Nella giornata di martedì 26 gennaio, in India ha preso corpo l’annunciata marcia dei contadini indiani sulla capitale Delhi. Da mesi, da quando a settembre il governo indiano presieduto dal Primo Ministro Narendra Modi ha approvato la nuova riforma dell’agricoltura, milioni di contadini si sono riversati nelle strade e nelle piazze per tentare di bloccare la liberalizzazione del mercato agricolo. Secondo Modi, le tre leggi contenenti la riforma porterebbero “vantaggi per decine di milioni di Indiani” permettendo la libera vendita dei prodotti agricoli non più vincolati ai prezzi fissi dei depositi statali. Tuttavia, in un Paese dove gran parte della popolazione dipende dal settore agricolo, l’apertura di questo settore all’ingresso delle multinazionali, con la crescita dei margini di profitto monopolistico, non può che condurre all’impoverimento di quelle decine di milioni di cittadini che soccomberanno di fronte ai padroni del mercato internazionale.
Questa situazione di minaccia ai diritti dei contadini e lavoratori agricoli indiani nasce appunto nel settembre scorso con l’approvazione delle tre nuove leggi sull’agricoltura, votate senza dibattito dal Parlamento, nel pieno della diffusione fuori controllo della pandemia: queste leggi riguardano sostanzialmente lo smantellamento del cosiddetto “mercato regolamentato”, che include il prezzo minimo di supporto per i produttori, che a sua volta era funzionale al Sistema pubblico di distribuzione, con cui lo stato forniva alimenti di base a prezzi calmierati agli indigenti; con questa riforma sarà possibile invece la commercializzazione della produzione agricola al di fuori dei mercati regolamentati all’ingrosso statale, questo comporterà che a fissare i prezzi saranno i grandi gruppi acquirenti, oltre al fatto che gli agricoltori perderanno anche i servizi essenziali offerti dai mercati statali (ad es. i silos, gli anticipi per le sementi, ecc.); inoltre, vengono abolite le norme che fissavano i limiti allo stoccaggio di derrate agricole, cosa che permetterà ai grandi gruppi di accaparrarsi derrate e immagazzinarle per metterle sul mercato quando più gli conviene. A questo si somma anche una legge sull’elettricità che peserà ulteriormente sugli agricoltori.
Immediata è stata l’opposizione massiccia dei contadini, a sostegno dei quali è schierato il blocco di sinistra dei partiti comunisti, le organizzazioni di massa contadine e i sindacati di classe dei lavoratori. Il 26 e 27 novembre 2020 un grande sciopero, denominato “Bharat Bandh!” (“Blocco Totale!”), ha paralizzato il paese con l’adesione di più di 250 milioni di lavoratori in quella che è stata definita la “più grande azione organizzata nella storia dell’umanità” grazie all’unità di tutte le organizzazioni contadine e dei sindacati dei lavoratori.
Mentre il 26 novembre è stato caratterizzato da una mobilitazione di sciopero dei lavoratori dipendenti, dell’industria e altri settori lavorativi urbani, contro le disastrose leggi contro i salari e le pensioni e a favore delle privatizzazioni, dal 27 novembre migliaia di agricoltori del Punjab e dell’Haryana hanno iniziato la loro lunga marcia verso la capitale di Nuova Delhi, portando avanti le proteste per più di 60 giorni ad oggi. Con loro si sono saldati nelle proteste e nelle manifestazioni, diversi settori del proletariato urbano e di quello agricolo, lavoratori dipendenti pubblici, come ad esempio i ferrovieri, che scioperando hanno paralizzato diverse volte il Paese in questi mesi.
Di contro, ad appoggiare la nuova riforma, oltre al governo di Narendra Modi, sostenuto dal partito di destra BJP, si è trovata, oltre ai monopoli del settore, una parte dei proprietari terrieri con grandi latifondi mentre i contadini, anche la minoranza più agiata, hanno compreso il potenziale pericolo. Da qui è nata negli ultimi mesi la forte unione contadina, unione che al contempo si è verificata anche in ampi settori della popolazione operaia, toccata allo stesso modo da altre leggi governative che mirano a comprimere i diritti vitali del proletariato.
