Crisi del neoliberismo e della globalizzazione come manifestazione della crisi del capitalismo. I cambiamenti epocali del post pandemia
La crisi del Covid-19 è la crisi più grave dalla fine della Seconda guerra mondiale. Secondo Henry Kissinger, forse il più noto politico statunitense vivente e già segretario di stato sotto le presidenze di Nixon e Ford, nulla sarà come prima dopo la pandemia[1]. L’ordine mondiale, ereditato dalla fine della guerra fredda, è in disfacimento. Per questa ragione, i governi previdenti, quello degli Usa in testa, dovrebbero pensare agli assetti futuri globali mentre si occupano di contrastare la pandemia.
In effetti, la pandemia accelera tre tendenze che si manifestavano già da tempo. La prima è la crisi del capitalismo mondiale. La seconda è il mutamento dei rapporti di forza economici tra Occidente e Oriente, in particolare tra gli Usa e i maggiori Paesi dell’Europa occidentale, da una parte, e la Cina, dall’altra. La terza è la crisi del neoliberismo e del suo prodotto maggiore, la globalizzazione, già messa in discussione dalla crisi di egemonia degli Usa e dal crescente protezionismo statale nel commercio mondiale.
Mentre in Occidente ci si deve confrontare con una nuova ondata pandemica, il Covid in Cina sembra solo un ricordo, secondo quanto afferma Milano Finanza, che, al proposito, titola così l’edizione del 12 novembre: “Festeggiano solo i cinesi. Covid: in Italia il Natale è a rischio coprifuoco, nel paese asiatico è boom dei consumi”. Secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale (Fmi), tra le prime dieci economie mondiali, solo la Cina nel 2020 fa registrare, per quanto modesta, una crescita del Pil a prezzi costanti (+1,85%), mentre gli Usa fanno registrare un calo consistente (-4,27%) e l’area euro fa ancora peggio, con la Germania che scende al -5,98%, la Francia al -9,75% e l’Italia al -10,64%. Per gli anni successivi, fino al 2025, il Fmi prevede per la Cina una robusta crescita, che è dalle due a quasi tre volte superiore a quella degli Usa; in Cina nel 2021 la crescita sarà dell’8,23%, mentre gli Usa non riusciranno a riprendersi subito e interamente dalla crisi. Infatti, il “rimbalzo” del Pil statunitense nel 2021 arriverà appena al 3%, con tassi di crescita in diminuzione negli anni seguenti[2]. Anche nell’export, secondo quanto riportato dall’Unctad, solo la Cina fa registrare una crescita congiunturale (rispetto al periodo precedente): passando dal -20% nel primo trimestre del 2020 al +16,9% del secondo trimestre, mentre gli Usa calano del -3,8% nel primo trimestre e del -22,9% del secondo trimestre e, in Europa, la Germania, pur essendo una forte esportatrice mondiale, passa dal -2,89% al -21,6%[3].
