Comprendere la storia passata dei comunisti è un lavoro indispensabile per chiunque voglia impegnarsi per ricostruire un punto di vista rivoluzionario, capace di incidere sulla realtà odierna. Questo è tanto più necessario oggi, nel momento in cui non esiste una situazione rivoluzionaria né, tantomeno, un partito rivoluzionario e si assiste, in occasione del centesimo anniversario della nascita del Pcd’I, a celebrazioni promosse da chi ne nega i contenuti programmatici e gli obiettivi politici.
La ricerca sulle vicende – e sulla fase storica – che portarono alla costituzione del partito comunista va condotta abbandonando le preoccupazioni politiche che hanno avuto la ragion d’essere in scelte sbagliate compiute nel passato e che consideravano la fase che portò alla formazione del Pcd’I come la preistoria della “Storia” del Pci, quale partito nazionale, che aspirò a guidare i partiti occidentali che propugnavano l’accettazione dello status quo delle democrazie borghesi postbelliche, le vie nazionali al socialismo e, poi, l’eurocomunismo.
Comprendere gli sforzi compiuti dai comunisti per costruire il partito significa rinunciare alla mitologia per appropriarsi di un metodo critico, attraverso lo studio di avanzate come di errori, compresi quelli compiuti anche dai più forti combattenti, perché una corretta ricostruzione della storia dei comunisti non consente omissioni, spazi vuoti o compiacenti distorsioni che hanno, invece, caratterizzato lunghi decenni di storiografia revisionista in Italia.
Nella ricostruzione storica del movimento comunista non si tratta di prender parte, in blocco, per un programma o per l’altro, ma, al contrario, di mettere in luce i punti di dissenso e di incontro di programmi e frazioni nel quadro di un contesto storico più generale, che è un quadro sociale, nazionale e internazionale.
La fondazione del Pcd’I fu il risultato di una lunga battaglia contro il riformismo che si è affermata nel corso di lunghi anni, nel secondo decennio del secolo passato, e che si è svolta interamente controcorrente.
Questo articolo si pone il problema di come, in condizioni straordinariamente complicate, si venne formando, all’interno del partito socialista e in collegamento con il movimento comunista internazionale, una posizione critica del riformismo che riuscì a maturare, attraverso un articolato processo, fino alla costituzione del partito rivoluzionario.
Il riformismo non era rappresentato solo da una frazione, che si componeva di autorevoli dirigenti quali Turati e Treves, ma anche da una presenza diffusa a tutti i livelli e in tutte le istanze del partito, all’interno del sindacato e delle istituzioni borghesi.
Il gradualismo, le politiche orientate alla conservazione attraverso il miglioramento delle strutture economiche dominanti, facevano parte di una mentalità presente sin dai primi anni del ‘900, condizionavano tutto il partito e il suo stesso ruolo di organo di direzione del proletariato.
Nel 1914, allo scoppio della guerra, il partito socialista italiano aveva assunto una posizione diversa da quella sostenuta dalla II Internazionale. Il partito socialista, pur non aderendo alla tesi leniniana della trasformazione della guerra tra stati in guerra civile, stabilì una posizione riassunta nella nota formula “Nè aderire né sabotare” che sintetizzava il compromesso raggiunto tra le diverse anime del partito, dove il “non aderire” scandiva la posizione della sinistra, il “non sabotare” quella della destra riformista.
I rappresentati della sinistra – e tra questi Costantino Lazzari, all’epoca segretario del partito, e Giacinto Menotti Serrati, direttore dell’Avanti! – si batterono per tentare di coniugare la coerenza delle loro posizioni con il mantenimento dell’unità del partito.
Proprio questo atteggiamento compromissorio spinse la destra riformista a spostarsi via via su posizioni nazional-democratiche e ad esprimerle pubblicamente e all’interno delle aule parlamentari.
