La risposta popolare alla violenza dei piani di rientro sanitari
Il trasferimento definitivo del reparto di urologia dal nosocomio di Tropea a quello di Vibo Valentia è stato il casus belli che ha dato il via alla protesta che si è tenuta domenica 25 ottobre davanti al presidio tropeano. Il trasferimento risponde al “regolare” riparto di competenze regionali istituito dal piano di rientro sanitario, ma il merito delle realtà popolari che hanno dato vita alla manifestazione è stato quello di inscrivere la problematica specifica dentro al contesto generale dell’aziendalizzazione da decenni imperante nel Sistema Sanitario Nazionale. I numerosi interventi di specialisti hanno individuato le reali cause del disfacimento della medicina territoriale nei tagli lineari alla sanità e nell’iniquità territoriale, seguita soprattutto, all’istituzione del federalismo fiscale.
Ci sono due ordini di problemi per quanto riguarda i “piccoli” ospedali. Il primo e più immediato concerne la non implementazione delle direttive delle ASP (aziende sanitarie provinciali) e dei decreti del Commissario ad acta regionale. Infatti, è almeno dal 2016 che l’ospedale di Tropea è stato istituito come ospedale generale nella distribuzione di competenze che ricalca la strutturazione di un “centro con raggi” con l’obiettivo di razionalizzare la spesa sanitaria (terminologia utilizzata, spesso, per edulcorare una diminuzione dei servizi sic et simpliciter).
Secondo questa strutturazione la suddivisione di competenze è divisa tra i centri ospedalieri principali, gli hub (che in Calabria sono tre), i presidi “provinciali”, gli spoke (come quello di Vibo Valentia) e gli ospedali generali (spesso luoghi di primo soccorso arricchiti dei reparti più adeguati all’assistenza emergenziale e alle esigenze specifiche del territorio). Quello di Tropea, nonostante sia considerato un ospedale generale, non ha mai ricevuto l’implementazione dei reparti necessaria a rispettare le direttive, come avvenuto in molti altri presidi territoriali.
I motivi che hanno portato alla mancanza nell’implementazione dei reparti sono molteplici, e di essi i lavoratori e gli utenti degli ospedali sono generalmente già coscienti.
Vi è il disinteresse politico e dirigenziale ad applicare certe misure, dovuto alla commistione della politica e della dirigenza pubblica con la sanità privata, che è la vera beneficiaria dell’inefficienza del pubblico.
Secondo il bilancio consuntivo del 2018, infatti, l’ASP di Vibo Valentia ha speso più di 23 milioni di euro per l’acquisto di prestazioni dalle cliniche convenzionate (e circa 26 milioni per far curare i suoi pazienti fuori regione). Una tale somma è pari al costo annuale dello staff sanitario e degli acquisti di beni dei presidi ospedalieri di Tropea e di Serra San Bruno sommati insieme. In altre parole, con un investimento iniziale (il costo del quale è preso a pretesto per delegare sempre più i servizi al privato), l’ASP di Vibo potrebbe affrancarsi dal ricorso alle cliniche private e quasi raddoppiare, con i soldi che oggi vengono dati al privato, l’operatività dei due ospedali pubblici minori. La situazione è simile nelle altre ASP: in totale nel 2018 la regione Calabria ha speso circa 420 milioni per la sanità privata. Vi è, poi, l’incapacità di molte ASP di istituire concorsi pubblici che diano immediatamente frutti rispetto alle assunzioni, conseguenza del fatto che molti professionisti rifiutano di lavorare in strutture, come quelle di Vibo Valentia, con strumentazioni fatiscenti.
Il secondo ordine di problemi per i “piccoli” ospedali è, poi, la cornice entro la quale si situa la struttura del riparto regionale. Tematica sollevata dalle sigle sindacali, come l’USB, che hanno contribuito a promuovere la manifestazione, dai comitati popolari come Auser e l’associazione pro-ospedale e dai militanti del Fronte della Gioventù Comunista.
Il primo effetto dell’aziendalismo strutturale del SSN, infatti, come abbiamo accennato, è il feticismo della “razionalizzazione” dei servizi al fine di minimizzare gli “sprechi” (ineluttabili senza l’eliminazione degli interessi incrociati con le imprese private presenti nella dirigenza responsabile degli acquisti e dei concorsi). Si finisce per anteporre la salvaguardia dalle spese inutili alla vita delle persone.
Uno degli strumenti con cui si attua la riduzione del pericolo di spreco è l’arbitraria distinzione fra zone centrali e zone “periferiche”. Quanto questa distinzione sia spesso aleatoria e corrispondente a interessi da parte dei centri di potere lo dimostra il caso stesso di Tropea, dotata ormai di fatto, di poco più di un pronto soccorso ma con una presenza di popolazione e turisti molto alta nei mesi estivi. I numeri sciorinati dal Piano Regionale di Sviluppo Turistico della Regione Calabria del 2019 mostrano come l’82,3% degli arrivi turistici totali della regione e il 91,4% delle presenze totali si concentra nelle località marine (di tutte le province) ed il 51,6% delle presenze totali si concentra nelle località marine del Tirreno, di cui il 53,1% afferisce alla provincia di Vibo Valentia. Si parla di 381.317 arrivi e 2.476.086 presenze nell’anno 2017, visibilmente in aumento negli anni successivi. Tra i primi venti comuni per presenze turistiche della Calabria, ben sei riguardano un territorio che usufruisce dell’ospedale di Tropea. Solo astraendo da questi numeri si può fare una distinzione territoriale fra centro e periferia.