Il monito di Henry Kissinger agli Usa
Ad aprile, subito dopo lo scoppio della pandemia, Henry Kissinger ha pubblicato sull’autorevole Wall Street Journal, un articolo molto significativo di che cosa c’è in gioco oggi. Secondo l’anziano politico statunitense, l’epidemia del coronavirus cambierà per sempre l’ordine mondiale. Gli Usa devono proteggere i loro cittadini dal morbo, ma allo stesso tempo iniziare l’urgente lavoro di pianificazione di una nuova epoca. Kissinger è particolarmente preoccupato per la salvaguardia dei principi dell’ordine mondiale liberale. Il mito fondante dei governi moderni – scrive – è una città cinta da mura e protetta da sovrani potenti, qualche volta dispotici, altre volte benevoli, ma sempre forti a sufficienza da proteggere il popolo dal pericolo esterno. Gli illuministi ridefinirono questo concetto, sostenendo che la legittimità di uno stato deriva dalla capacità del governo di provvedere ai bisogni fondamentali del popolo: sicurezza, ordine, benessere economico e giustizia. La pandemia, secondo Kissinger, ha ridato vita a un anacronismo, il revival della città cinta da mura in un’epoca in cui la prosperità dipende dal commercio globale e dal movimento delle persone. Per questa ragione, sempre secondo Kissinger, le democrazie mondiali hanno bisogno di sostenere e difendere i valori illuministici su cui si fondano. Infatti, una ritirata globale dall’equilibrio tra potere e legittimità causerebbe la disintegrazione del contratto sociale sia internamente sia a livello internazionale. Ma la millenaria tematica del rapporto tra legittimità e potere non può essere risolta simultaneamente agli sforzi per vincere la pandemia. È necessaria moderazione su entrambi i lati, sia nella politica interna sia nella diplomazia internazionale. Kissinger conclude con un avvertimento: “Oggi, viviamo un momento epocale. La sfida storica posta dinanzi ai capi di governo è gestire la crisi mentre si costruisce il futuro. Il fallimento potrebbe incendiare il mondo”.
Dietro la retorica del liberalismo, basato sui valori dell’illuminismo, appare evidente in questo breve articolo di Kissinger la preoccupazione per la crisi dell’egemonia imperialista degli Usa, che, oltre a perdere posizioni economiche, patiscono una perdita di legittimità non solo a livello internazionale ma anche a livello nazionale, perché l’incapacità statunitense di far fronte non solo alla pandemia ma anche alle crescenti povertà e polarizzazione sociale interne è evidente ed è dimostrata, ad esempio, dalle recenti proteste del movimento Black Lives Matter. E questo mentre la Cina diventa sempre più forte sul piano economico ed anche sul piano del “soft power”, cioè della capacità egemonica, anche grazie alla sua efficienza nel far fronte alla pandemia, soprattutto se confrontata con le difficoltà in cui si dibattono gli Usa e il resto dei Paesi occidentali. Bisogna, quindi, ricostruire un nuovo ordine mondiale, in cui gli Usa ripensino il loro ruolo egemonico. In caso contrario la situazione potrebbe diventare incandescente. A questo proposito, l’allusione di Kissinger a possibili nuovi conflitti armati, nel caso in cui gli Usa non riescano a imporre un nuovo ordine mondiale, ci sembra abbastanza chiara. Centrale, infine, nel discordo di Kissinger, quando parla del revival della città cinta di mura, è la necessità di far fronte alla crisi della globalizzazione, determinata dal ripristino di nuove mura attorno agli Stati, rappresentate da barriere, tariffarie e non, al libero commercio.
La crisi della globalizzazione e la tendenza verso la regionalizzazione
La pandemia è solo l’ultimo passaggio della rimessa in discussione della evoluzione che il mondo ha attraversato dall’inizio degli anni Novanta con l’incremento del libero commercio e con l’integrazione delle piattaforme economiche – le cosiddette Global Value Chain o catene del valore globale (Cvg) – che vedono i vari passaggi della produzione dislocati in una catena molto lunga e composta di fornitori e subfornitori localizzati in Paesi differenti. I beni intermedi e i semilavorati provenienti dai vari Paesi vengono poi assemblati insieme, dando vita così al prodotto finale. Fra l’altro, una parte molto importante del commercio globale è commercio intra-company, tra filiali della stessa società, che sono poste in Paesi diversi e che collaborano in una divisione internazionale del lavoro.
La pandemia, dunque, si mescola con le guerre commerciali che vanno avanti da diverso tempo, in particolare tra Usa e Cina, ma anche tra Usa e Ue, dando luogo a una riorganizzazione del capitalismo mondiale attraverso la riorganizzazione delle Cvg. La loro riorganizzazione determina la riduzione delle differenze tra la velocità di crescita del Pil globale e del commercio internazionale. Fra 1990 e 1999 il Pil mondiale è cresciuto in media del 3% mentre il commercio internazionale è cresciuto del 6%, tra 2000 e 2009 il Pil globale è aumentato del 3% mentre il commercio mondiale è cresciuto del 4%. Fra 2010 e 2019 entrambe le grandezze sono cresciute del 3%[4].
