A chi serve ridurre il numero dei parlamentari?
Il prossimo 20 settembre, con un referendum confermativo, gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi sulla legge costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari di entrambe le camere, un vecchio cavallo di battaglia del M5S. A fronte del massacro sociale che i lavoratori si trovano ad affrontare in conseguenza della crisi e della ristrutturazione capitalistica, a fronte della immane socializzazione delle perdite dei capitalisti da parte dello Stato che andrà a gravare sulle spalle dei proletari di oggi e di domani, se non saremo in grado di mutare i rapporti di forza tra le classi, la questione appare artificiosa e marginale, se fossimo complottisti diremmo quasi un pretesto per cercare di distogliere l’attenzione da situazioni ben più importanti. Invece, risponde a un disegno autoritario di assetto istituzionale fortemente voluto dal capitale monopolistico italiano e non solo. Analoghi progetti si stanno discutendo anche in Germania e Regno Unito.
La dinamica referendaria, per sua natura, riduce il dibattito a una questione binaria fra No e Sì che obbliga a prendere una delle due posizioni (o, se si vuole, delle tre, considerando che l’astensione è anch’essa una posizione, che però in un referendum confermativo è ininfluente, non essendovi quorum di votanti per la validità del risultato) a prescindere dalle differenze che possono esistere all’interno degli schieramenti, anche su questioni tutt’altro che secondarie.
Il rischio per i comunisti è di entrare a far parte di uno schieramento per forza di cose ampio, dove si mescolano istanze a cui solo la dicotomia forzata dà l’apparenza di omogeneità, accodandosi così a interessi estranei, se non opposti, a quelli delle classi popolari. Tuttavia, su questioni come quella della riduzione dei parlamentari, che interessano l’assetto istituzionale della democrazia borghese e, quindi, anche gli spazi di agibilità politica dei comunisti in una fase non rivoluzionaria e, soprattutto, di arretratezza generale come quella attuale, è essenziale che i comunisti elaborino una loro posizione autonoma.
Il fronte del Sì
Le argomentazioni di chi attualmente sostiene il Sì alla riduzione dei parlamentari (uno schieramento trasversale, ma con un forte connotato di classe, che va dal Movimento 5 Stelle, al Partito Democratico e all’opposizione di centro destra), si articolano su due punti fondamentali: alti costi e inefficienza dell’attuale assetto parlamentare. Un’impresentabile ammucchiata che vede insieme partiti di governo e di opposizione, destre vere e finte sinistre. La riduzione del numero dei parlamentari, secondo i sostenitori del Sì, renderebbe i processi decisionali più snelli e – questo l’argomento più gettonato da parte delle formazioni populiste e reazionarie a causa del suo carattere demagogico -, ridurrebbe i costi della politica andando a colpire la cosiddetta “casta”.
Si tratta in entrambi i casi di argomentazioni di scarso spessore, ma poiché il richiamo ad un presunto risparmio di spesa, agitato dal fronte del Sì potrebbe avere più facile presa sugli elettori, storditi da anni di propaganda demagogica sui cosiddetti “costi della politica” e sulla “casta”, rispetto a qualsiasi altra considerazione, cercheremo di fare chiarezza prima di tutto su questa argomentazione propagandistica, pretestuosa e fuorviante.