Il problema più clamoroso è, tuttavia, che l’aziendalizzazione del SSN sfocia nella finanziarizzazione tout court. Infatti, nel riparto dei fondi sanitari perequativi nazionali per le regioni, si considera, in parte, come criterio, la spesa storica (ovviamente più bassa al Sud) e ove questo non accade, il calcolo dei fondi necessari per erogare i LEA è realizzato con una media pro-capite pesata per età, non pesata per la diffusione delle malattie sul territorio (molto maggiore in regioni come la Calabria).
Tutto ciò è anche tristemente incostituzionale (art. 3 e art.119). Le differenze di spesa pro-capite fra Regioni settentrionali (e in particolare quelle a statuto speciale) e meridionali rimane davvero importante: fra la Valle d’Aosta e la Campania il differenziale di spesa è del 53,8% (€ 3.169 per cittadino nella prima verso € 2.061 nella seconda). Anche eliminando l’effetto demografico (nelle Regioni del Nord si spende di più anche perché la popolazione è mediamente più vecchia) si conferma il dato: fra la Valle d’Aosta e la Campania il differenziale di spesa rimane del 48,3% (€ 3.184 vs. € 2.147).
Tutto ciò è soprattutto frutto del federalismo fiscale che, insieme ai noti tagli lineari (37 miliardi negli ultimi 10 anni) che hanno colpito il SSN, ha reso possibile l’applicabilità dei piani di rientro sanitari, i quali sono stati istituiti a seguito della regionalizzazione del finanziamento sanitario per trasformare le regioni più deboli in “più colpevoli”.
La Calabria subisce un folle piano di rientro a conseguenza del quale le classi svantaggiate della regione pagano lo 0,30% in più di Irpef, nonché una maggiorazione delle accise per la benzina e dei ticket e il rimborso del prestito concesso dal governo alla Regione, comprensivo di interessi da usura: dal 2011 (e continuerà fino al 2040) la Regione sborsa una rata annuale da 30,7 milioni a un tasso annuo del 5,89%. Il nostro governo spende decine di miliardi all’anno in interessi ai creditori privati e pretende, a sua volta, interessi dalle regioni (attualmente cinque volte superiori a quelli medi sui titoli di Stato). Questo circolo è funzionale al drenaggio di valore verso grosse imprese industriali sussidiate e istituti di credito.
Ma la problematica che dimostra più di tutte l’aziendalismo odierno del SSN è quella degli operatori sanitari, del precariato storico che si è venuto a creare intorno agli ospedali calabresi. Personale assunto con contratto a tempo determinato, poiché le assunzioni a tempo indeterminato erano bloccate a causa del commissariamento della sanità della Regione Calabria (dopo 10 anni di commissariamento la sanità calabrese ha perso 3700 unità lavorative). Alcuni dei precari più vecchi hanno cominciato a lavorare perfino otto anni fa, altri svolgono le loro mansioni da 3 anni, altri ancora da un paio d’anni. L’Usb ha iniziato la sua battaglia sindacale con 50 di essi, che erano stati licenziati in base all’art. 57 del Ccnl, che prevede che non si possano fare più di 48 mesi di lavoro a tempo determinato presso la stessa azienda ospedaliera sanitaria provinciale. Una regola che avrebbe anche una sua ratio, se solo ci fosse l’obbligo di assunzione finito il periodo di precariato. Dopo una vertenza abbastanza lunga che fin dall’Agosto 2019 ha incluso presidi, sit-in, cortei e, addirittura, l’occupazione dell’azienda sanitaria di Catanzaro, l’Usb riuscì a sbloccare la partita. Dopo numerosi incontri col Ministro, si è riusciti a fare inserire nel quadro della Legge di Bilancio l’estensione (da fine 2017 al 31 Dicembre 2019, portata poi al 2020) alle aziende sanitarie dell’articolo della Legge Madia che prevede che dopo 36 mesi di collaborazione il dipendente ha diritto alla stabilizzazione, a patto che il lavoro non sia intermediato – il che non è garantito, perché le aziende spesso puntano all’intermediazione allo scopo di derogare al Ccnl. Adesso la palla passa alle Regioni, che avranno tempo fino al 2022 per stabilizzare i precari emanando contratti a tempo indeterminato.
Questo ulteriore passaggio è prodotto dalla frammentazione del SSN in 20 sistemi regionali differenti e sembra creato ad hoc per fomentare il “clientelismo istituzionale” conseguente al precariato: i fondi per fare le assunzioni a tempo indeterminato sono già di fatto storicizzati per via della spesa annuale per i contratti a tempo determinato, non si capisce la difficoltà di stanziare gli stessi fondi sotto forma di contratti a tempo indeterminato.
Il problema riguarda ora anche i precari Covid, i quali sono spesso operatori sanitari già assunti ma che sono stati finanziati con i fondi contro la pandemia. Il fatto è che, attualmente, il Commissario ad acta Saverio Cotticelli e il responsabile per l’emergenza Covid Antonio Belcastro non hanno intenzione di dare l’ok per lo sblocco dei fondi da utilizzare per la proroga dei contratti, costringendo l’ASP di Catanzaro a prorogare i contratti a debito.
I delegati sindacali dell’USB e molti lavoratori del comparto informati di queste problematiche, come il dottor Giacinto Nanci dell’associazione Mediass di Catanzaro, hanno animato la manifestazione di Tropea spiegando alla popolazione presente i dettagli di tutte queste ingiustizie sociali, riuscendo a trasformare una rivendicazione localistica in una presa di coscienza collettiva delle cause di fondo dei problemi che hanno di fatto sospeso il diritto alla salute.
Il risultato del presidio è stato la formazione spontanea di un collettivo di associazioni popolari e sindacati di base allo scopo di costruire finalmente una campagna di portata regionale che affronti, attraverso azioni conflittuali popolari, la violenza del piano di rientro sanitario.