Metalmeccanici in movimento. Note dall’assemblea dell’opposizione FIOM
Il 5 Novembre FIOM, FIM e UILM hanno dichiarato sciopero generale nel settore metalmeccanico dopo la chiusura unilaterale della trattativa per il rinnovo del CCNL del settore da parte di Federmeccanica. È bastata infatti la dichiarazione dello stato di agitazione da parte dei confederali di fronte all’indisponibilità della parte datoriale di discutere miglioramenti economici, per indispettire quest’ultima al punto da farle abbandonare il tavolo.
Con questo atto di forza, Confindustria dà il via a un attacco alla contrattazione collettiva nel pieno di una tornata contrattuale che coinvolge più di 50 contratti nazionali già scaduti, segnando un ulteriore passo verso la precarizzazione definitiva del mondo lavoro. Nel portarlo avanti i padroni si trovano la strada spianata grazie al comportamento tenuto dai confederali stessi negli ultimi anni.
Su tutte, la firma del “Patto per la Fabbrica” del 2018, che di fatto vincola gli aumenti del salario agli aumenti della produttività della singola azienda. E per quanto riguarda in particolare il settore dei metalmeccanici, il pessimo rinnovo del contratto del 2016 in cui i famosi aumenti salariali si risolsero nell’equivalente di un caffè al giorno e per il resto nel detassato welfare aziendale, che in prospettiva – chissà – potrebbe pure sostituire il fiscalmente oneroso welfare pubblico.
Ora che si raccoglie quanto seminato però i frutti sono così avvelenati che anche le dirigenze sindacali sono state costrette a reagire. Chi aveva da sempre messo in guardia contro un esito del genere – sia provando a contrastare il precedente CCNL che criticando aspramente il “Patto per la Fabbrica” – è l’area di opposizione interna della CGIL. All’epoca si chiamava “Il sindacato è un’altra cosa”, oggi “Riconquistiamo tutto!”. Il suo scopo però non è quello di mettersi in cattedra e dire “ve l’avevamo detto”, come ribadito con chiarezza dalla sua portavoce Eliana Como all’assemblea dei delegati FIOM dell’area di opposizione nella riunione telematica che hanno avuto Lunedì 26. Piuttosto è quello di capire come intervenire su questo fronte caldo in questo momento. Su questo si sono concentrati gran parte degli interventi di quest’assemblea a cui abbiamo partecipato grazie alla disponibilità dei compagni.
Prima un passo indietro. Le aziende metalmeccaniche valgono un pezzo fondamentale di economia italiana, determinano metà dell’export e sono ciò che rendono il nostro Paese la seconda potenza industriale d’Europa e non invece una “colonia della Germania”, come vorrebbe tanto vittimismo piccolo-borghese che purtroppo fa breccia pure a sinistra. Per questo sono quelle che Confindustria e Governo volevano aperte a tutti i costi, anche quello di ritardare le indispensabili misure di contenimento che avrebbero evitato migliaia di morti di Lombardia e le misure ancora più drastiche che poi sono state prese in tutto il Paese.
I metalmeccanici sono invece quelli che dovevano essere mandati al macello ma che l’hanno rifiutato. Sono quelli che a Marzo e Aprile hanno lanciato una serie di scioperi, per lo più spontanei, da cui è nato il famigerato protocollo di sicurezza sul lavoro e che hanno costretto alla chiusura di molte produzioni non essenziali.
Sono tra quelli che hanno sofferto di più non solo gli effetti sanitari ma anche quelli economici della pandemia, tra licenziamenti dei precari (che ci sono anche in questo settore), cassa integrazione (spesso in ritardo) e minaccia di ulteriori licenziamenti appena verrà tolto il blocco. Ma sono anche tra quelli che più li hanno combattuti. E l’area di opposizione “Riconquistiamo Tutto!” ha avuto un suo ruolo importante, vantando un discreto radicamento proprio nelle fabbriche delle zone più colpite (come Bergamo). Per questo la discussione non poteva che partire dal quadro generale della pandemia, che vede la sua seconda ondata proprio mentre scoppia questa nuova mobilitazione.