I “costi della politica”
I “costi della politica” non si riducono alle sole indennità e rimborsi spesa dei parlamentari, ma si riferiscono a tutto il sistema istituzionale, dai municipi delle città metropolitane fino alla Presidenza della Repubblica, dalle spese per le sedi della politica a quelle per il funzionamento dei servizi accessori a tutti i livelli. Il loro ammontare complessivo annuo è pari a circa 18,3 miliardi di euro, a cui si aggiungono circa 6,4 miliardi di ulteriori costi dovuti alla sovrabbondanza del sistema istituzionale soprattutto a livello di autonomie territoriali, per un totale di 24,7 miliardi di euro[1], pari al 1,38% del PIL italiano nel 2019. Per dare un’idea delle proporzioni, l’Italia nel 2020 spenderà in totale più di 26,3 miliardi di euro in spese militari, pari al 1,47% del PIL 2019, con trend in aumento nonostante l’emergenza da COVID-19 e le note deficienze del sistema sanitario[2]. Prima della pandemia, nel 2019, i trasferimenti statali alle imprese, cioè denaro pubblico utilizzato per sostenere il profitto del capitale finanziario, sono ammontati a oltre 41,6 miliardi di euro, pari al 2,33% del PIL 2019, di cui 4,5 miliardi destinati alle banche con finalità di ricapitalizzazione[3]. Non disponiamo di dati altrettanto aggiornati, ma, sempre a titolo di paragone, nel 2013 la Chiesa cattolica costava ai contribuenti italiani oltre 6,7 miliardi di euro tra 8×1000 direttamente assegnato, sgravi fiscali finanziamenti all’insegnamento della religione, spese per il mantenimento del clero, ecc., al netto del riparto dell’8×1000 non assegnato, del finanziamento di eventi speciali (il solo Congresso Eucaristico del 2011 costò quasi 3,7 miliardi di euro!) e dei costi accessori connessi allo svolgimento di tali raduni (sicurezza, agevolazioni ai pellegrini, smaltimento rifiuti, ecc.)[4], una cifra quasi pari ai “costi di funzionamento degli organi costituzionali, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, degli uffici politici dei ministeri, delle Giunte e dei Consigli regionali“[5]. È del tutto evidente che risparmi ben più consistenti si sarebbero potuti ottenere agendo su queste voci di spesa, anziché sul taglio dei parlamentari. Ad esempio, riducendo l’ipertrofia delle autonomie territoriali: “Basti pensare che, se si accorpassero gli oltre 7.400 comuni al di sotto dei 15 mila abitanti, il risparmio ammonterebbe a 3,2 miliardi di euro…“[6]. Questo, tuttavia, non è nell’agenda, in quanto la ridondanza dell’apparato istituzionale è funzionale al sistema di clientele, cioè di creazione di consenso, della classe dominante.
A quanto ammonterebbe, invece, il risparmio ottenibile dalla progettata riduzione del numero di parlamentari a 600? Il risparmio reale è ben distante da quanto strombazzato dal fronte del Sì, in particolare dai politici per caso che dirigono il M5S e, purtroppo, anche alcuni dicasteri. Il calcolo corretto va fatto su quanto effettivamente il bilancio dello Stato recupererebbe, cioè sulla base delle indennità al netto di imposte e contributi, versati dai parlamentari allo Stato, non sulle indennità lorde come, barando consapevolmente, fanno i fautori della riforma. I rimborsi spesa e gli altri benefits sono, invece, esentasse e vanno calcolati per intero.
Posta in questi termini, la prevista riduzione di 345 parlamentari tra Camera e Senato porterebbe ad un risparmio di soli 57 milioni di euro all’anno (285 milioni sull’arco di un’intera legislatura), pari allo 0,007% della spesa pubblica italiana[7], meno di un caffè all’anno per abitante, se fosse effettivamente restituita ai contribuenti.
Se la vera motivazione dei promotori fosse stata di ragione economica, lo stesso risparmio, comunque irrilevante, si sarebbe potuto ottenere semplicemente riducendo della stessa misura l’indennità dei parlamentari e agendo sui loro rimborsi e benefits, anziché sul loro numero. Questo a fronte di un costo di organizzazione del referendum che, prima dell’emergenza COVID-19, era previsto in circa 350 milioni di euro, se si fosse tenuto regolarmente il 29 marzo. L’accorpamento con le elezioni regionali, comunali e suppletive ha imposto la doppia giornata di voto che, insieme alle misure anti-contagio (15,1 milioni di mascherine e 315.000 litri di gel igienizzante)[8], fa aumentare i costi totali.
Il risultato è che il solo referendum ha un costo maggiore di tutto il risparmio calcolato su 5 anni di legislatura! La pretestuosità delle argomentazioni che fanno riferimento al risparmio è evidente e nasconde ben altri intenti.
Il “miglioramento dell’efficienza”
Tra le varie panzane che siamo costretti a sentire ormai giornalmente c’è anche quella che afferma che la riduzione del numero dei parlamentari consentirebbe una maggiore efficienza del Parlamento e uno snellimento dell’iter legislativo. Un’altra falsità del fronte del Sì. Innanzitutto, i dati sembrano indicare che non vi sia una correlazione diretta tra efficienza delle istituzioni parlamentari e numero di rappresentanti eletti, considerato che i tempi medi di approvazione di una legge dipendono più dal titolare dell’iniziativa legislativa che non dal numero dei parlamentari: nella XVII legislatura, una legge di iniziativa governativa ha richiesto in media 218 giorni, contro i 617 giorni delle leggi di iniziativa parlamentare. Stesso discorso se si osserva il numero delle proposte di legge approvate: nella XVII legislatura, su 412 proposte governative 282 sono state approvate (il 78%), mentre su 6.896 proposte di iniziativa parlamentare, solo 86 (1,3%) sono diventate legge[9].
