Il mondo ha festeggiato il nuovo anno all’insegna del vaccino, nella speranza di potersi mettere alle spalle quello appena trascorso, guarendo definitivamente dalla pandemia che l’ha colpito. Con il taglio delle scorte e i ritardi nelle consegne delle dosi di Pfizer e AstraZeneca, l’entusiasmo ha cominciato a lasciar spazio alla preoccupazione. Il punto è che non basta un farmaco a fare la cura. Vale per l’individuo ma vale anche per la popolazione. Per la fisiologia dell’organismo le condizioni di vita incidono sul decorso di una malattia quanto la medicina pensata per curarla. Per quella dell’intera umanità, la modalità e la velocità con cui la medicina viene distribuita e prodotta incidono quanto il suo profilo farmacologico. L’economia politica è la farmacocinetica delle masse. Nel caso della pandemia da Covid, più spazio e tempo di diffusione si concede al virus, più strade gli si offrono per mutare, per diventare non solo più virulento o infettivo ma anche eventualmente capace di aggirare le protezioni immunitarie suscitate dai vaccini, vanificandone l’efficacia e ricominciando il ciclo. L’epidemiologo evoluzionista Robert Wallace ha chiamato “molteplicità di gregge”1 questa possibilità di esplorazione concessa al virus, in contrapposizione a chi riteneva che lasciargli libertà fosse la strada per raggiungere “l’immunità di gregge”. Un illusione svanita con i brividi suscitati dall’emergere delle varianti prima inglese, poi sudafricana e ora brasiliana. Come ha detto Philip Kraus, che coordina il gruppo di esperti sui vaccini dell’OMS, “la rapida evoluzione di queste varianti suggerisce che se è possibile che il virus evolva un fenotipo resistente ai vaccini, questo può accadere prima di quanto sperassimo”2. In questa corsa alle armi contro il virus, il sistema immunitario della nostra società soffre di pericolose patologie.
Vaccini e nazioni
Chi oggi volesse vaccinarsi deve farlo attraverso il sistema sanitario del proprio paese. Agli stati infatti è affidata la delicata campagna di vaccinazione. Anche se provano a saltarla, come ha riportato il New York Times, pure ai cittadini più abbienti tocca stare in fila. Si è così scongiurato il far west che avrebbe visto i prezzi gonfiarsi e gli operatori sanitari, insieme ad altre categorie esposte e vulnerabili, farsi scavalcare da una manciata di inutili ricchi. Ma la legge della giungla evitata all’interno si è ripresentata a livello internazionale. Gli stati non guardano in faccia al reddito dei propri cittadini, ma costringono gli altri stati a farlo. Cacciato dalla porta, il classismo vaccinale è rientrato dalla finestra in una forma mutata che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito “nazionalismo vaccinale”: la rincorsa a produrre e accaparrarsi per primi le scorte, in un tutti contro tutti che premia i Paesi con più risorse.
La stessa OMS ha provato a porvi rimedio da subito. Già verso maggio, quando si riempivano le prime pagine dei giornali con notizie sugli accordi bilaterali tra governi come quello statunitense o tedesco e aziende farmaceutiche come la Pfizer, sollevava le conseguenti problematiche sanitarie. Un’immunizzazione a macchia di leopardo non risolve una pandemia ed è anzi è condannata a trascinarla. Con lo slogan “nessuno è al sicuro finché tutti non sono al sicuro” ha allora lanciato, insieme alla Global Vaccine Alliance (partenariato pubblico-privato di cui, tra gli altri, è parte l’OMS stessa, insieme alla Fondazione Bill e Melinda Gates) e alla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (un altro partenariato simile, fondato al World Economic Forum di Davos nel 2015, in cui ancora una volta sono presenti, tra gli altri, sia l’OMS che la fondazione Gates), un programma denominato COVAX. Si tratta di uno dei quattro pilastri, quello vaccinale appunto, della Access to COVID-19 Tools Accelerator (ACT-Accelerator), piattaforma nata a fine aprile da un’iniziativa del G20 e dall’OMS, “per accelerare lo sviluppo, la produzione e l’accesso equo a livello globale delle tecnologie sanitarie essenziali contro il COVID-19”, e guidata dall’OMS stessa, in compagnia di partner pubblici e privati (tra cui, ancora una volta, l’onnipresente