I Turati e i Treves rivendicavano per essi stessi quell’autonomia che ritenevano spettasse loro di diritto, in considerazione di un impegno politico ventennale che non potevano vantare gli uomini della sinistra. Anche in un momento in cui la leadership del partito sembrava essere passata in altre mani essi avevano mantenuto una netta egemonia, destinata a pesare non poco nelle successive vicende del dopoguerra, quando i massimalisti di Serrati preferirono l’unità con i riformisti a quella con i comunisti, impedendo la trasformazione del partito socialista in partito rivoluzionario.
Questo spiega perché i massimalisti furono un gruppo destinato ad essere stritolato nel breve volgere di pochi anni da nuovi protagonisti che compresero le necessità determinate da una nuova fase storica che attraversava il movimento socialista.
Ma se i massimalisti restarono prigionieri del ruolo di eterni interlocutori dei riformisti da dove provengono i militanti rivoluzionari che costituirono il Partito comunista d’Italia?
L’interrogativo è di fondamentale importanza per comprendere che alla fondazione del Pcd’I non si arrivò per un atto frettoloso e non adeguatamente meditato, autoritativamente imposto da Mosca, ma attraverso un percorso di formazione politica e intellettuale che fece trovare le avanguardie comuniste, presenti nel Psi, pronte a convogliare in un processo unitario, coeso, determinato alla costituzione del partito.
La direzione del partito socialista aveva beneficiato della spinta che proveniva dagli ampi movimenti di massa, che si erano affermati nel triennio 1911-14, ai quali la svolta della guerra libica aveva dato – anche quando si era trattato di azioni rivendicative e salariali – un netto valore politico.
Le lotte di quel triennio si saldarono con l’opposizione alla guerra europea quando già quella spinta dal basso aveva assicurato la direzione del partito socialista alla componente di sinistra.
La guerra moltiplicò la pressione operaia e popolare già esistente che sboccò in rivolte sanguinosamente represse ed ebbe, anche nei momenti più difficili – in special modo tra il 1916 e il 1917 – la caratterizzazione propria delle situazioni prerivoluzionarie.
Si poneva in quegli anni il problema della mancanza di un gruppo dirigente socialista rivoluzionario che interpretasse e indirizzasse in modo non effimero né avventuristico la volontà del proletariato, abbinando ad essa un coerente programma politico.
Pochi, tra i dirigenti socialisti di quel periodo, dimostrarono di essere capaci di contribuirvi e tra loro nessuno assunse un ruolo fondamentale nella formazione del Pcd’I.
Mancava la preparazione, la formazione idonea a metterli in condizione di svolgere questo compito.
Fu dalle file della Federazione giovanile socialista che si levarono le prime voci nuove di giovani studenti ed operai, alcune delle quali già mature al punto da smuovere il contesto del partito socialista, drammaticamente paralizzato dall’ingombrante – e paralizzante – presenza riformista.
Nel 1912, al congresso giovanile socialista, emergeva un animato confronto tra uno studente torinese Tasca – che voleva la trasformazione di “Avanguardia”, organo della gioventù socialista, in uno strumento di pura formazione culturale – e uno studente napoletano, Bordiga, che voleva rafforzare, nel giornale dei giovani, il carattere di strumento di lotta politica.
La discussione si focalizzava su due aspetti che riguardavano l’individuazione degli strumenti più idonei per una rivitalizzazione del socialismo: metodo critico e rinnovamento scientifico per Tasca, passione rivoluzionaria, lotta per il socialismo e movimento di classe che ristabilisca la visione l’obiettivo finale per Bordiga.
Questa premessa consente di comprendere i fatti successivi e, in particolare, le posizioni assunte nel biennio 1914-15, tra lo scoppio della guerra e l’intervento dell’Italia.
Non è possibile qui ricostruire tutte le posizioni emerse nel corso del dibattito che porterà alla maturazione della componente comunista all’interno del partito socialista. In quest’articolo verranno esaminate, nelle linee essenziali, quelle più rilevanti.
