Sette ore è durato il blocco stradale mantenuto con tenacia e volontà di rivalsa dai tirocinanti della pubblica amministrazione calabrese. Alla fine, però, la negoziazione portata avanti attraverso la prefettura ha dato un primo frutto: una delegazione dell’Usb e dei tirocinanti saranno ricevuti al tavolo del Ministro per il Mezzogiorno Giuseppe Provenzano per parlare dell’unica richiesta dei lavoratori, senza intenzione di compromessi al ribasso: la stabilizzazione a tempo indeterminato.
Della condizione dei tirocinanti della PA avevamo già parlato. In questo caso si potrebbe essere parlare di “caporalato amministrativo”, che permette alla politica locale di utilizzare promesse di rinnovi contrattuali ogni anno a fini elettorali, rendendo precario un lavoro nei fatti equivalente a quello dei dipendenti pubblici. Nei fatti però i tirocinanti non posseggono neanche un contratto di lavoro, e perciò sarebbe improprio parlare di stabilizzazione. Quello che i lavoratori richiedono è il riconoscimento dei dieci anni di esperienza attraverso una corsia adeguata per l’assunzione a tempo indeterminato.
È la prima volta da molto tempo che nella regione calabrese si giunge ad un risultato immediato nella richiesta di una interlocuzione istituzionale, ed è solo merito del conflitto e della tenacia dei lavoratori che creando un disservizio materiale in un ambito sotto le responsabilità di amministrazione e prefettura, ha spinto queste ultime a venire a patti in maniera istantanea. Il blocco della strada statale che collega l’autostrada A2 all’aeroporto di Lamezia Terme, unico aeroporto della regione, è stato un gesto risoluto che ha prodotto i suoi frutti. I lavoratori sono consapevoli però che il tavolo concordato è solo un primo passo e servirà all’organizzazione di un incontro successivo con i ministeri interessati, maggiore sarà in questo percorso l’unità dei lavoratori e maggiore sarà la pressione esercitata su queste istituzioni.
Ma questa esperienza è già abbastanza istruttiva e dimostra l’importanza di contrapporre, agli attacchi padronali e al peggioramento delle condizioni lavorative, una risposta conflittuale e non passiva. Negli ultimi anni, al contrario, ad una crescente offensiva padronale è corrisposta una maggiore disorganizzazione dei lavoratori e una generale riduzione delle lotte.
L’abdicazione del proprio ruolo da parte dei sindacati maggiori e la loro trasformazione in sindacati in larga parte funzionali agli interessi padronali è ben sintetizzata nell’assenza dalle piazze, come avvenuto nel caso dell’approvazione del Jobs Act quando furono convocate dalla CGIL solo 3 ore di sciopero simbolico. La tendenza ad una minore frequenza ed incisività degli scioperi è presente ormai da molti anni e ha trovato il suo picco con la riduzione del 75 percento delle ore scioperate tra il decennio 1980-89 e quello successivo.
Il fenomeno è generalizzato e non solamente italiano, insieme ad una sempre maggiore parcellizzazione e precarietà del lavoro, sta contribuendo ad uno scollamento generale dei lavoratori dal sindacato. In Europa gli iscritti al sindacato sono passati dai circa 52 milioni del 1990 ai 37 milioni nel 2015, con un calo dunque di quasi il 30%. A cui si aggiunge un progressivo aumento dell’età media degli iscritti. In CGIL, ad esempio, la componente dei pensionati è elevatissima e sfiora il 50% del totale degli iscritti. Oggi in Italia il tasso di sindacalizzazione – ossia, il rapporto tra il numero dei lavoratori tesserati rispetto al totale degli occupati- risulta poco sopra il 30%, sotto anche alla media europea.
A questa tendenza, che rischia di portare alla sostituzione del sindacato con la totale disorganizzazione dei lavoratori, stanno rispondendo tutte quelle realtà del sindacalismo di base che, nonostante limiti e difficoltà, si oppongono al sindacato come strumento di concertazione, che porta al disarmo dei lavoratori nella ricerca di conciliare interessi inconciliabili.
Al contrario, la via di un aumento della conflittualità sociale è una componente essenziale per fare in modo che la crisi economica legata all’emergenza Covid-19 non ricada ulteriormente sulle spalle dei lavoratori.