fondazione Gates). Attraverso il COVAX i paesi più ricchi (cosiddetti “self-financing”) possono prenotare le dosi di vaccino che desiderano pagando in anticipo una parte e dando il resto una volta giunto il prodotto. Il vantaggio per loro consisterebbe nella possibilità di mettere in comune le risorse accelerando lo sviluppo dei vaccini e riducendo il rischio di scommettere su quello sbagliato, visto che solo uno su dieci si rivela in genere efficace. I paesi poveri non devono contribuire se non eventualmente una volta giunto il vaccino acquistandone a prezzo molto calmierato le dosi. A coprire i loro costi sarebbero le donazioni pubbliche e private e addirittura l’emissione di appositi bond (gli IFFIm, coperti dalle donazioni di stati che si impegnano in pagamenti pluriennali). Per questi paesi rappresenterebbe una delle poche possibilità concrete di ottenere un vaccino in tempi ragionevoli3. Le dosi vengono infatti ripartite tra gli stati membri secondo criteri omogenei: i primi a esserne destinatari sarebbero gli operatori sanitari e sociali in prima linea e poi verrebbero gli over-65 e le fasce vulnerabili, dopodiché verrebbe vaccinata il resto della popolazione fino a raggiungere il 20% di copertura4. Solo superata questa soglia i paesi “self-financing” che avessero prenotato ulteriori scorte potranno riceverle, fino ad arrivare a una quota del 50% della propria popolazione.
Il primo obiettivo del progetto COVAX è stato quello di raccogliere 2 miliardi di dollari entro fine 2020 così da assicurare i primi accordi con le case farmaceutiche. L’obiettivo è stato raggiunto e questo dovrebbe garantire le prime forniture minime entro la primavera di quest’anno. Ma per riuscire a raggiungere il 20% della popolazione dei paesi membri entro la fine 2021 – in ogni caso un tempo lungo e una copertura assolutamente insoddisfacente – sono richiesti altri 7 miliardi di dollari.
A rischiare di compromettere l’impresa sono i numerosi accordi bilaterali milionari con le principali case farmaceutiche portati avanti dai paesi ad alto reddito. Mentre gran parte del mondo è totalmente tagliata fuori, molti stati tra Europa e Nord America hanno già acquistato scorte sufficienti a coprire più volte la propria popolazione.
Compresi i paesi che partecipano al COVAX, i cui membri “self-financing” possono portare avanti accordi fuori dalla piattaforma senza che questo gli impedisca di ricevere le dosi che hanno prenotato attraverso di essa. Lo stesso, sia detto per inciso, non accade invece per i Paesi definiti “funded countries”, quelli che ricevono le donazioni, che in caso facciano accordi che coprano il 20% o più della popolazione potranno ricevere le dosi COVAX solo quando tutti gli altri paesi membri avranno raggiunto la stessa percentuale5 – i rapporti di forza tra stati si riflettono anche nelle istituzioni pensate per mitigarli.
La difficile situazione in cui versa il progetto è stata riassunta dalle dure parole di Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore dell’OMS, nelle considerazioni di apertura della 148° sessione dell’Esecutivo dell’organizzazione del 18 gennaio, che vale la pena riportare: “Più di 39 milioni di dosi di vaccino sono state somministrate in almeno 49 paesi ad alto reddito. Solo 25 dosi sono state somministrate in un paese a basso reddito. Non 25 milioni; non 25 mila; solo 25. Devo essere sincero: il mondo è sull’orlo di un fallimento morale catastrofico – e il prezzo di questo fallimento sarà pagato dalle vite e dalle condizioni di vita dei paesi più poveri. Anche se si riempiono la bocca di equo accesso, alcuni paesi e aziende continuano a dare priorità agli accordi bilaterali, aggirando il COVAX, facendo salire i prezzi e cercando di saltare in prima fila. […] La situazione è aggravata dal fatto che la maggior parte dei produttori ha dato priorità all’approvazione legale dei paesi ricchi, dove i profitti sono più alti, piuttosto che presentare dossier completi all’OMS. Questo potrebbe ritardare le consegne di COVAX e creare esattamente lo scenario che COVAX era stato chiamato a evitare, con scorte, mercati sregolati, risposte scoordinate e continui sconvolgimenti sociali ed economici”.
