidente di Ipasvi (Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche), riportava lo stesso anno che i numeri forniti dal sindacato vanno rimpolpati da alcuni casi al limite del precariato, arrivando intorno a 17- 18.000 infermieri: «La situazione è quella creata da cinque anni di blocco del turnover, soprattutto nelle Regioni in piano di rientro e quindi direi che i numeri maggiori del fenomeno si concentrano in queste, quasi tutte del Sud» E riguardo agli appalti di “manodopera” nel mondo sanitario: «Molti pensano che il lavoro in cooperativa sia di livello inferiore rispetto al lavoro in ospedale, ma non è così. È però vero che si viene pagati molto meno: per servizi in outsourcing sul territorio si parla di retribuzioni da 5 euro l’ora. Un’offesa per la professione».3
È evidente che, oltre una colossale ripresa degli investimenti nella sanità pubblica, siamo di fronte alla necessità di internalizzare immediatamente tutti i servizi concernenti il SSN e porre il contratto a tempo indeterminato accompagnato da assicurazioni pubbliche come l’unico contratto “ordinario” per i professionisti che lavorano nei presidi sanitari e nella sanità territoriale.
Anche perché il sistema dell’esternalizzazione ha solo una funzione: quella di garantire il risparmio di denaro (almeno nel breve termine) e l’abdicazione dalle responsabilità politiche in tema di salute.
In questo modo gli enti locali non hanno il carico di gestione (sebbene la mancanza di investimenti e l’aumento di potere negoziale dei privati rendono anno per anno, alla fine, più dispendioso “delegare”) e affidano al privato anche il trattamento di migliaia di lavoratori. Entra qui in gioco il problema dei contratti: con le esternalizzazioni si applicano contratti peggiorativi rispetto ai contratti degli Enti Locali: se è vero che i servizi continuano ad essere sostenuti principalmente da fondi pubblici, i contratti sono però quelli del privato sociale. Questi, a loro volta, «sono polverizzati: una decina di contratti differenti e poi ci sono anche contratti ad hoc: l’ente gestore inventa un contratto specificatamente suo, ulteriormente peggiorativo rispetto a quelli maggiormente diffusi».4
Come riportato più su, le cooperative sociali in questo campo fanno “scuola”. Tradendo clamorosamente la natura stessa della loro costituzione e finalità, esse si presentano oggi come i maggiori esempi di degrado contrattuale e maltrattamento del professionista. Esemplare è la vicenda dei rinnovi dei contratti delle cooperative (giugno 2019), che si applicano a 350 mila lavoratori e lavoratrici e del contratto UNEBA (febbraio 2020) che tocca altri 70 mila operatori e operatrici. Entrambi «erano scaduti da 7 anni ed il rinnovo è avvenuto con trattative a porte chiuse, tra i firmatari, con i sindacati confederali. È avvenuto dopo mobilitazioni, scioperi e presidi e, ancora più importante, dopo l’elaborazione di una piattaforma condivisa da parte di sindacati di base e collettivi: una piattaforma che è stata portata sul tavolo delle centrali cooperative dopo essere stata discussa con migliaia di lavoratori. Le questioni più importanti che ponevamo sono state raccolte strumentalmente nel nuovo contratto, solo per essere poi demandate al secondo livello territoriale e aziendale: cosa che in un settore poco sindacalizzato vuol dire lasciarle alla contrattazione aziendale, di cooperativa in cooperativa o addirittura di servizio in servizio. Stiamo parlando di questioni importanti quali lavoro notturno, part-time ciclici verticali, uso banca ore».5
Emblematico, a questo riguardo, quello che sta accadendo nella cooperativa sociale “Rinascita” di Melito di porto Salvo (RC). Classico esempio di impresa che fonda i suoi profitti non su un servizio innovativo ai suoi utenti ma sul mantenimento – a livelli minimi – di prestazioni sussidiate dal pubblico, la cooperativa si distingue da anni per la gerarchia “informale” che caratterizza il suo staff. Da un lato il nucleo egemone dei soci della cooperativa, che mantiene se non legalmente almeno di fatto lo strapotere decisionale circa la politica aziendale e la distribuzione dei ricavi, anche a discapito dei soci più nuovi. Dall’altro i lavoratori dipendenti, che devono continuamente subire trattamenti de-qualificanti e ritardi nei pagamenti, giustificati dalla società attribuendo mancati pagamenti da parte dell’Asp locale nei suoi confronti. L’Usb, però, che sta seguendo questi lavoratori, ha accertato al tavolo tecnico l’avvenuta erogazione delle somme dovute.