La Riforma Fornero, ad esempio, con l’uso della decretazione e della fiducia superò tutto l’iter procedurale previsto dal bicameralismo e fu convertita in legge dall’attuale numero di parlamentari in soli 20 giorni, a testimonianza del fatto che, quando si tratta di colpire i lavoratori e favorire il capitale, i lacchè di quest’ultimo sanno essere altamente efficienti.
Al di là di questa constatazione, la riforma non intacca in alcun modo i meccanismi che dettano i tempi di approvazione delle leggi, che dipendono dal bicameralismo perfetto e dai regolamenti delle due camere, non dal numero dei parlamentari. Se seguissimo la logica del fronte del Sì, che fa dipendere l’efficienza del legislatore dalla sua consistenza numerica e la portassimo alle estreme conseguenze, dovremmo concludere che la più efficiente forma di governo sia l’autocrazia, dove un solo individuo decide: un fatto contraddetto dalla stessa storia.
Per negare l’evidente restrizione del diritto di rappresentanza passiva che la riforma comporterebbe, tra le più inconsistenti motivazioni del Sì c’è il presunto riallineamento al rapporto di rappresentanza degli altri paesi europei, ammesso e non concesso che si tratti di situazioni esemplari. Quale sia l’esigenza oggettiva di tale riallineamento e quali vantaggi produrrebbe non riescono a comprenderlo probabilmente neppure i più fantasiosi assertori del Sì, comunque anche questa argomentazione si basa su un trucco di calcolo del tutto arbitrario, che forza il risultato voluto, ottenuto rapportando alla popolazione di ciascun paese solo il numero dei parlamentari eletti senza considerare i nominati che pure sono parte dell’istituzione, gravano sul bilancio dello Stato e, in alcune giurisdizioni come il Regno Unito, sono in numero piuttosto consistente. Ora, poiché i parlamentari rappresentano sempre gruppi d’interesse presenti nella società, cioè sono la nomenclatura delle classi, che siano eletti o nominati per provenienza territoriale, per meriti o per diritto ereditario, ci sembra più corretto calcolare il rapporto di rappresentanza sulla base del loro numero totale. Il risultato, così calcolato, smentisce il presunto riallineamento. Se oggi l’Italia ha un rapporto di 1 parlamentare per ogni 64 mila abitanti, qualora passasse la riforma costituzionale avrebbe un rapporto di 1 a 101 mila, con una limitazione della rappresentanza tra le più alte in Europa, seconda solo alla Germania (1:106 mila) e a significativa distanza da Regno Unito (1:46 mila), Francia (1:72 mila) e Spagna (1:76 mila), per citare solo alcuni paesi[10]. È, quindi, del tutto evidente che una riduzione del numero di parlamentari accrescerebbe la già rilevante distanza tra rappresentati e rappresentanti, tra società e politica, accentuando il carattere elitario di quest’ultima: esattamente l’opposto di quanto sostiene il fronte del Sì.
Il fronte del No
Il fronte del No è composto prevalentemente da forze che si pongono alla “sinistra” del PD, come LeU/Sinistra Italiana, anche se fa parte della maggioranza governativa e da partitini che sono appena sotto l’attuale soglia di sbarramento, come Azione di Carlo Calenda e +Europa. A questi soggetti si aggiungono formazioni extra-parlamentari, come Potere al Popolo, il Partito Comunista, il PCI e Rifondazione Comunista, il cui ingresso nel parlamento diventerebbe praticamente impossibile qualora il Sì dovesse prevalere. Inoltre, anche diverse organizzazioni e movimenti di massa che gravitano nell’area di centrosinistra, se non addirittura contigui al Partito Democratico, come ad esempio l’ANPI o le “Sardine”, si sono schierate per il No.
L’argomento centrale che queste organizzazioni portano a favore del No riguarda la difesa del diritto alla rappresentanza popolare garantito dalla Costituzione contro un attacco che, lungi dal combattere la “casta”, la rafforzerebbe, soprattutto se la riduzione dei parlamentari dovesse combinarsi con un meccanismo elettorale che sbarrasse ulteriormente l’ingresso alle formazioni politiche minori e rendesse le candidature appannaggio delle segreterie di partito, come del resto già avviene oggi, mortificando ulteriormente la democrazia e allontanando ancora di più il “paese reale” dalla politica.