Investimenti pubblici, brevetti privati
Fino ad adesso però ci siamo limitati ad analizzare il lato della distribuzione, il modo in cui viene ripartita una torta già data. Ma è la produzione a determinare la grandezza di ciò che poi va diviso. Nel settore farmaceutico a farla da padrone sono le multinazionali di base europea e americana, nonostante, come vedremo, nei mercati emergenti si stanno affacciando aziende capaci di insinuare in parte il loro monopolio. Un monopolio anche intellettuale, che mantengono a forza di brevetti e complessi sistemi di proprietà. Che però si rivelano un pericoloso ostacolo alla collaborazione scientifica in momenti di emergenza come questo. Se infatti la pluralità di attori coinvolti e la molteplicità di strategie di sviluppo aumentano le probabilità di produrre i vaccini giusti, al contempo “quelli che lavorano con nuove tecnologie sono disincentivati a condividere dettagli che potrebbero rendere più facile per gli altri risalire alle loro tecniche brevettate”6. Per sviluppare incentivi alla condivisione di questo crescente patrimonio di conoscenze, già a marzo Emiliano Brancaccio e Ugo Pagano pubblicavano sull’importante rivista The Scientist un appello che invocava un ampio intervento pubblico al servizio di alcune misure urgenti per facilitare la condivisione internazionale dei brevetti e premiare i ricercatori che condividessero le proprie scoperte. Poco dopo anche economisti blasonati e alla moda sostenevano l’importanza di un massiccio intervento pubblico in grado di superare quello che Mariana Mazzucato chiamava il modello di “scienza proprietaria” che “promuove la segretezza a fini competitivi, dà priorità alle regolamentazioni dei paesi ricchi rispetto a un’amplia disponibilità e all’impatto sulla salute pubblica globale ed erige barriere alla diffusione tecnologica”7. Un modello grazie a cui, come scriveva il premio Nobel Joseph Stiglitz, “le aziende farmaceutiche commerciali hanno privatizzato e bloccato per decenni i beni comuni intellettuali estendendo il controllo sui farmaci salvavita attraverso brevetti ingiustificati, frivoli o secondari, e facendo pressioni contro l’approvazione e la produzione di farmaci generici. Con l’arrivo di COVID-19, è ora drammaticamente chiaro che tale monopolizzazione avviene a costo di vite umane”8. Si dimenticava di specificare “vite umane occidentali”, visto che al resto del proletariato mondiale questa situazione è drammaticamente chiara da tempo.
La cosa paradossale è che senza enormi investimenti pubblici in ricerca di base, i vaccini ce li sogneremmo.
Come scrive Il Sole 24 Ore, “in generale il business dei vaccini, questa forse la verità più scomoda, è stato spesso considerato poco redditizio per le grandi case farmaceutiche, almeno non quanto farmaci brevettati per trattare e curare malattie anziché prevenirle e dove di conseguenza dirigono il loro impegno” (“impegno”, cioè capitali, nello strano gergo di Confindustria). Quando il vaccino funziona, infatti, la popolazione viene immunizzata e non ce n’è più bisogno. Senza bisogno però non c’è domanda, senza domanda non c’è mercato, senza mercato non ci sono profitti. Se si vuole lucrare sul male bisogna stare attenti a non estirparlo. Rispetto a molti altri farmaci i vaccini si distinguono poi per i loro alti costi di sviluppo e per i rischi di fallimento, legati alla complessità della risposta immunitaria che devono suscitare. Così “una manciata di aziende domina il mercato globale dei vaccini, vendendo essenzialmente varianti degli stessi 10-15 vaccini esistenti, con relativamente poca innovazione, nonostante l’esistenza di molte malattie infettive che sarebbero benefico affrontare con un vaccino”9. E anche questi mancherebbero se non ci fosse la ricerca portata avanti dalle istituzioni pubbliche e no-profit, di cui gli investitori privati sviluppano solo gli ultimi passaggi, che trasformano in brevetti. Vale in generale e ancor di più nel caso del Covid: “i candidati al vaccino a mRNA di Moderna e BioNTech/Pfizer, leader nel settore, si basano su 30 anni di ricerca pubblica e privata sul potenziale dei vaccini a base di RNA e DNA. Allo stesso modo, l’Università di Oxford (che in seguito ha collaborato con AstraZeneca), J&J, CanSino e Gamaleya hanno rapidamente riproposto per COVID-19 le loro piattaforme di vaccini adenovirus che erano state esplorate per molti anni e una varietà di malattie, tra cui più recentemente MERS-CoV, Zika ed Ebola”10. E si tratta di investimenti pressoché a rischio zero perché gli Stati e le istituzioni internazionali (come COVAX) pagano in anticipo le dosi che acquisteranno, concordando precedentemente il prezzo minimo e massimo. In cambio molte multinazionali hanno promesso di non trarre profitto dalle vendite fintanto che la pandemia è in corso, anche se a tutt’oggi non è affatto chiaro cosa questo significhi: per AstraZeneca ad esempio il limite è fissato fino a luglio di quest’anno e in generale i contratti soffrono di poco trasparenza, come denunciato dal Parlamento Europeo e riportato dal Financial Times. Ad ogni modo i profitti sono solo rimandati.