“Un clima surreale” in cui scioperare l’ha definito la segretaria FIOM Re David, con parole che sono state riprese dal delegato della GKN di Firenze, che però da questo traeva la necessità di inserirsi più radicalmente nel contesto politico generale. Toccando il tema del blocco dei licenziamenti, del reddito per chi non lavora a causa del lockdown e delle misure di ridistribuzione della ricchezza con cui finanziare quelle sanitarie e sociali necessarie al contenimento dell’epidemia. Di modo che la mobilitazione non subisca semplicemente il clima, ma lo cambi. Cosa resa ancor più difficile dal rapporto che lega la CGIL a un governo a metà PD (e in piccola parte LeU), contro cui la segreteria non deciderà mai di scagliarsi e su cui anzi si è fatta illusioni di poter essere ascoltata più di quanto non lo sia Confindustria. Col risultato di non insistere perché fossero attuate le misure necessarie a evitare una seconda ondata quando questo era possibile. Anche la CGIL porta la sua responsabilità nella situazione attuale, come fatto notare da molti interventi tra cui anche quello di apertura della portavoce.
Contraddizioni, queste, che pesano ovviamente anche riguardo gli sviluppi della mobilitazione sul rinnovo contrattuale. In due modi: innanzitutto sull’effettiva disponibilità alla lotta da parte della FIOM, e ancor di più di FIM e UILM. Come fatto notare da molti interventi, il rischio che le ultime due si sgancino alla prima concessione di facciata da parte di Federmeccanica è altissimo. E lo stesso potrebbe accadere con la FIOM, magari di fronte alla proposta di un contenuto aumento salariale finanziato attraverso la detassazione del lavoro (o “abbattimento del cuneo fiscale”, come piace chiamarlo ai giornali borghesi). In questo senso si è più volte ribadito che l’area di opposizione non accetterebbe mai un aumento salariale che ricada sul bilancio dello Stato e quindi in ultima istanza sui lavoratori nella forma di taglio ai servizi.
Ma le contraddizioni dei sindacati confederali pesano anche in un altro senso, paradossalmente opposto. Cioè nella scarsissima credibilità che hanno nell’invitare e ancor di più nel guidare una mobilitazione qualora anche lo volessero, come più volte sottolineato. Solo che più che la radicalità, questa situazione alimenta la diffidenza e lo sconforto tra i lavoratori, dietro cui poi si mascherano le stesse dirigenze sindacali per giustificare la propria arrendevolezza.
Un circolo vizioso che aggrava una situazione già complessa in cui scioperare sembra tanto ovvio e necessario quanto difficile e lontano. C’è il salario da recuperare dopo mesi di cassa integrazione, la paura di perdere quel poco che si ha, la sensazione di essere comunque fortunati in mezzo a tanta disperazione e la voglia che tutto torni alla normalità. Il tutto poi trova spesso sfogo in un massimalismo verbale (“bisogna prendere i fucili!”) che diventa un ulteriore alibi per l’inazione (“finché non spariamo io non mi muovo”). Gli interventi dai territori riflettevano questi contrasti. Alcune voci, ad esempio da Parma o Forlì, sottolineavano la difficoltà di convincere i propri colleghi a scioperare. Altre, ad esempio da Bergamo, sottolineavano l’ottima riuscita degli scioperi degli straordinari già in corso, e l’inquietudine dei padroni di aziende che stanno lavorando a pieno ritmo per tentare di recuperare ciò che hanno perso nei mesi scorsi (un compagno citava le numerose chiamate preoccupate ricevute – “ma come ci scioperate proprio adesso che c’è lavoro!” – a cui rispondeva con un semplice invito: “ditelo a Federmeccanica”).
Il problema allora non è che le ore di sciopero chiamate dalle dirigenze siano solo quattro. Posto che nelle aziende dove si riesce lo sciopero potrà essere di tutta la giornata, la questione vera sta nel modo in cui si da gambe a una mobilitazione che deve durare e convincere.
Come spiegato benissimo dal delegato della GKN, intervistato anche nel nostro sito, le dirigenze opportuniste oscillano secondo le convenienze del momento e, come avessero un interruttore, pretendono di accendere e spegnere le mobilitazioni a seconda del problema del momento, senza preoccuparsi di far maturare una coscienza generale nella classe e sviluppare una strategia di lungo periodo. Al limite sono anche disposte a scagliare gli operai contro il muro padronale, travestendosi all’improvviso di conflittualità dopo interi periodi di compromessi al ribasso. Per questo il compito delle avanguardie non è quello di pretendere sempre e comunque un surplus di conflitto, agitando slogan massimalisti. Ma quello di adeguare il conflitto alle condizioni reali e al contempo lavorare per cambiare queste stesse condizioni, facendole avanzare.