Una delle più efficaci polemiche contro l’intervento italiano nella guerra mondiale venne condotta da Bordiga. In un articolo pubblicato sull’Avanti! il 16 agosto 1914 – intitolato Al nostro posto – il giovane napoletano si schierava contro quei socialisti che ritenevano che “la neutralità non dovesse essere rotta per favorire l’Austria e la Germania ma potesse esserlo per sostenere la Francia”. Responsabile del conflitto non è – continuava l’articolo – uno Stato singolo o uno solo dei due gruppi di Stati, ma “la borghesia di tutti i paesi […] il sistema capitalistico, che per le sue esigenze di espansione economica ha generato il sistema dei grandi armamenti e della pace armata, che oggi crolla risolvendosi nella crisi spaventosa”.
Le argomentazioni di Bordiga avevano una lucidità e una coerenza che le distinguevano da posizioni analoghe. La denuncia del carattere imperialistico della guerra, la concezione dello Stato come Stato di classe, l’auspicio di una nuova Internazionale erano elementi che ponevano il giovane socialista napoletano all’avanguardia nel partito. L’adesione all’azione rivoluzionaria di Lenin era stata immediata, così come piena era la condivisione della posizione di Lenin sulla pace di Brest Litowsk nel 1918, mentre si coglieva anche in Italia il graduale crescere di fermenti prerivoluzionari.
Se esaminiamo l’itinerario dell’attività e del pensiero di Bordiga dal settembre 1914 alla fondazione del Pcd’I, possiamo coglierne lo sviluppo di un’azione originale attraverso lo sviluppo di una costante battaglia interna al Psi che non era solo manifestazione di intransigenza ma battaglia per un partito rivoluzionario.
Ed in questo senso va visto l’astensionismo, dapprima rigido, poi sempre più sfumato, fino alla rinuncia a tale posizione.
In quel periodo la nuova sinistra bordighiana si cominciava ad organizzare, con centro a Napoli, elaborava documenti collettivi, si presentava attivamente a riunioni e convegni, si emancipava via via dalla tutela della maggioranza massimalista.
Al Convegno nazionale socialista, tenutosi a Roma nel febbraio 1917, la mozione di sinistra presentata da Bordiga ottenne una forte affermazione, con oltre 14 mila voti contro i 17 mila della destra e del centro del partito, cioè del blocco che si era stabilito tra i riformisti e la direzione. La mozione bordighiana poneva il problema del rovesciamento del capitalismo e della preparazione rivoluzionaria in un quadro internazionale.
L’“Avanguardia”, diretto da Bordiga, divenne uno strumento di lotta in mano ai giovani, sempre più orientati in senso rivoluzionario e leninista, come dimostrano gli articoli scritti sulla Rivoluzione d’ottobre, che erano tra i più lucidi e penetranti tra quelli pubblicati dalla stampa socialista.
Un successo della sinistra rivoluzionaria si ebbe anche al Congresso socialista di Roma, nel settembre 1918, anche se la componente serratiana riuscì ad arrivare ad un compromesso salvando Turati dall’espulsione. Luigi Repossi, un noto operaio milanese, dopo aver ricordato l’esempio di Lenin, riassunse così la tesi che apriva una spaccatura non più rimediabile nel partito: “Più nessuna blandizie ma Classe contro classe: da una parte la borghesia, tutta insieme, contro di noi; dall’altra noi, soli, contro tutto il mondo; questo è il compito dei socialisti.”
Parallelamente all’azione di Bordiga viene emergendo la figura di Antonio Gramsci; all’inizio in modo ancora confuso, secondo una visione che intendeva liberare il marxismo, considerato come una forma di idealismo, dalle contaminazioni “di incrostazioni positivistiche e naturalistiche” che avrebbero caratterizzato lo stesso Marx. Si trattava del famoso articolo La rivoluzione contro il “Capitale”[1] – tante volte strumentalizzato nel tentativo di stravolgere il pensiero gramsciano – che rappresentava una tappa evolutiva del percorso che porterà Gramsci ad una corretta e piena comprensione del pensiero di Marx. La critica di Gramsci, in realtà, riguardava la lettura che la Seconda Internazionale dava del pensiero di Marx e risentiva della formazione maturata nell’ambiente universitario torinese, caratterizzato da una pesante egemonia crociana e gentiliana.