Il governo borghese indiano si è quindi subito attivato, non per venire incontro alle richieste delle classi popolari ma per reprimere e colpire i milioni di lavoratori ed ha utilizzato le forze di polizia attaccando le manifestazioni in maniera cruenta. Migliaia di arresti, di feriti, centinaia di morti sono stati alcuni dei risultati ottenuti da Modi nella speranza di bloccare le proteste, blocchi, manifestazioni e marce; tuttavia, le rivendicazioni dei contadini, compatti e coesi come mai prima d’ora, e l’unità delle classi popolari indiane, non hanno visto arretramenti di sorta ed anzi hanno rilanciato e spronato i manifestanti e le organizzazioni promotrici.
Alle porte di Delhi, così come nelle capitali degli altri stati indiani, nelle ultime settimane si sono man mano formati i mahapadav dei manifestanti: questi sit-in che vedono la presenza giorno e notte di centinaia di persone accampate, si sono formati tutto intorno alla capitale, occupando anche l’autostrada. Nei caselli occupati dai manifestanti, il pedaggio non viene riscosso dai manifestanti che da fine dicembre qui si sono accampati sotto le indicazioni dell’SKM (Sikkim Revolutionary Front) e con l’impotenza delle autorità. I mahapadav sia quelli coordinati che quelli spontanei hanno costituito la base logistica e il banco di prova per la marcia di martedì, testando le capacità organizzative e l’unità delle organizzazioni e delle masse ed accogliendo la marea umana che nel corso delle settimane scorse arrivava da tutta l’India per la manifestazione.
Infine, nel giorno della Festa della Repubblica, il 26 gennaio, celebrata dal 1950 come una delle feste più importanti del Paese, al posto della tradizionale sfilata militare a prendersi la scena è stata la “Marcia Kisan” con centinaia di migliaia di persone, provenienti da ogni regione dell’India, dal Kerala al Bengala, che hanno sfilato con ogni mezzo, inclusi migliaia di trattori, per le vie della capitale, accolti da migliaia di lavoratori urbani e studenti, formando diversi cortei in quello che è stato definito “il più grande episodio di resistenza di massa dei contadini dall’Indipendenza”.
L’imponente mobilitazione si è presto trasformata in scontro, a causa anche delle provocazioni della polizia: i manifestanti hanno rimosso barriere e forzato i cordoni di sicurezza, respingendo le cariche degli agenti, gli idranti, i gas lacrimogeni ed anche i proiettili (si registra almeno un morto tra i manifestanti) irrompendo infine nelle zone calde della città, bloccando le metro e conquistando il Forte Rosso, simbolo della città di Delhi e della storia indiana.
Ancora oggi centinaia di manifestanti si trovano asserragliati all’interno dell’antica cittadella militare dell’impero moghul.
La rivendicazione principale rimane quella di ottenere il ritiro delle nuove leggi sull’agricoltura tornando al sistema di intermediazione statale che offriva una minima protezione ad un’ampia fetta di popolazione; questa fascia di popolazione, già duramente colpita sia dagli effetti del Covid e di una sanità pressoché insufficiente o privata sia dalla siccità che ha tormentato l’India negli ultimi anni, rischia di vedersi togliere, con le nuove leggi, anche quelle garanzie minime che gli permettevano di sopravvivere. Per comprendere meglio la situazione indiana, bisogna considerare che il 55% della popolazione del subcontinente è occupata nel settore agricolo, con 800 milioni di persone (su una popolazione di 1.300.000) che vivono direttamente o indirettamente della terra. Più dell’85% di essi, sono piccoli contadini (la gran parte di loro possiede meno di due ettari di terra) che sopravvivono tramite un sistema (proveniente dalla “rivoluzione verde” degli anni ’60 e ’70) di prezzi calmierati e centrali di acquisto statali sparse per il paese, che però al contempo non permette a questi di poter avere i mezzi economici e materiali per ammodernare il proprio lavoro, garantire condizioni di vita e di lavoro più sicure e migliori e non riesce a far uscire dalla logica dell’agricoltura di sussistenza centinaia di milioni di contadini, che rimangono in condizioni di povertà.