Per fare questo serve credibilità e radicamento, come ribadito in più interventi. Il lavoro quotidiano in fabbrica è indispensabile e spesso può fare leva su strumenti, anche normativi, che rappresentano il precipitato di passate mobilitazioni e che spesso gli stessi rappresentanti sindacali non conoscono o sottovalutano. Mentre si lotta per cambiare il quadro normativo in meglio o per resistere a cambiamenti in peggio, bisogna sfruttare al massimo ciò che si ha. Lo sa bene Augustin Breda, dell’Electrolux, reduce da un licenziamento ritorsivo che si è concluso con il suo reintegro dopo una lunga battaglia sindacale e legale. Non è solo un discorso di tattica e strategia interna, su cui ovviamente non ci permettiamo di intervenire e che ci limitiamo a menzionare, senza riportare nei dettagli il ricco dibattito. Né un monito generale sull’importanza del radicamento, che comunque è fondamentale che i rivoluzionari tengano sempre a mente. È qualcosa che ha grande rilevanza proprio per la fase che sta attraversando il maggior sindacato d’Italia. La famosa anomalia FIOM, quella non pienamente allineata alla strategia concertativa della casa madre, quella dei contratti separati, quella della tenace battaglia contro Marchionne, è morta con la firma del precedente CCNL, che ne ha segnato il definitivo rientro nei ranghi. Anzi, è proprio diventata il “fanalino di coda” a livello conflittuale, secondo un delegato di Vercelli.
In cambio della sua “cgiellizzazione” ha però ottenuto una “fiommizzazione” di facciata della CGIL, con la nomina a segretario generale dell’ex-protagonista di quelle lotte, Landini.
Ma una cosa è essere battaglieri a parole, riempiendo – spesso molto bene – il vuoto politico lasciato dall’assenza di qualsiasi ipotesi sodicaldemocratica nel dibattito pubblico. Un’altra è la strategia sindacale, che si pone in assoluta continuità con le gestioni precedenti. Questa contraddizione può tradursi in delusione e scoramento tra la base che ha creduto in un cambio di passo, ma apre anche praterie per proposte radicali, a patto che queste abbiano credibilità.
Un primo importante banco di prova è proprio questa battaglia per il rinnovo contrattuale. Che tra l’altro ha la possibilità di aprire un problema dentro Confindustria stessa. Nonostante appaia – e per tanti versi sia – uno spietato monolite, l’associazione degli industriali ha i suoi malumori interni. Non tutti condividono la strategia di attacco frontale del neo-presidente Bonomi: la sua brutalità rischia di compattare il fronte sindacale proprio nel pieno di un crescente disagio sociale. Questo vuol dire però che se quello al CCNL dei metalmeccanici è un attacco al mondo del lavoro tutto, allo stesso tempo un eventuale contrattacco rappresenterebbe un colpo importante al mondo imprenditoriale.
Si tratta però di avere la capacità di approfittarne. E qui veniamo a quello che ci riguarda più direttamente. Dopo aver animato diverse polemiche nei giorni scorsi, il Fronte Unico di Classe è stato argomento di ulteriore dibattito durante l’assemblea.
Che in sostanza ha sottolineato l’importanza di momenti di convergenza nelle lotte, come avvenuto ad esempio a Firenze Venerdì 23, con lo sciopero della GKN in solidarietà a quello della logistica del SiCobas. Ma anche ribadito la cautela nell’affacciarsi in percorsi inter-sindacali, a volte promossi dalla stessa area di opposizione della CGIL, che nel passato hanno mostrato molti limiti e che una volta hanno anche causato danni interni, come la perdita dell’ex-portavoce Bellavita, poi passato a USB, da cui si è di recente dimesso.
Queste diffidenze, a cui ovviamente si sovrappongono anche diverse sensibilità politiche, non sono destinate a scomparire grazie ad appelli alla buona volontà, né tantomeno attraverso reciproche accuse. Un buon contributo può venire dal lavoro congiunto su alcune battaglie, a partire proprio da questa per il rinnovo contrattuale, che è nell’interessi di tutti, davvero di tutti, far riuscire al meglio.