Le catene del valore si sono ridotte per lunghezza ma si sono “ispessite” cioè sono formate da un numero minore di imprese, che però sono più strutturate, cioè sono in grado di fornire più parti e con un contenuto tecnologico maggiore del prodotto finito.
Per razionalizzare il sistema economico, soprattutto a livello logistico e degli approvvigionamenti, L’Europa, l’Asia e il Nord America generano catene del valore sempre globali, ma con una minore estensione internazionale e dunque con una maggiore caratterizzazione regionale. La produzione viene così rifocalizzata a livello continentale, perché la competizione non è più solo sul prezzo ma anche sulla flessibilità della risposta alla domanda. Per questa ragione le catene della fornitura devono essere più corte e più vicine al mercato finale. Per la medesima ragione si verifica anche una trasformazione del sistema del just in time, basato sul mantenimento delle scorte al minimo, che è stato un caposaldo dell’organizzazione del lavoro mondiale degli ultimi decenni. Le scorte, quindi, non sono più mantenute al livello più basso possibile, perché oggi il problema è quello di garantirsi la sicurezza dell’approvvigionamento, che può venir meno per il verificarsi di eventi come il Covid-19 e per l’instabilità geopolitica, guerre commerciali incluse. Per questa ragione alle imprese può non convenire più produrre in Cina. I settori che sono maggiormente interessati alla riconfigurazione delle Cvg sono soprattutto quelli dell’aerospaziale, della difesa, dell’automotive e dell’approvvigionamento dei beni durevoli.
Angela Merkel recentemente ha rilasciato delle dichiarazioni significative, che confermano quanto abbiamo scritto fino ad ora. Da una parte, ha detto la premier, le imprese tedesche devono diversificare la loro produzione in Asia, prospettando la modifica del rapporto strettissimo che fino ad ora ha legato l’industria tedesca alla Cina, rendendola troppo dipendente da quest’ultima, e, dall’altra parte, ha affermato che bisogna rafforzare le catene intra-europee. Il rafforzamento delle catene intra-europee sta avvenendo da tempo, come dimostrano alcuni indicatori. Il primo è rappresentato dalla quota di valore aggiunto nazionale che viene creato a livello interno e dalla quota del valore aggiunto che viene creata dalla connessione con le catene globali del valore, in particolare con quelle intra-europee. Secondo i dati Wiod, tra 2000 e 2014 la Germania è passata dal 14,3% del valore aggiunto prodotto in Europa al 18,7%, l’Italia è passata dall’11% al 16,5%, e la Francia dal 14,3% al 16,1%. Un altro indicatore è la quota dell’export di beni intermedi che va verso l’Europa sul totale: quella tedesca è passata, tra 2000 e 2018, dal 53,8% al 60,3%, quella francese dal 62,4% al 63,1%, e quella italiana dal 54,4% al 59,5%[5].
L’internazionalizzazione del capitale e la costruzione del mercato mondiale è una tendenza strutturale del capitalismo, che però, in certi periodi storici, è attraversata da controtendenze. Oggi, siamo davanti a una controtendenza che si esprime verso una maggiore “regionalizzazione” della produzione manifatturiera, che a livello mondiale si sostanzierebbe così in tre macro-regioni, una europea, con al centro la Germania, una nord-americana con al centro gli Usa, che hanno rafforzato il Nafta, l’accordo di libero scambio con Messico e Canada, e una asiatica con al centro la Cina.