Già a partire dal settembre 1918 maturava un giudizio assai diverso, da parte di Gramsci, per quanto concerne la Rivoluzione d’ottobre. Nell’articolo L’opera di Lenin si affermava esplicitamente l’esistenza di uno stretto rapporto tra Marx e Lenin e tra il marxismo e la rivoluzione russa: “Lenin, applicando il metodo foggiato da Marx, trova la realtà e il profondo e incolmabile abisso che il capitalismo ha scavato fra il proletariato e la borghesia, e il sempre crescente antagonismo delle due classi”.[2]
La Rivoluzione sovietica accentuava il processo di avvicinamento delle forze rivoluzionarie che si muovevano nella sinistra socialista proprio mentre nella destra la ritirata di Caporetto aveva provocato una ripresa delle posizioni patriottiche all’interno del gruppo parlamentare socialista. I richiami turatiani alla “concordia nazionale” e alla necessità che il proletariato in armi si battesse “contro l’invasore” portarono al sostegno socialista al governo e aprirono profonde contraddizioni all’interno del partito.
Ad una riunione illegale che ebbe luogo a Firenze nel novembre successivo – questa volta con l’appoggio della direzione socialista, preoccupata delle posizioni assunte dai riformisti dopo Caporetto – si strinsero nuovi rapporti tra compagni di diverse città e regioni italiane, alla presenza di Gramsci, Bordiga, Fortichiari ed altri futuri protagonisti della scissione di Livorno.
Di fronte alla disfatta militare e alla disorganizzazione dello stato italiano, Bordiga e Gramsci sostenevano la necessità di agire. Ma la componente serratiana, presente alla riunione, si attestò attorno alla vecchia formulazione tattica “non aderire né sabotare la guerra”.
Al di là degli esiti immediati, quella riunione fiorentina segnò l’inizio di un rapporto di collaborazione che si saldava con la componente giovanile del partito che, nel settembre 1917, aveva dato la propria adesione alla componente rivoluzionaria del partito.
In quel clima si assisteva ad una rapida maturazione del gruppo di giovani socialisti torinesi che, dopo aver contribuito alla redazione torinese de l’“Avanti!” decise di dar vita a “L’Ordine Nuovo”. Furono soprattutto Tasca, Gramsci e Terracini ad animare questo nuovo progetto. All’inizio – scriverà Gramsci – “fu un’antologia, nient’altro che un’antologia”, indicando nell’influenza preponderante di Tasca il limite che fece dei primi numeri della rivista una palestra di esercitazioni culturali. Nelle fasi iniziali la concezione del processo rivoluzionario era piuttosto vaga e l’apporto di Gramsci non era ancora determinante.
Il contatto con la Rivoluzione sovietica[3] cominciò a porre in Gramsci interrogativi cui era necessario cominciare a dare una risposta. L’attenzione di Gramsci e del gruppo ordinovista era focalizzata sul problema di come andava organizzato il futuro Stato socialista in Italia. Anche le informazioni che il giornale torinese dava su Lenin e sulla Russia privilegiavano il momento di costruzione dello Stato sovietico rispetto a quello della conquista del potere.
Quest’impostazione risentiva di vecchi residui deterministici per cui la conquista del potere da parte dei bolscevichi era vista come una sorta di provvidenza della storia, nel quadro di un processo rivoluzionario che sarebbe avanzato in maniera inarrestabile; tuttavia, aveva il merito di aprire un confronto, che si rivelerà prezioso per la formazione del Pcd’I, con “Il Soviet”. La comune richiesta di un rinnovamento profondo nei metodi di lotta, negli obiettivi e nella struttura del partito socialista, le concezioni generali del processo rivoluzionario avvicinavano le due redazioni.