Le motivazioni del fronte del No sono in parte vere e condivisibili, ma stupisce vedere ergersi oggi a paladini della democrazia alcuni esponenti di LeU/Sinistra Italiana che ieri, quando erano ancora dirigenti del PD, hanno votato a favore di modifiche costituzionali e di leggi elettorali che hanno arrecato alla democrazia e al diritto di rappresentanza un vulnus non meno significativo di quello che comporterebbe la riduzione del numero dei parlamentari, aprendo la breccia per l’offensiva reazionaria in atto. Pensiamo alla modifica del Titolo V della Costituzione, all’introduzione sistema maggioritario prima, degli sbarramenti poi, alla ridefinizione dei collegi elettorali per favorire il successo del PD, all’inverosimile numero di firme che i partiti non rappresentati in parlamento sono obbligati a raccogliere per poter presentare le proprie candidature, mentre i partiti con rappresentanza parlamentare ne sono esentati.
Ciò detto, è vero che la riduzione dei parlamentari, soprattutto se combinata con una legge elettorale con sbarramento, aumenterebbe enormemente la soglia che consente l’ingresso in parlamento, riducendo, da un lato, la rappresentanza elettiva e, dall’altro, chiudendo di fatto le porte delle camere ai piccoli partiti.
Proprio per questo, la campagna per il No dei partitini borghesi, che per i motivi che abbiamo descritto sopra si troverebbero con tutta probabilità privi di seggi parlamentari, ha tutta l’aria di una preoccupazione per le proprie rendite di posizione mentre, per quanto riguarda le altre formazioni di questo schieramento, sembra trattarsi di una generica difesa della Costituzione borghese per tentare così di mantenere aperta la possibilità, del tutto illusoria in questa fase, di rientrare in parlamento.
Il trasformismo della sinistra borghese
Dal punto di vista della composizione dei due schieramenti contrapposti, l’analisi dell’iter di approvazione della legge costituzionale oggetto dei quesiti referendari mette in luce una notevole fluidità delle posizioni, che, a sua volta, ne rivela la natura opportunistica. Sono aspetti piuttosto interessanti, soprattutto alla luce del fatto che oggetto della riforma è l’assetto della massima istituzione della democrazia rappresentativa, così come è definito dalla Costituzione che oggi i partiti della sinistra borghese affermano di difendere:
- L’iter inizia durante il governo Conte 1, durante il quale ha luogo la prima approvazione al Senato il 7 febbraio 2019, con 185 voti favorevoli, 54 contrari e 4 astenuti. In questa prima votazione, i gruppi a favore erano M5S, Lega, Forza Italia (con alcuni astenuti e contrari) e Fratelli d’Italia, mentre il PD votò compatto contro[11].
- La Camera dei deputati approva la legge costituzionale in prima lettura il 9 maggio del 2019 con 310 voti favorevoli, 107 contrari e 5 astenuti. Anche in questo caso ad approvare sono M5S, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, mentre PD vota, anche qui, compatto contro, insieme a LeU[12].
- Il Senato approva la riforma in seconda lettura l’11 luglio 2019 (ancora a governo Conte 1 in carica) con 180 voti favorevoli e 50 contrari. Gli schieramenti non sono cambiati: M5S, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia votano a favore mentre il PD vota contro[13].
- La Camera dei Deputati approva la legge in via definitiva l’8 ottobre 2019 con 553 voti favorevoli, 14 voti contrari e 2 astenuti. Questa volta, però, con il cambio di maggioranza che ha portato al governo Conte 2 con l’appoggio di M5S, PD e LeU, tutti i gruppi parlamentari votano a favore con soltanto un pugno di deputati del gruppo misto che vota contro[14].
È palese il trasformismo opportunista del Partito Democratico e della sua ala sinistra, passati dalla contrarietà alla riforma alla sua approvazione dopo il loro ingresso nella maggioranza di governo. L’analisi di queste vicende dimostra come questi (ig)nobili “difensori della Costituzione” l’abbiano invece svenduta come merce di scambio nella trattativa con il M5S per raggiungere l’accordo sulla maggioranza e la formazione del governo.
