Lo sciopero è riuscito, dichiarano FIOM, FILM e UILM che l’hanno indetto. Così sembrano in effetti indicare i dati citati da vari giornali locali: si parla ad esempio dell’80% di adesioni in provincia di Bergamo e di dati uguali o paragonabili in quella di Torino, di Genova o in Umbria. Ma anche dalle Marche, da Cuneo, Rimini, Forlì, e più o meno ovunque si vada a spulciare la notizia, quello che emerge è un’adesione più che soddisfacente.
Si tratta ovviamente di dati parziali, forniti dagli stessi sindacati e influenzati dal fatto che a essere citate sono aziende in cui sono già presenti iscritti e delegati e in cui quindi l’adesione è più alta. Mancano probabilmente quelle in cui i sindacati sono assenti e in cui verosimilmente si è scioperato molto meno. Però sono confortati anche da quanto ci viene riportato in alcuni contesti in cui siamo stati presenti o abbiamo rapporti diretti.
In molte aziende, inoltre, lo sciopero è andato oltre le quattro ore minime chiamate dagli organizzatori, arrivando a sei e otto ore.
Per quanto la sua riuscita indichi un relativo radicamento dei sindacati confederali in uno zoccolo duro della classe operaia italiana, più che grazie a loro, verrebbe da dire che lo sciopero sia riuscito nonostante loro. Nonostante la firma del precedente CCNL, che praticamente non prevedeva aumenti salariali, nonostante la sigla dello scellerato Patto di Fabbrica che pure vincolava gli aumenti a quelli del costo della vita misurato dall’indice IPCA (che esclude quelli dei beni energetici).
I frutti avvelenati di questa “strategia” (per meglio dire capitolazione) sindacale, sono quelli contro cui oggi i confederali sono costretti a reagire, pena la perdita totale della faccia davanti ai propri iscritti e il rischio che la Confindustria dello spietato neo-presidente Bonomi li travolga del tutto. Aver però legittimato e spacciato per vittorie accordi analoghi a quelli contro cui oggi si mobilitano, rende poco credibile il loro impegno attuale e ha ulteriormente logorato l’infrastruttura organizzativa – per non parlare della cultura sindacale – necessaria a passare dal compromesso alla lotta, anche se solamente di facciata. Che nonostante questo gli scioperi abbiano funzionato significa che è grande la frustrazione tra i metalmeccanici e che questa anziché esaurirsi in malumori passivi può tradursi in mobilitazione.
Il risultato colpisce se si pensa anche al clima che circonda questa mobilitazione. Nel mese che è passato dalla sua convocazione il Paese è cambiato, ripiombando nell’incubo dell’emergenza di marzo e aprile. Le ricadute sanitarie ed economiche della pandemia, il disagio sociale che ha fatto esplodere, inducono a sentirsi fortunati anche solo a essere vivi e avere un lavoro. L’emergenza restringe gli orizzonti, soffoca la lotta. Il clima in cui si sciopera diventa “surreale”, come lo ha definito la segretaria FIOM Re David. E ci è voluto poco perché i padroni definissero surreale lo sciopero stesso, “in questo momento in cui la continuità dell’industria manifatturiera è uno dei pochi punti fermi su cui contare nel disastro economico che si annuncia” come scrive Dario Di Vico nel suo editoriale sul Corriere della Sera, che invita “a non mettere troppa distanza tra le rivendicazioni delle confederazioni e il sentire comune del Paese”. Ma se la distanza va colmata è nel senso opposto. È il sentire comune del paese – paralizzato dalla paura e dal rancore, con il contrappunto di esplosioni di rabbia scomposta – a dover essere investito dal messaggio di riscatto rappresentato oggettivamente da una mobilitazione operaia nel suo cuore produttivo. Lo stesso cuore produttivo per cui sono state sacrificate migliaia di vite nel bergamasco e che è stato attraversato da un’ondata di scioperi spontanei perché la sicurezza nel luogo di lavoro fosse tutelata e le produzioni non essenziali chiuse.
Il messaggio è semplice: il lavoro dipendente – che ovviamente include quello finto indipendente e quella fetta di popolazione che entra ed esce dalla disoccupazione – va rispettato. La classe operaia, dichiarata da tempo defunta, si è rivelata essenziale e a essere trattata da carne da macello non ci sta. La crisi la paghino i padroni.
Il più grande limite di questo sciopero allora è stato non riuscire a far giungere il proprio messaggio al resto dei lavoratori del Paese. Non era facile, anche a causa delle limitazioni dovute ai nuovi DPCM, che hanno reso pressoché impossibile manifestare, anche per l’uso furbo che ne hanno fatto alcune questure in senso repressivo. Ad esempio a Prato, dove è stato impedito addirittura un corteo in auto come ci ha raccontato un delegato della GKN di Firenze (mentre invece si è riusciti ad ottenere un presidio sotto Confindustria). E di certo è più importante uno sciopero senza piazze che delle piazze senza sciopero – come ha detto la portavoce dell’opposizione CGIL Eliana Como. Tanto più che i cortei e le manifestazioni di accompagnamento si sono sempre più ridotte negli anni a un puro e semplice rito. Il problema però è proprio lì: ad alcuni è finora andata bene così e anzi così vogliono che sia.