La crisi del capitale porta a una nuova dialettica tra livello nazionale e livello sovranazionale
In estrema sintesi, riprendendo il senso di quanto affermato da Kissinger, ciò che è in gioco è il ruolo che le singole potenze e le varie frazioni di capitale, a partire dagli Usa, ricopriranno nella divisione internazionale del lavoro nei prossimi decenni. Già prima del Covid, la crisi del modo di produzione capitalistico era in fase avanzata, caratterizzata com’è da una sovraccumulazione di capitale e da una sovrapproduzione di merci sempre più difficile da gestire e manifestatasi nelle ripetute crisi degli ultimi venti anni. La crisi generale si manifesta, però, in modo diverso nelle varie aree economiche mondiali. Ad essere colpite più duramente sono le economie dei Paesi a maggiore sviluppo capitalistico, gli Usa e l’Europa occidentale, cui si aggiunge il Giappone. La crisi, quindi, genera un aumento della competizione intercapitalistica e interimperialistica. Come abbiamo scritto più volte su questo giornale, la conflittualità economica porta a un maggiore protagonismo degli Stati, che, in contrasto con le tendenze neoliberiste precedenti, intervengono direttamente nell’economia. Lo Stato, oltre a fornire sussidi diretti, entra nel capitale delle imprese, sia di quelle in difficoltà sia di quelle che devono acquisire una dimensione maggiore e diventare campioni nazionali (o regionali) per poter affrontare la concorrenza globale.
Ma gli Stati intervengono anche sul funzionamento del mercato, attraverso dazi e barriere non tariffarie per proteggere le loro imprese e i loro apparati industriali dalla concorrenza.
Si favoriscono, a questo scopo, anche le fusioni e le acquisizioni che permettono alle imprese di raggiungere dimensioni maggiori, ma si interviene anche contro le imprese straniere che, come nel caso della Ue nei confronti di Amazon, Apple, Facebook e Google, monopolizzano i rispettivi segmenti di mercato.
A livello globale si registra, quindi, una modificazione dell’ordine globale post guerra fredda e, insieme al rallentamento del commercio globale, si va verso una ristrutturazione della divisione del lavoro internazionale, che, pur conservando le catene globali del valore, le declina in senso maggiormente regionale e, direi, anche nazionale, visto che molti Paesi si muovono nell’ottica di reinternalizzare pezzi dei processi produttivi che erano andati all’estero, come ha fatto Trump durante la sua presidenza. Se è vero che si va verso una maggiore regionalizzazione e, in qualche misura, anche verso una rinazionalizzazione della produzione, si dovrà inevitabilmente anche registrare un aumento delle competizione tra Stati per definire la posizione della propria frazione di capitale nella divisione del lavoro a livello regionale. La fase del modo di produzione capitalistico che si è aperta con il Covid – il quale ha finito per fare da catalizzatore di tutte le tensioni economiche e geopolitiche precedenti-, si articolerà molto probabilmente in una dialettica tra l’aspetto internazionale e nazionale dell’accumulazione di capitale che a livello sovrastrutturale si traduce in una più accentuata dialettica non solo tra gli Stati-nazione ma anche tra Stato-nazione e organismi sovranazionali. Questo significa che, se si vuole intervenire all’interno delle contraddizioni del capitale contemporaneo, bisogna agire insieme sul piano nazionale e su quello sovranazionale, capendo bene le trasformazioni dell’uno e dell’altro e soprattutto l’intreccio che tra i due piani si genera. Ciò è tanto più vero per l’Italia e gli altri Paesi che sono inseriti nella Ue e nell’area euro, che, come abbiamo visto negli ultimi mesi, sono diventate, in modo più chiaro che in passato, arene di scontro tra Stati nazione.
[1] Henry Kissinger, “The Coronavirus Pandemic Will Forever Alter the World”, Wall Street Journal, April 3, 2020.
[2] Imf, database.
[3] Unctad, datacenter.
[4] P. Bricco, Dazi e virus, globalizzazione in ritirata, Il Sole 24 ore, 4 novembre 2020.
[5] P. Bricco, op. cit.