La “linea del Piave”, proclamata da Zingaretti nell’agosto del 2019 sulla riduzione del numero dei parlamentari e sulla abrogazione dei cosiddetti “Decreti Salvini”[15], per altro mai abrogati, veniva così travolta nell’arco di un mese, in una Caporetto politica, dall’accordo di governo con il Movimento 5 Stelle[16], sull’altare del quale il PD l’8 ottobre 2019 sacrificava ogni principio e votava la legge di modifica costituzionale. Oggi, costoro hanno la faccia tosta di presentarsi come difensori della democrazia e “unico baluardo all’avanzata delle destre“[17], ovviamente in un appello al voto utile in vista delle prossime elezioni regionali.
Nonostante già a fine 2019 abbia votato praticamente all’unanimità a favore della riforma, il PD ha ufficializzato la posizione per il Sì soltanto nella Direzione del 7 settembre scorso. Diversi esponenti di spicco, ad esempio Matteo Orfini e Laura Boldrini, si sono dissociati, pur avendo votato a favore in aula. Per non parlare della sedicente “sinistra radicale” al governo, di personaggi come Fratoianni e Speranza che, dopo aver votato la riforma, sventolano adesso la bandiera della difesa della democrazia rappresentativa. Vale anche la pena di notare la posizione pilatesca assunta dalla CGIL: il più grande sindacato italiano, che ha il PD come partito di riferimento, non ha dato indicazioni di voto ai propri iscritti, anche se in una nota della segreteria nazionale ha bocciato senza appello la riforma[18].
La nostra posizione
Le ragioni fin qui esposte dovrebbero essere sufficienti a motivare la presa di distanza di ogni sincero comunista da entrambi gli schieramenti. La nostra ferma opposizione a questa, come a qualsiasi altra riforma reazionaria – perché di questo si tratta -, che riduca ulteriormente gli scarsi spazi democratici rimasti accentuando l’autoritarismo dello stato borghese, muove da altre motivazioni.
Tuttavia la palese insofferenza che il capitalismo da tempo manifesta nei confronti della democrazia rappresentativa quale da esso stesso concepita, richiede uno sforzo ulteriore di analisi e, soprattutto, esige che i comunisti, nell’analisi e nella propaganda, contrappongano sempre alla democrazia borghese in generale l’esempio, più che mai vivo e vitale, della democrazia socialista realizzata nella dittatura del proletariato, poiché in essa anche il concetto di rappresentanza assume un carattere diverso.
La contraddizione tra rappresentanza e governabilità è intrinseca allo stato borghese e ne attraversa la storia fin dalle sue origini, cioè dalla fase delle rivoluzioni borghesi, quando la borghesia, già classe economicamente dominante, diventa tale anche politicamente con il passaggio, mai pacifico né graduale, dall’assolutismo a forme di governo costituzionali. È la stessa separazione dei poteri tra legislativo e esecutivo, teorizzata dal barone di Montesquieu già prima della Rivoluzione Francese, realizzata nello stato liberale e conservata nello stato post-liberale, a generare questa contraddizione. Per quanto la separazione dei poteri si esplichi in forme e gradi di bilanciamento diversi, essa genera sempre un conflitto istituzionale, a volte conclamato, altre volte latente, tra potere legislativo e potere esecutivo, tra parlamento e governo, in quanto originalmente concepita e attuata con il fine esplicito di porre limiti all’estensione del potere decisionale di entrambi. Con la separazione dei poteri, almeno nella costruzione teorica, l’assemblea elettiva produce le leggi a cui è sottoposto anche il governo, ma non può attuarle, poiché questa è prerogativa dell’esecutivo, mentre il governo non può agire esecutivamente senza l’approvazione del parlamento, pena la decadenza del provvedimento. Solo il socialismo è stato in grado di risolvere la contraddizione tra rappresentanza e governabilità superando la separazione dei poteri. I Soviet o Consigli, se vogliamo usare il termine gramsciano, erano composti non da politici a tempo pieno, ma da operai, contadini e soldati che vivevano della propria attività lavorativa (non di indennità!), venivano eletti sul posto di lavoro e delegati dai propri colleghi a rappresentarli.
Come massimo organo della dittatura proletaria, il Soviet concentrava in sé sia il potere legislativo, che quello esecutivo, mentre il Consiglio dei Commissari del Popolo (governo) era semplicemente un organismo tecnico incaricato di dare immediata attuazione pratica a quanto deliberato dal Soviet. In tal modo, rappresentanza e governabilità non entravano in contraddizione tra loro, in quanto chi stabiliva la norma era anche colui che la applicava. Non è una questione di numero, ma di sostanza autenticamente democratica della dittatura proletaria.