La popolazione contadina dell’India continuerà la sua battaglia fino all’abrogazione definitiva della reazionaria riforma agraria, respingendo le mosse del governo che da un lato ha promesso inutilmente una sospensione di 18 mesi per provare a placare le proteste e dall’altro mira a dividere e indebolire il movimento contadino (nei suoi diversi orientamenti), cercando di attrarne i minoritari settori più agiati e di isolarlo dal resto della popolazione con subdole argomentazioni che criminalizzano la lotta e la ghettizzano come “corporativa” di un gruppo sociale che teme di perdere i propri “privilegi” e si oppone alla “modernità”. Ma è evidente come siano proprio quegli ampi settori di piccoli contadini, poveri e marginali, e i lavoratori agricoli la parte più combattiva e massiccia che sta animando e trascinando questa mobilitazione popolare, che vede in prima linea le organizzazioni di massa legate ai partiti comunisti indiani, unificando ampi strati del proletariato su un piano di lotta generale contro il complesso di politiche antipopolari che il governo Modi, a beneficio degli interessi delle classi dominanti indiane, porta avanti in nome di quella presunta “modernità” che ovviamente non è altro che lo sviluppo monopolistico del capitalismo indiano, in ascesa nella piramide imperialista come “potenza emergente” nella competizione internazionale, dinamica che necessariamente apre enormi contraddizioni e spaccature nella società indiana.
Fino ad ora i risultati ottenuti hanno permesso il mantenimento delle posizioni e la sempre maggior pressione sull’esecutivo nel ritirare le leggi agrarie, accendendo i riflettori per l’opinione pubblica. La giornata del 26 gennaio ha segnato quindi un passo importante per le classi più povere dell’India che hanno trovato nella lotta e nell’unità, con l’importante contributo delle organizzazioni comuniste e del loro lavoro di massa e di avanguardia, la strada da percorrere per far valere il proprio peso sociale e politico e aprire la strada ad un contrattacco.
In questo frangente l’unità nella lotta si è dimostrata lo strumento più importante nel contrastare le violenze ed i soprusi del governo, delle forze repressive, dei settori borghesi dominanti e delle multinazionali che spingono per la liberalizzazione del mercato.
Una lotta che infonde ai lavoratori, agli studenti, alle donne, ai dalit, alle minoranze fiducia nel miglioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro e nella lotta di classe contro la borghesia e gli interessi del capitale sia nazionale sia internazionale, che anche nel settore agricolo mira ad ottenere il controllo della produzione e l’abbattimento dei costi a danno dei lavoratori. Ma non solo, le classi subalterne indiane mostrano al mondo come le masse possono tornare ad avere un ruolo da protagonista nello scrivere nuove pagine di storia, se ben organizzate e guidate da elementi rivoluzionari d’avanguardia quali i comunisti debbono essere, senza esser più le vittime sacrificali sull’altare dello sviluppo monopolistico capitalistico. Dalla saldatura di queste lotte dei contadini impoveriti e dei lavoratori agricoli con il crescente protagonismo dell’emergente proletariato industriale e dei servizi, due settori che stanno vedendo una grande espansione negli ultimi 20 anni di sviluppo del capitalismo indiano, si possono aprire prospettive importanti per la lotta di classe in India e a livello internazionale.
Giovanni Sestu
Fonti:
http://www.senzatregua.it/2020/12/29/in-india-non-si-fermano-le-proteste/
https://www.resistenze.org/sito/te/po/ia/poiakn14-023444.htm
https://www.cpim.org/pressbriefs/repeal-agri-laws-left-parties