“L’Ordine Nuovo” sviluppò il proprio lavoro di ricerca collegandolo con il movimento operaio che emergeva nelle fabbriche torinesi e mettendolo in relazione con i Soviet russi, che venivano ad assumere un significato di forma organizzativa esemplare per l’organizzazione dello Stato. Nei Soviet – scriveva Gramsci – il lavoratore “acquista il senso della responsabilità sociale, diventa cittadino operante nel decidere i destini del suo paese”. Attraverso i Soviet “il potere, la consapevolezza si estende […] dall’uno ai molti, e la società è quale mai ne apparve nella storia”.[4]
La necessità di forme di organizzazione operaia richiamava l’esperienza russa dei consigli nella rivoluzione di febbraio e nei mesi che precedettero l’Ottobre. La rivoluzione era il passaggio fondamentale per far superare all’organizzazione operaia, “il cui sviluppo – chiariva Gramsci – [era] inceppato e compresso dalle istituzioni del vecchio ordine”, i limiti oggettivi imposti dal sistema capitalistico di produzione.
I consigli non si presentavano, nella concezione gramsciana, come un generico e astratto “contropotere”, né come isole liberate dal dominio del capitale, ma si connettevano direttamente con la questione del potere proletario.
Il dibattito tra “L’Ordine Nuovo” e “Il Soviet” fu fecondo e mai aspro. Il giornale napoletano poneva l’attenzione sulle questioni cruciali dell’assenza del partito rivoluzionario e della conquista del potere, come elementi centrali per dare pieno sviluppo all’organizzazione operaia, una volta che si è liberata dal giogo capitalista. Il 26 luglio 1919, Bordiga sottolineava l’importanza che doveva avere una “preparazione” fatta “allenando il proletariato alla conquista non solo, ma anche all’esercizio della dittatura” con uno sforzo organizzativo di “formazione dei soviet provvisori pronti ad insediarsi nei poteri locali e centrali e l’allestimento di tutti i mezzi”;[5] “sarà certamente utile incoraggiare la costituzione di questi comitati di fabbrica” – proseguiva Bordiga – anche se occorreva ricordare che fin quando “la fabbrica è ancora appartenente al capitale privato” questi organi non possono svolgere un ruolo pienamente rivoluzionario che si potrà concretizzare solo con l’assunzione del potere da parte della classe lavoratrice.
I due disegni dell’estrema sinistra del partito socialista, quello ordinovista e quello de “Il Soviet”, svilupparono un momento di sintesi nel programma massimalista deciso al convegno della frazione a Bologna che – premesso il rifiuto di “pericolose e ibride forme di collaborazione fra parlamento e consigli dei lavoratori” – affermava che “i nuovi organi proletari funzioneranno dapprima, in dominio borghese, quali strumenti della violenta lotta di liberazione”, per diventare durante e dopo la rivoluzione organismi di trasformazione sociale ed economica.
Tuttavia, nel 1919 il processo unitario non era ancora giunto alla maturazione dell’anno successivo. Al congresso socialista di Bologna, nel novembre 1919, Gramsci e “L’Ordine Nuovo” appoggiarono la componente massimalista, che venne illustrata da Serrati nel primo numero della sua rivista, “Comunismo”: “La revisione del programma del Psi non deve creare scissure che potrebbero essere gravemente lesive degli interessi della massa proletaria e della sua stessa rivoluzione. Dobbiamo volere, tutti uniti, che questo nostro partito, il cui nome glorioso nell’Internazionale non ha bisogno di essere mutato, proceda audacemente avanti su questa strada che altri ha già vittoriosamente battuto per noi”. La mozione di Bordiga – che si misurava su scala nazionale raggiungendo figure importanti quali Boero e Parodi a Torino, Fortichiari e Repossi a Milano – era incentrata sulla critica della falsa unità del partito, considerata come il primo ostacolo sulla strada della rivoluzione, e poneva la centralità della scissione, opponendosi in questo anche alla mozione massimalista.
In questo quadro l’astensionismo, che segna il limite più sensibile dell’impostazione bordighiana, era conseguenza dei danni provocati al movimento operaio dalla pluriennale pratica opportunista del gruppo parlamentare socialista, ancor più in una fase di grande fermento su scala interna ed internazionale, nella quale “il flusso alle urne avrebbe scongiurato – secondo Bordiga – l’urto della fiumana rivoluzionaria”.
L’insuccesso dello sciopero torinese della primavera del 1920 porterà importanti insegnamenti al gruppo gramsciano e segnerà un punto di svolta che renderà stabile la collaborazione alla frazione di Bordiga.