Come sottolineato da due economisti liberali de Lavoce.info, “il timore, quindi, non è solo che con prezzi troppo alti i vaccini non siano accessibili a tutti, ma anche che i contribuenti paghino due volte, avendo già largamente contribuito con le loro tasse alla sua scoperta e al suo sviluppo”. Nonostante questo nessun obbligo è stato quindi imposto perché metodi e risultati delle ricerche e dello sviluppo fossero condivisi. Al 28 ottobre dell’anno appena trascorso si registravano “più di 600 casi di contenzioso su brevetti legati al Covid-19, di cui quasi la metà negli Stati Uniti e un terzo in India e Brasile”11. Un tentativo di mitigare questa situazione è stato portato avanti dall’OMS il 29 maggio su proposta del presidente progressista costaricano Carlos Alvarado, dando vita al “COVID-19 Technology Access Pool” (C-TAP), una piattaforma ad adesione volontaria per la condivisione delle ricerche e della tecnologia utili a combattere la pandemia per attori pubblici e privati, che prevedeva tra l’altro un meccanismo per mettere in comune brevetti per un tempo limitato. Neanche questo è bastato. Al momento nessuna delle grandi aziende che stanno sviluppando i vaccini risultano aver aderito. Anzi, quando il progetto è stato lanciato il presidente della Pfizer lo ha definito inutile e addirittura “pericoloso”. Per questo lui e gli altri amministratori delegati delle principali multinazionali farmaceutiche si sono meritati il quinto posto nella deprecabile classifica “Martin Shkreli” (odiatissimo truffatore finanziario del settore sanitario) dedicata “ai peggiori esempi di speculazione e di malfunzionamento del sistema sanitario” redatta dal Lown Institute, un think-tank che si occupa di diritti alla salute12.
Uno scontro più serio è avvenuto all’Organizzazione Mondiale del Commercio (il WTO) dove il 2 ottobre Sud Africa e India hanno portato una mozione per una deroga temporanea ai brevetti che coprono le tecnologie mediche necessarie al trattamento e alla cura contro il Covid. A opporsi gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Canada, l’Australia, il Giappone, la Svizzera, la Norvegia, l’UE e il Brasile. La maggior parte di essi ospita aziende farmaceutiche che beneficiano della tutela dei diritti di proprietà intellettuale del WTO. Tutti, con l’eccezione del Brasile, hanno accordi bilaterali con aziende produttrici di vaccini13. Decine di altri membri del WTO, per lo più paesi a basso reddito, l’hanno invece sostenuta, compresa la Cina, nonostante già allora avesse diversi vaccini in fase avanzata di sperimentazione. La mozione è stata quindi rinviata e la discussione è continuata attraverso canali informali. L’ultimo incontro ufficiale a porte chiuse del 19 gennaio si è concluso in un ulteriore nulla di fatto, nonostante i paesi promotori abbiano continuato a insistere che il modo in cui “i principali sviluppatori di vaccini stanno gestendo la loro IP e le loro tecnologie è una delle ragioni chiave della insufficiente fornitura di vaccini”, come ricostruito da Reuters. Secondo Shailly Gupta, di Medici senza frontiere, i paesi che si oppongono “sembrano cercare deliberatamente di perdere tempo”. Il virus, però, il tempo non lo perde. Così mentre veniva sprecato tempo prezioso, è tornata loro indietro un po’ dell’amara medicina. Di fronte ai ritardi di AstraZeneca, l’azienda di base nell’Inghilterra dell’ormai compiuta Brexit, nel resto dei paesi UE si è aperta la discussione. “È urgente mobilitare tutte le riserve di vaccini. Anche se questo significa costringere BioNTech e Pfizer a dare in licenza il loro farmaco”. Così scriveva il redattore economico dello Zeit, in un articolo del 26 gennaio. “Per esempio, alla Bayer”, aggiungeva, e l’esempio ovviamente non è casuale. Però se ancora è un sussurro, l’ipotesi di una vera e propria sospensione dei brevetti comincia a farsi strada. E potrebbe diventare una voce grossa o addirittura la linea ufficiale se le cose continuano ad andare così. Come potrebbero diventarlo più probabilmente le ritorsioni, con le multinazionali che hanno base nella UE costrette dalla Commissione a privilegiare i paesi dell’Unione a spese del Regno Unito e di altri. “À la guerre comme à la guerre”, ha detto ai microfoni di Radio 24, Stefano Barisoni, direttore di Focus Economia, nella trasmissione del 27. La corsa all’accaparramento paventata dall’OMS rischia di colpire così gli stessi paesi che credevano di averla già vinta.