La vicenda più clamorosa risale a qualche tempo fa, quando “Rinascita” dichiarava la necessità impellente di demansionare o licenziare parte dei lavoratori, anche se il carico di lavoro non ne mostrava la necessità.
Alcuni di essi, racconta Claudio (nome di fantasia) «non hanno accettato di diminuire il monte ore (richiesta fatta con il pretesto della presenza di personale in esubero) e sono stati licenziati, nove persone, tra cui me. La prassi? Hanno mandato delle lettere specificando che se non avessimo accettato la riduzione oraria del contratto da 38 ore a 19 ci avrebbero licenziato. Dal 2017 gli altri si sono ritrovati con un contratto dimezzato, e parliamo di persone che sono padri di famiglia con un solo reddito. Alcuni di noi hanno fatto causa alla cooperativa vincendola e il tribunale ha imposto il nostro reintegro. Il punto, ora, è che noi lavoratori che abbiamo avuto il coraggio di alzare la testa siamo sotto ricatto, subendo mobbing e dispetti di ogni tipo (compresi i ritardi nei pagamenti), da parte di una cooperativa che offre un servizio dimezzato – causa un orario ridotto non giustificato». Qui, come minimo, racconta Aurelio, sindacalista dell’Usb, «dovrebbe essere l’Asp ad intervenire e verificare la corretta erogazione dei servizi. Quando l’Usb ha fatto la prima trattativa come organizzazione sindacale ha proposto di fare un sistema di orari uguali per tutti, soci e lavoratori dipendenti, per affrontare la crisi che veniva additata come causa del taglio di orario, in modo che tutti potessero avere un reddito sufficiente per andare avanti. I primi hanno rifiutato. Il problema è sociale e comprende tutte le istituzioni: è evidente dal fatto che quando facciamo presidi e scioperi sotto la struttura le forze dell’ordine ci intimidiscono chiedendo ai lavoratori i documenti, mentre qualche metro più sopra si trova una realtà che opera in maniera immorale e illegittima dimezzando i servizi e opprimendo i propri dipendenti».
Le conseguenze da trarre sono evidenti.
Ci avevano detto che l’autonomia regionale avrebbe aumentato l’efficienza e invece regioni disagiate come la Calabria hanno perso migliaia di posti letto e speso ogni anno 200 milioni in meno rispetto alla media pro capite nazionale. Ci avevano detto che il mercato unico avrebbe portato opportunità invece siamo da 30 anni col cappio al collo dei capitali che possono fuggire e abbiamo dovuto tagliare 37 miliardi alla sanità pubblica negli ultimi 10 anni. Ci avevano detto che il privato è meglio e le regioni spendono centinaia di milioni all’anno per le cliniche private e questi sono i risultati: servizi per pochi e lavoratori sfruttati.
Quello che non può attendere più è l’internalizzazione di tutti i servizi delegati ai privati e dei loro dipendenti, un SSN centralizzato e fondato sulla solidarietà, una medicina territoriale diffusa e che non abbia vincoli finanziari aziendalistici, dirigenti sanitari giudicati per i livelli essenziali che mettono in atto e non per le clientele che apportano o per l’austeritá che riescono a mettere in pratica.