La necessità di combattere il riformismo sindacale e parlamentare aveva spinto Gramsci a partecipare al convegno della frazione astensionista, tenutosi a Firenze l’8 e 9 maggio 1920.
Lo sviluppo di questa relazione consentì di superare, senza eccessivi traumi, le divisioni interne alla redazione de “L’Ordine Nuovo”, la più acuta delle quali riguarderà Tasca e il suo tentativo di subordinare i consigli di fabbrica all’autorità del sindacato. Gramsci reagì duramente, sostenendo che “ogni tentativo di subordinare il Consiglio al sindacato non può che essere reazionario”.[6]
Dopo la sconfitta operaia, Gramsci indirizzava decisamente la sua attenzione sul problema del rovesciamento dei rapporti di forza all’interno del partito.
Nel documento intitolato Per un rinnovamento del Partito Socialista – approvato dalla sezione socialista e dalla federazione provinciale torinese e pubblicato su “L’Ordine Nuovo” – si prendeva posizione contro il centro del partito, colpevole di avere tollerato che i riformisti agissero in senso contrario alla spinta rivoluzionaria, e si chiedeva la trasformazione del Psi da partito parlamentare in partito comunista: “Il Partito deve acquisire una sua figura precisa e distinta: da Partito parlamentare piccolo borghese deve diventare il Partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l’avvento della Società comunista attraverso lo Stato operaio, un partito omogeneo, coeso, con una sua propria dottrina, una sua tattica, una disciplina rigida e implacabile. I non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito e la Direzione, liberata dalla preoccupazione di conservare l’unità e l’equilibrio tra le diverse tendenze e i diversi leaders, deve rivolgere tutte le sue energie per organizzare le forze operaie sul piede di guerra”.[7]
In quell’importante documento si chiariva che i consigli di fabbrica “per l’esercizio del controllo sulla produzione industriale e agricola” dovevano essere subordinati al partito e la proposta di epurazione del Psi dai riformisti era vista in funzione della “conquista rivoluzionaria del potere politico”. Quel documento era il punto di raccordo tra Gramsci e Bordiga, e la saldatura di una chiave di lettura comune che evidenziava il ruolo determinante del partito quale strumento di coordinamento dei problemi locali con quelli nazionali ed internazionali.
Era ora di operare un “profondo ripensamento” dell’esperienza dell’occupazione delle fabbriche, da cui derivava la centralità non tanto della capacità operaia di “autogovernarsi industrialmente e politicamente” quanto la questione dell’“avanguardia proletaria”, la cui mancanza aveva impedito di affrontare la questione della presa del potere. Era giunto il momento di colmare questa lacuna, occorreva lo “stato maggiore” in grado di organizzare e dirigere la rivoluzione, cui si poteva arrivare solo con un alto livello di coesione, rompendo con i vecchi schematismi legalitari, attraverso un’azione “condotta senza consultazione preventiva, senza apparato di assemblee rappresentative”; occorreva, insomma, il partito comunista.[8]
La “conquista del potere politico deve essere posta in modo esplicito”. Il proletariato deve essere “invitato a prepararsi e ad armarsi”, per l’attuazione del programma comunista: “controllo proletario sulla produzione e sulla distribuzione, disarmo dei corpi armati mercenari, controllo dei Municipi esercitato dalle organizzazioni operaie”.
Lo scontro economico poneva con sempre maggiore chiarezza il problema politico; lavoratori e padroni, anche dove non c’è una coscienza chiara come Torino, “sentono in modo istintivo e acquistano poi coscienza chiara della impossibilità di mantenere la reciproca posizione tradizionale. La coesistenza non è più possibile: o si ha per sé tutto il potere, o si è condannati a non più avere volontà valida”.[9]
Nel corso del 1920 si rafforzerà il rapporto unitario tra le due componenti che daranno vita al partito comunista attraverso alcuni elementi progressivi che possono sintetizzarsi, per grandi linee, così:
- La riflessione sull’incapacità del sindacato maggioritario – la Cgdl – e del partito di essere dirigenti di un movimento rivoluzionario, emersa in occasione dell’occupazione delle fabbriche.