Nel corso della storia, la borghesia, una volta divenuta classe dominante a tutti gli effetti, ha manifestato una crescente insofferenza per la democrazia rappresentativa da essa stessa concepita, ma ormai percepita come un impaccio all’esercizio del proprio dominio. Ne abbiamo l’esempio più tragico ed eclatante con i fascismi, per mezzo dei quali i capitalisti hanno addirittura azzerato il diritto di rappresentanza, cannibalizzando il loro stesso modello di democrazia formale e limitata per instaurare una forma aperta e terroristica della loro dittatura in funzione antioperaia e anticomunista, nella quale non vi era più spazio per la rappresentanza, ma per un solo manovratore al comando, assoluta e indiscutibile espressione dei loro interessi di classe. Una forma di controrivoluzione profilattica per prevenire non l’atto, ma addirittura l’ipotesi della rivoluzione proletaria. I settori più reazionari, eversivi e aggressivi del capitale finanziario hanno continuato a perseguire una drastica compressione della rappresentanza in nome della governabilità anche nel secondo dopoguerra. Non è un caso che la riduzione dei parlamentari facesse parte del programma della loggia P2 di Licio Gelli e che “think tank” lobbisti del capitale monopolistico, come il Club Bilderberg[19] o la Trilaterale[20], ne facciano una delle loro principali bandiere programmatiche.
Le sempre più frequenti fasi di crisi e i conseguenti processi di ristrutturazione posti in atto dal grande capitale monopolistico massacrano la classe operaia, i ceti popolari, parte della piccola borghesia in via di proletarizzazione e colpiscono anche settori marginali di capitale non monopolistico, impossibilitati a reggere la concorrenza con i settori dominanti. La difficoltà di costruire il consenso di massa a simili misure antipopolari conduce inevitabilmente all’inasprimento della repressione e all’involuzione autoritaria dello stato borghese, ormai rivolta non solo contro l’antagonista di classe, ma anche contro settori marginali della stessa borghesia. In questa luce va visto correttamente il senso dell’attacco alla democrazia rappresentativa, portato avanti anche, ma non solo, con la legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari. Lo stesso fine è perseguito per mezzo di leggi elettorali con soglie di sbarramento o premi di maggioranza, che alterano i risultati del voto, assegnando al partito o coalizione di maggioranza voti in realtà espressi per altre formazioni, oppure con l’assurda quantità di firme richieste per la presentazione delle liste, che addirittura esclude preventivamente la possibilità per le organizzazioni politiche non rappresentate in parlamento di partecipare alla competizione elettorale.
Da un lato, la borghesia dominante vuole escludere preventivamente qualsiasi possibilità – per altro remota, visto l’attuale stato di debolezza e frammentazione del movimento operaio -, di un futuro ritorno della rappresentanza del conflitto di classe nelle aule parlamentari. La riduzione dei rappresentanti eleggibili, infatti, anche in concomitanza con una nuova legge elettorale proporzionale, porterebbe a una soglia di sbarramento effettiva molto elevata. Dall’altro lato, l’intenzione è quella di ridurre qualsiasi spazio di mediazione anche con settori marginali di borghesia e di capitale non monopolistico che sono portatori di interessi potenzialmente in contrasto con quelli dominanti. La riduzione dei parlamentari colpirebbe, infatti, anche tutta la pletora dei partitini borghesi e la loro capacità di condizionare la formazione delle maggioranze di governo. In questo modo, la governabilità da parte del grande capitale sarebbe assicurata, o almeno così qualcuno crede. È a questo disegno reazionario che si sono allineati il M5S, il PD e gli altri fautori del Sì.
Non riteniamo che la via parlamentare sia l’unica, né la principale, via percorribile per la conquista del potere da parte della classe operaia, ma Lenin e Stalin ci hanno insegnato che i comunisti devono saper combattere su qualsiasi terreno, anche su quello parlamentare. La democrazia borghese è solo una delle possibili forme della dittatura del capitale, ma qualsiasi involuzione reazionaria dello stato borghese, qualsiasi limitazione anche della democrazia formale, non può lasciarci indifferenti, in quanto rappresenterebbe comunque un arretramento e un peggioramento delle condizioni in cui il movimento operaio si troverebbe a lottare.