Luca De Crescenzo
Note:
1 Ne parla in una serie di articoli apparsi sul suo blog su Patreon. Uno di essi è stato tradotto in spagnolo a libero accesso su Izquierda Diario: http://www.izquierdadiario.es/Coronavirus-mas-sobre-la-cepa-Bojo-Boris-Johnson
2 Kai Kupferschmidt, “New coronavirus variants could cause more reinfections, require updated vaccines”. Science, 15 Gennaio 2021.
3 A questo tipo di aiuti vanno aggiunti quelli della Banca Mondiale, nella forma di 12 miliardi di prestiti per l’acquisto dei vaccini e dei programmi di sospensione del pagamento del debito avviati insieme al Fondo Monetario Internazionale.
4 Un recente articolo sul British Medical Journal ha criticato l’approccio, sostenendo che fare parti uguali tra disuguali è altrettanto iniquo. Eppure già questo sarebbe un passo enorme. Herzog, Lisa M., et al. “Covax must go beyond proportional allocation of covid vaccines to ensure fair and equitable access.” bmj 372.
5 Si veda: Rutschman, A. S. (2021). Is There a Cure for Vaccine Nationalism?. Current History, 120(822), 9-14.
6 McAdams, D., McDade, K. K., Ogbuoji, O., Johnson, M., Dixit, S., & Yamey, G. (2020). Incentivising wealthy nations to participate in the COVID-19 Vaccine Global Access Facility (COVAX): a game theory perspective. BMJ global health, 5(11), e003627.
7 Mariana Mazzucato e Elsa Torrelee, “How to Develop a COVID-19 Vaccine for All.” Project Syndicate, 27 Aprile 2020.
8 Joseph Stiglitz, Arjun Jayadev e Achay Prabhala, “Patents vs. the Pandemic.” Project Syndicate, 14 Aprile 2020.
9 Torreele, E. (2020). Business-as-Usual will not Deliver the COVID-19 Vaccines We Need. Development, 1-9.
10 Ivi. Ma si veda anche Arthur Allen, “For Billion-Dollar COVID Vaccines, Basic Government-Funded Science Laid the Groundwork”, Scientific American, 18 Novembre 2020.
11 Fabio Montobbio e Valerio Sterzi, “Nella ricerca del vaccino attenti al brevetto”, Lavoce.info, 13 Novembre 2020.
12 Qui la classifica: https://lowninstitute.org/projects/shkreli-awards/2020-shkreli-awards/. Notare come al secondo posto risulti Moderna, l’azienda produttrice di uno dei vaccini più quotati e il più costoso nonostante il miliardo di dollari di fondi pubblici che è riuscita ad accaparrarsi.
13 Si veda Mara Kaitlin, “Decision on intellectual property waiver over Covid technology on hold till 2021; what are the next steps?”, Medicines, law and policy, 18 Dicembre 2020.
Ronald Labonte e Brook Kaber “Dummy’s guide to how trade rules affect access to COVID-19 vaccine”, The Conversation, 9 Gennaio 2021.