- Il dibattito sui 21 punti fissati dal II Congresso dell’Internazionale Comunista come condizioni per l’adesione die singoli partiti all’Internazionale stessa. I 21 punti richiedevano espressamente una netta riclassificazione dei partiti operai come partiti comunisti rivoluzionari, liberati dai riformisti e dai continui freni compromissori che caratterizzavano la politica del centro serratiano.
- La presa di posizione antimassimalista, concepita come decisiva non solo ai fini della battaglia interna al partito socialista ma nell’ottica della soluzione del problema del partito attraverso la costruzione di una nuova forza rivoluzionaria.
- Il convegno di Imola del 28-29 novembre 1920 nel quale si costituì ufficialmente la frazione comunista, con un comitato nel quale Gramsci e Terracini si trovarono a lavorare fianco a fianco con la componente che era legata a “Il Soviet”, come dimostrava la nuova formulazione in cui si ammetteva la possibilità di partecipare alle elezioni, sia pure in funzione agitatoria, in cui era evidente l’influenza di Gramsci (oltre che di Lenin).
La Rivoluzione d’ottobre aveva tracciato la strada per i militanti che volevano liberarsi da logori legami che impedivano alle energie rivoluzionarie, presenti ma imbrigliate nel vecchio partito, di potersi pienamente realizzare. L’incoerenza, lo sbandamento, l’eclettismo esistenti nel partito socialista spingevano nella direzione di un partito nuovo, organizzato, coerente, disciplinato, perché solo una disciplina d’acciaio poteva consentire ad un partito rivoluzionario di far fronte ai propri compiti.
Il partito, scriveva Gramsci, nell’ottobre 1920 è “lo strumento e la forma storica del processo di intima liberazione, per cui l’operaio da esecutore diventa iniziatore, da massa diviene capo e guida, da braccio diviene cervello e volontà”.[10]
Qui si evidenziano, in tutta la loro forza espressiva, le convinzioni che spingeranno Gramsci a condividere la richiesta di fondazione del partito comunista. Un partito concretamente impegnato per la rivoluzione, per la quale, avvertiva Gramsci “i capi del movimento rivoluzionario [… non chiedono] per l’azione il consenso preventivo alle masse, procedendo alla consultazione nelle forme e nel tempo che essi hanno scelto: un movimento rivoluzionario non può invece fondarsi che sull’avanguardia rivoluzionaria, e deve essere condotto senza consultazione preventiva, senza apparato di assemblee rappresentative. La rivoluzione è come la guerra; deve essere minuziosamente preparata da uno stato maggiore”.
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[1]Cfr. A. Gramsci, Scritti giovanili 1914-1918, Einaudi, Torino 1958, pp. 149 e sgg.
[2] Cfr. A. Gramsci, Scritti giovanili 1914-1918, cit., pp. 307 e sgg.
[3] Cfr. La controrivoluzione, “L’Ordine Nuovo”, 15 maggio 1919.
[4] Cfr. A. Gramsci, Scritti giovanili 1914-1918, cit. p. 286.
[5] Preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale, “Il Soviet”, 20 giugno 1919.
[6] Ne seguì una lunga polemica, con il distacco definitivo di Tasca da “L’Ordine Nuovo”. Il disaccordo si verificò anche con Togliatti e Terracini che si mobilitarono, all’interno della sezione socialista torinese, attorno ad un programma “comunista elezionista” che non trovava l’accordo di Gramsci.
[7] Cfr. “L’Ordine Nuovo”, 8 maggio 1920.
[8] Cfr. Capacità politica, articolo non firmato, “Avanti!”, edizione piemontese, 24 settembre 1920.
[9] Al potere, “L’Ordine Nuovo”, 15 maggio 1920.
[10] “Il partito Comunista, “L’Ordine Nuovo”, 9 ottobre 1920.
Concetto Solano è membro di Red Militant, che aderisce al Fronte Militante per la ricostruzione comunista