Non è la difesa astratta della costituzione borghese, bensì l’esigenza di evitare un ulteriore arretramento delle condizioni di lotta che motiva il nostro NO convinto al referendum sulla legge costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari.
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[1]https://argomenti.ilsole24ore.com/parolechiave/costi-politica.html
[2]https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2020/05/04/news/continuiamo-a-fare-armi-ma-siamo-senza-respiratori-per-il-2020-oltre-26-miliardi-in-spese-militari-1.347903
[3]Osservatorio Conti Pubblici Italiani, Università Cattolica, in https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-i-trasferimenti-settoriali-alle-imprese-nel-bilancio-dello-stato-2019
[4]https://www.icostidellachiesa.it/i-costi-pubblici-della-chiesa/, a cura dell’UAAR
[5]III Rapporto UIL “I Costi della Politica“, pag.9, dicembre 2013
[6]Ibidem, pag. 6
[7]http://www.repubblica.it/economia/2019/07/24/news/quanto_si_risparmia_davvero_con_il_taglio_del_numero_dei_parlamentari_-231936717/
[8]https://www.money.it/Quanto-costa-fare-referendum-spesa-superiore-tagli-colpa-Covid
[9]https://www.ilsole24ore.com/art/fino-600-giorni-l-ok-una-legge-traguardo-solo-5percento-proposte-AEXCv2rD
[10]Fonti: EUROSTAT, Population on January 1st, last update 03/07/2020 e INTER-PARLIAMENTARY UNION, http://archive.ipu.org/parline-e/parlinesearch.asp, nostra elaborazione
[11]http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/votazioni/89_22.htm
[12]https://documenti.camera.it/apps/votazioni/votazionitutte/schedaVotazione.asp Legislatura=18&RifVotazione=172_1&tipo=dettaglio
[13]http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/votazioni/132_1.htm
[14]https://documenti.camera.it/apps/votazioni/Votazionitutte/schedaVotazione.asp?Legislatura=18&RifVotazione=234_1&tipo=gruppi
[15]https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/08/22/crisi-di-governo-i-3-paletti-di-zingaretti-per-trattativa-col-m5s-stop-taglio-dei-parlamentari-renziani-vuole-far-saltare-laccordo/5402649/
[16]https://www.adnkronos.com/fatti/politica/2019/08/28/conte-bis-accordo_nFZMMNQbUT3iMsgFH3wP7N.html
[17]Citazione dal comizio di Zingaretti alla Festa de L’Unità, Modena, 13 giugno 2020.
[18]https://www.repubblica.it/politica/2020/09/03/news/cgil_boccia_referendum_ma_liberta_voto-266165745/
[19]Il Club Bilderberg è una conferenza annuale, chiusa e ristretta a poco più di un centinaio di esponenti di spicco del capitale finanziario e della politica, istituita nel 1954 da David Rockfeller. Per l’Italia ne fanno parte John Elkann, presidente di FCA e Lilli Gruber, giornalista televisiva.
[20]La Commissione Trilaterale è un’organizzazione, portavoce non solo teorico dei circoli imperialistici più reazionari, con grande influenza politica, considerato il peso dei suoi membri, fondata nel 1973 dall’instancabile David Rockfeller. Ne fanno parte, tra gli altri, Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski. Presidente del gruppo italiano è la giornalista televisiva Monica Maggioni, ma la lista degli altri membri italiani, che qui riportiamo, è inquietante e sufficiente a dare un’idea del potere di lobby che questa organizzazione ha: Enrico Cucchiani (ex CEO Intesa Sanpaolo, presidente dell’ospedale San Raffaele di Milano), Ornella Barra (Walgreens), Giampaolo Di Paola (ex Ministro della Difesa), Marta Dassù (ex Viceministro degli Esteri), Gioia Ghezzi (Ferrovie dello Stato), Maria Patrizia Grieco (Enel), Vittorio Grilli (J.P. Morgan), Yoram Gutgeld (commissario spending review), Enrico Letta (ex Premier), Giampiero Massolo (ex capo dei servizi segreti e ora Fincantieri), Carlo Messina (Intesa Sanpaolo), Maurizio Molinari (direttore de La Repubblica ed ex direttore de La Stampa), Andrea Moltrasio (UBI Banca), Gianfelice Rocca (Techint e Assolombarda), Maurizio Sella (Banca Sella) e Marco Tronchetti Provera (Pirelli).