Per CISL e UIL innanzitutto, le mobilitazioni sindacali non sono nient’altro che la parte che gli spetta recitare nel copione concertato con i padroni per canalizzare un po’ di malcontento nei binari del peggiore opportunismo. È sicuro che FIM e UILM non vedano l’ora di potersi sfilare da questo sciopero in cambio di elargizioni minime (o neanche di quelle) e facendosi scudo della scarsa riuscita di qualcosa che non intendono organizzare davvero.
Per quanto riguarda la CGIL, se non c’è la volontà di sabotarlo, non c’è neanche la volontà di fargli fare un salto di qualità. Il CCNL dei metalmeccanici è uno dei tanti in attesa di rinnovo. È il test principale, data la sua importanza simbolica e materiale, della strategia di attacco frontale di Bonomi, che per la sua sfrontatezza sta creando malumori addirittura in alcuni ambienti di Confindustria che temono possa suscitare reazioni incontrollabili nel mondo sindacale. Se per i padroni imporsi su questo fronte è allora determinante e non scontato, ostacolare il loro piano di demolizione dei diritti collettivi dovrebbe essere un obiettivo trasversale alle diverse categorie. Su queste basi, cinque anni fa Landini, allora segretario della FIOM, aveva lanciato lo slogan “Unions!”, a suo dire per “coalizzare” le diverse facce del mondo del lavoro contro la frammentazione e la precarietà che le ricatta e le divide. Oggi che è segretario CGIL e avrebbe il potere di farlo davvero, neanche si degna di chiamare le altre categorie – metalmeccanici in primis – a un’ora di sciopero di solidarietà nei confronti della mobilitazione della settimana prossima per il rinnovo del CCNL multiservizi, un settore dove precarietà e appaltati selvaggi dominano. Il massimalismo verbale ha lasciato il posto al minimalismo sostanziale. Anziché ad associazioni di base e “movimenti”, la coalizione guarda a destra, a CISL e UIL. E la FIOM che Landini ha guidato in questi anni con toni altisonanti ma compromessi sempre più al ribasso si ritrova del tutto impreparata ad affrontare una battaglia che si gioca in un contesto così difficile, come plasticamente dimostrato dallo scarno e triste presidio di piazza Esquilino.
Così il clima non lo si cambia, lo si subisce. E davvero lo sciopero diventa surreale.
Per cambiare il clima servirebbe costruire uno sciopero generale attorno agli interessi comuni del mondo del lavoro: salario, salute, reddito per i disoccupati. Contro una classe padronale che con la crisi si fa sempre più spietata, che parla di Sussidistan mentre si è intascata due terzi degli aiuti elargiti dallo stato per la pandemia, che vuole fabbriche e magazzini aperti a tutti i costi. E contro un governo che l’ha assecondata, limandone giusto qualche asperità per evitare l’esplosione del malcontento sociale, che ha lasciato si coagulasse attorno alle proteste dei piccoli padroncini disposti a sacrificare la salute – quella dei propri dipendenti, ovviamente – sull’altare dell’economia. Che senza investire in sanità pubblica e trasporti, senza pianificare prevenzione e controlli, ci ha fatti ripiombare nel dilemma: morire di povertà o di Covid? Dilemma in cui ovviamente proliferano le varie forme di negazionismo e una cultura che preferisce la morte biologica al fallimento economico.
Ma la presenza nel Governo di un PD de-renzizzato nella forma, è sufficiente alla CGIL per farglielo considerare amico e così la parola d’ordine dello sciopero generale è stata agitata solo per ottenere la proroga del blocco dei licenziamenti. Una proroga indispensabile, ma che mette soltanto una flebile toppa mentre rimanda il problema, preparando un’ecatombe futura. Un provvedimento che i padroni mettono comunque sul conto al lavoro dipendente bloccando le assunzioni e scatenando la solita cagnara mediatica che attribuisce a questa il mancato rinnovo produttivo necessario al rilancio occupazionale. E che sfruttano per dividere il proletariato tra garantiti e precari, tra occupati e disoccupati, come l’ex-presidente dell’INPS Tito Boeri che già in agosto la definiva “un fervido invito ai giovani a lasciare il nostro Paese”. La solita lagna liberista sulle presunte rigidità del mercato del lavoro che danneggiano l’economia, e quindi i lavoratori, che nessuna lagna socialdemocratica sul valore, anche economico, della tutela dei diritti è mai riuscita a fermare.
Per fermarla serve lotta e organizzazione. Uno sciopero come quello di giovedì ha senso nella misura in cui è una tappa di un processo duraturo.
Vedremo come decideranno di portarlo avanti i confederali, posto che nessuna disponibilità a tornare al tavolo di trattativa è venuta da Federmeccanica, che si è limitata a minimizzare lo sciopero, parlando di adesione al 16%. Ma qualsiasi cosa decideranno non colmerà il vuoto che separa i lavoratori metalmeccanici dal resto della classe. Qui devono intervenire le avanguardie sindacali e politiche di questo Paese. Questa lotta può diventare un’occasione per crescere e radicarsi nella classe, per farsi trovare organizzati e pronti a quella successiva.
di Luca De Crescenzo